Alessandro Parisi/Nei labirinti illuminati dell’istinto

La scomparsa, nei giorni scorsi, di un artista da sempre alla ricerca delle sue molteplici anime smarrite. Come si raccontò oltre venti anni fa

Alessandro Parisi/Nei labirinti illuminati dell’istinto
olio su tela di Alessandro Parisi - 1993

L’ultima immagine – ricevuta qualche giorno fa – lasciava soltanto vagheggiare i suoi lineamenti. Il resto era devastazione per lo sguardo, pietà, tenerezza infinita. Alessandro Parisi è scomparso da poche ore, al termine di un viaggio che non ha avuto, soprattutto negli ultimi anni, stazioni di sosta o di ristoro. Piuttosto una incalzante attraversata verso la morte. Ma credo – per il tempo della conoscenza – che lo abbia fatto, come al solito, con il sorriso lieve, in punta di piedi, senza troppe imprecazioni. Scrivere di un artista è complicato.

Scrivere della morte di un artista è faticoso. Direi addirittura “poco lucido”. Non ho voglia di centellinare ricordi o lampi; indossare parole da trincea o ribadire giudizi che oggi non hanno peso o fiato. Ho una sua lontana testimonianza: parole sue, riflessioni, pause, ragionamenti. Una intervista – o un resoconto? – donatami qualche decennio fa. Eppure attuale, viva, presente. Perché “raccontava” se stesso, la direzione del suo sguardo di uomo e di artista. Una rotta che non ha avuto incertezze ma ansie. La riprendo nella sua integrità e la affido alla lettura. Buon viaggio Alessandro, amico generoso.

Le origini della tua opera. Quali sono le motivazioni psicologiche che sollecitano la nascita del tuo lavoro artistico?

E’ difficile indicare delle priorità tra le componenti citate perché essi si fondono in un processo di integrazione e di sinergie, nell’UNICUM più complesso che è quello della esistenzialità. Certo è che le reminiscenze dell’infanzia solitaria agiscono come forte carica emotiva nei confronti di ogni cosa che mi circonda e che osservo. Da essi nascono i motivi delle operazioni creative, estrazioni poetiche prive di programmazioni teoretiche. Rifuggo dal costruire l’atto creativo con il pensiero, invero affido all’elemento psicologico “estemporaneo” che agisce come trappola sull’elemento captato, la confezione estetica più idonea. Agiscono in ciò anche le componenti ambientali: la geometria che la natura e la storia hanno donato al luogo dove vivo, la regolarità senza inizio né fine del tracciato romano, posto in una dilatazione di spazio piatto, assente di articolazioni inaspettate. I circuiti mentali possono espandersi liberamente, nella luce abbagliante della pianura, assente di ombre immanenti.

Nella sua intensità esaspera i colori delle cose, genera contrasti violenti pur conferendo il massimo splendore alle forme. Poi si affievolisce al tramonto, spegnendosi per poi ricominciare nuovamente. Sono i ritmi del tempo ininterrotti da cui nacquero gli “arcobaleni” e le “iridescenze”… lascio sempre una finestra aperta a questi elementi, nello spazio fantastico del creativo.

Veniamo ai materiali, ovvero alla capacità di gestire la manipolazione e la trasformazione di “oggetti” che appartengono, talvolta,  ai ritmi della nostra quotidianità.

Da una pietra di paracarro a forma semilunare concepii “l’occhio” (per la forma arcuata come il sopracciglio) e mi divertii molto nel rendere l’elemento mobile e cristallino dello sguardo, anteponendo forme molto illuminate e avanzate in corrispondenza degli “oscuri”, i cavi con cui indicai la colorazione di iride e pupilla. Nel 1975, con “Trilogia della recezione” presentata alla X Quadriennale di Roma, scelsi materiali “recettivi” – capaci di riscaldarsi se concentrati – che immobilizzavo all’occasione con scrosci d’acqua. I materiali statici non reagiscono (pietra, legno ecc.) e le forme recettibili così ottenute ebbero tormentati aspetti. Ricordo il nome di una di queste opere, il “Rifiuto del manico giallo” (dalla plastica di rifiuto raccolta nelle discariche) con un manico sporgente di una latta gialla fusa con altre azzurre e verdi; una sorta di “scultura da trasporto”.

Per le strutture in forte spessore di colorazioni distese ad integrare le forme, mi servo di grosse siringhe ma sono determinanti i ritmi e le pulsazioni nella pressione. Il cemento plasmato manualmente si contrappone all’acciaio, freddo e incorruttibile, e sulla sua superficie specchiante mi piace vedere il nuvolo, l’azzurro del cielo e il rosso del tramonto. Ma in ogni caso la realizzazione di tutto ciò è affidata a quello strumento insostituibile, super perfezionato che è la “mano”, e l’Uomo Faber rivive, nell’attività di scultore (“mano” nell’antichissima lingua sanscripto man = uomo, colui che ha la mano). Ora, con forza sulla pietra, sul ferro e sull’acciaio; ora, con levità ed estrema delicatezza. Ad essa affido sempre la conoscenza delle forme e della materia. Spesso socchiudendo gli occhi.

In una situazione epocale caratterizzata da esperienze di “esasperazione linguistica”, proponi con assoluta fermezza i valori storici ed esclusivi della pittura.

L’attuale esasperazione linguistica non mi stupisce, mi affascina, non la ritengo infruttuosa. E’ magma in movimento. D’altronde è un processo storico che si ripete, quello dell’esasperazione. E in una situazione epocale dominata dal culto  dell’immagine, era  prevedibile. Quasi tutti i movimenti innovativi dell’arte sono stati preceduti da momenti di “esasperazione” (vedi il “manierismo”). In più si inseriscono e si infittiscono, nei processi artistici, enormi quantità di immagini provvisorie e fittizie, accanto ai rigurgiti accattivanti di processi storici mal digeriti. I “media” contribuiscono poi a dilatare notevolmente questo scenario  e paradossalmente divengono, essi  stessi, protagonisti delle nuove tendenze artistiche di massa.  A dirla con il filosofo “tutto si muove” e si traduce; basta saper cogliere, anche negli aspetti più integrati le testimonianze e le aspirazioni più sincera di questa epoca. Ma è l’uomo, naturalmente, che genera l’arte e l’uomo è la dinamica stessa che da qui a 15 milioni di anni ha mutato se stesso, perfino nell’aspetto. E tutto l’avvicendarsi delle numerose soluzioni concettuali e stilistiche sono testimonianza di un percorso che non può prevedere alcuna interruzione. L’arte, prerogativa dell’uomo, finirà con esso.

La “materialità” del colore. Che rapporto hai con questo elemento prioritario del tuo lavoro?

Il colore, nella storia della pittura, è stato sempre organizzato sulle tele in differenti soluzioni stilistiche dipendenti da teorie specifiche. Sicché si può anche definire (secondariamente) un’arte del “Deposito”: in funzione grafico-bidimensionale, allusivo- Tridimensionale, chiaroscurata, luministica, a grandi aree distese, a piccoli accostamenti, in evanescenza, in esplosioni e così via. A parte le finalità concettuali è sempre lui, il “colore”, assoluto protagonista della rappresentazione. Ed io amo il colore, così come esso è, nel suo modo più semplice di essere, come materia colorata, non come strumento per simulare la finzione rappresentativa. Mi stimola fortemente quel suo essere, oltre che colore, materia, magma fluido, malta iridescente e manipolabile. Il mio rapporto con esso è intenso, carnale, mi piace stenderlo così come capita, direttamente dal tubo o con le mani; insieme ai più fortuiti attrezzi, accettando la sua capacità plastica, stratificandolo, anche esasperatamente, e consumandolo sulle superfici.

La pittura dei segni. Che significato ha questa sorta di tracciato labirintico che segna il tuo lavoro pittorico?

Rispondo in modo veramente sincero. All’inizio di ogni opera cerco di non pormi nessun problema, nessuna teorizzazione, né indagini interne o simbologiche da esprimere con “chiavi” particolari. E’ un atto essenzialmente plastico-cromatico, gestuale e caricato psicologicamente d’intensità espressiva. Il più delle volte, stratificazioni successive su di uno spazio (campito totalmente) che è inteso solo come “supporto”per l’azione del deposito; talvolta in maniera irruenta, come schermaglia, con affondi e indietreggiamenti, per realizzare, drammaticamente, una “pelle” pittorica sviscerata dalla sensorialità. Sovrappongo e accosto centinaia di striature in parallelo o in verticale; capovolgo ripetutamente il quadro e stratifico nuovamente, sempre con luce molto incidente, per meglio valutare il carattere materico del colore. Non simulo oscuri labirinti nei segni colorati, e se ciò avviene è partorito della dimensione dell’inconscio. Il “termine” di ogni opera, in genere, è nella impossibilità a procedere per consumo totale del colore. Il giorno seguente corro, con grande ansia, ad osservare ciò che ho fatto.

Veniamo all’atra faccia del tuo essere artista, al Parisi scultore. Ai temi e ai simboli di questa ricerca.

L’attività scultorea si innesta nel complesso creativo con opere fortuite ed in fasi che l’intuito favorisce. Non amo programmazioni di lungo percorso ed evito forzature di atti che nella spontaneità e nell’irrazionalità trovano un loro fascino. Tra le prime ricerche colloco quelle sui materiali colorati aventi forme già determinate che ho assemblato e deformato alla fiamma. Allora avevo bisogno di “violentare” delle forme e l’agire su corpi già esistenti mi liberava da ripetitivi compositivi. Forme pre-costituite servirono per altri assemblaggi (i giocattoli dei mie figli) e ricordo un piacevole corpo plastico ottenuto nella cavità di un coperchio di bidone. La forma era tutta là, in negativo, ma comunque già esistente, era inutile “costruirla”. Ad uno specchio, collocato sulla testa, ove si riflette lo spettatore, affidai l’identificazione della profonda contraddizione che è in ognuno di noi.

Attualmente sento attrazione verso forme articolate nello spazio (vele, arcobaleni, aquiloni, eliche) il cui corpo plastico scompare sostituito da elaborazioni pittoriche (come frammenti di dimensioni cromatiche) librate e consolidate nell’elemento tridimensionale. Non vado oltre e continuo un percorso esistenziale di scoperta; forse alla ricerca delle mie molteplici “anime smarrite”, e quando mi chiedono obiettivi e mete indico quella linea che tutto circonda, l’orizzonte, che pure cerco di raggiungere, ma dove mi aspetta “un uccello di fuoco”.

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