Bartoli: «Chi ha paura del futuro è già morto»

XXIX Congresso FNSI. L’INTERVENTO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ORDINE: «Sono felice di portare al congresso della Fnsi il saluto di un Ordine che considera l’unità e la coesione tra gli enti un valore fondante. Per ragioni ideali, ma anche perché è radicata in noi l’idea che la difesa dei principi, dei valori fondanti della nostra professione, della consapevolezza dei diritti e dei doveri connaturati al nostro lavoro non sia in alcun modo scindibile dalla difesa dei contratti, del diritto a una retribuzione dignitosa, del rispetto del lavoro di tutti i redattori, dei collaboratori e di chi svolge un’attività di lavoro autonomo. Inscindibile dalla tutela della salute dei lavoratori del settore e da una presenza e azione forte in campo previdenziale.»

Bartoli: «Chi ha paura del futuro è già morto»

Non viviamo, e non certo da oggi, una contingenza felice. Assistiamo a una crisi resa ancora più grave dai mutamenti dello scenario, ma anche da un indebolimento complessivo delle condizioni generali: da una cronica assenza di una strategia imprenditoriale in grado di garantire un futuro alle aziende, dal mancato aggiornamento della legge professionale che tiene fuori dalla porta chi fa giornalismo in forme nuove e neppure troppo nuove, a causa della forte inadeguatezza delle norme che dovrebbero difendere (e non ostacolare) la libertà di stampa. E in questo quadro il trasferimento all’Inps della gestione principale della nostra previdenza è un gravissimo colpo all’autonomia e all’indipendenza della nostra professione.

Cosa fare? Rassegnarsi a gestire un declino irreversibile?

Scagliarsi contro l’incalzare dei cambiamenti e cercare di ignorarli o bloccarli? C’è piuttosto bisogno di coraggio, di capacità di confrontarsi con le sfide, di voglia di innovare, di non aver paura del futuro; perché chi ha paura del futuro è già morto e, invece, questo Paese ha un bisogno estremo di buon giornalismo, di una informazione sana.

Per questo chiamiamo al confronto le istituzioni sui tanti capitoli aperti (querele bavaglio, legge sulla diffamazione, tutela del segreto professionale) che bene ieri ha ricordato il segretario nella sua relazione introduttiva. Abbiamo assunto iniziative importanti, con il massimo della nostra energia per correggere storture e gravi errori che si sono aggiunti alle vecchie magagne. Il decreto sulla presunzione di innocenza è un provvedimento sbagliato la cui filosofia si colloca in un’epoca predigitale. Viviamo tutti i giorni le storture di quel provvedimento e non mi dilungo, lo abbiamo fatto più volte, nel dettagliare le critiche a quel provvedimento. Sulle intercettazioni abbiamo detto, mi pare, parole chiare.

L’Ordine in questi mesi ha cercato di tener fede all’impegno di essere motore di cambiamento e innovazione e non esecutore testamentario di un mondo in via di estinzione. Potrei fare, a questo proposito, un lungo elenco di iniziative fatte o in corso, alcune delle quali assunte con un certo grado di sfrontatezza che si conviene a chi non si rassegna ad apparecchiarsi a una morte dignitosa. Ma sarebbe un esercizio di sciocca autocelebrazione. C’è piuttosto da pensare a quanto c’è ancora da fare.

Il giornalismo soffre di una duplice patologia: da una parte della disgregazione degli elementi che hanno garantito un equilibrio economico alle imprese del settore e dall’altra della progressiva perdita della centralità del giornalismo nella scena comunicativa. Sul primo aspetto abbiamo presentato, in sintonia con il sindacato, proposte concrete (incremento e rimodulazione del sostegno al pluralismo, restituzione del value gap da parte delle grandi piattaforme a chi produce informazione, seria politica antitrust che contrasti le posizioni di monopolio e dumping sulla pubblicità online).

Continuiamo a chiedere una seria politica sui social di cui il MFA rappresenta solo un timido antipasto e per far sì che la fabbricazione su larga scala di fake news cessi di costituire il business model più efficiente disponibile al momento. Lo diciamo anche perché le esortazioni a una automoderazione dei contenuti che transitano sulle piattaforme ci fanno sorridere, dal momento che gli algoritmi degli OTT sono progettati per diffondere e moltiplicare i contenuti che generano traffico, contenuti che si nutrono di discriminazione, incitamento all’odio, prevaricazione, diffamazione. Possiamo provare a persuadere le grandi piattaforme a assumere una diversa postura, ma penso sia inutile.

Per impedire la marginalizzazione dell’opera giornalistica nella scena comunicativa c’è invece una e una sola soluzione: includere e permeare dei nostri valori e della nostra etica quei profili professionali contigui, sovrammessi e intersecati con la nostra pratica professionale quotidiana. A chi storce il naso ricordo i nobili argomenti di chi, non più di 20 anni fa, affermava che gli uffici stampa erano la controparte dei giornalisti, di chi affermava che “loro fanno un altro lavoro”. La storia ha seppellito senza rimpianti queste concezioni antistoriche e insensate. L’intelligenza artificiale sarà l’impresa funebre che celebrerà la tumulazione, in tempi rapidissimi, di quelle forme di giornalismo poco qualificate, quelle delle notizie usa e getta, quelle del copia e incolla dei comunicati o del resoconto sugli stati emotivi trasmessi sui social da politici, soubrette, cantanti e calciatori. L’IA lo farà meglio, più rapidamente e gratis.

E allora dobbiamo riconquistare e difendere la credibilità e il valore del giornalismo di qualità: di questo dobbiamo parlare. Non condivido chi si appassiona alla diatriba tra pubblicisti e professionisti invece di parlare del futuro del giornalismo.

Io penso che stiamo vivendo una fase complicata, difficilissima, nella quale sia decisiva la nostra capacità di analisi, la nostra lucidità, la nostra determinazione, la caparbietà nel difendere i nostri valori.

Personalmente, ho vissuto la transizione dal caldo al freddo, la trasformazione del processo industriale editoriale e le sue ricadute sul lavoro giornalistico: ho visto telefax alti 1,5 metri, strisce stampate incollate su cartoni dai tipografi, dimafoni, archivi nei quali era più facile smarrire una foto che trovarla, ho visto fuori sacco, l’arrivo della teletrasmissione e della stampa a distanza, l’irruzione del digitale e la produzione da mobile. Il giornalismo è sempre cambiato, non ha mai vissuto fasi di stagnazione. Per questo il giornalismo non è morto e probabilmente vivrà ancora a lungo, in forme diverse, mutevoli, originali. In questi decenni le forme di diffusione dell’informazione sono cambiate, ci sono nuovi linguaggi, nuove piattaforme, ma in verità niente è cambiato: il giornalismo è, e sempre sarà, ricerca delle notizie e verifica delle stesse.

Dobbiamo però avere coraggio, essere innovativi, avere capacità di discutere e pure litigare ma anche forte coesione. Voi avete una responsabilità enorme. Alle vostre mani è affidato un tesoro straordinario: il sindacato, ossia l’azione comune di difesa e di valorizzazione delle condizioni di esercizio della professione, connessa a un bene di valore inestimabile, la solidarietà.

Per quanto ci riguarda, questa responsabilità ce la sentiamo tutta, ma siamo anche determinati a consumare ogni stilla di energia, di passione, di volontà, di determinazione per difendere il diritto delle giovani generazioni di poter avere l’onore, l’orgoglio, il privilegio di praticare la professione più bella del mondo.