«Con Lea Garofalo siamo stati tutti poco sensibili»
D.U., Operatore 118 Campobasso. Il testimone del 5 maggio 2009: «Subito loro hanno detto di essere state aggredite, che volevano essere refertate per questa cosa, in particolare Lea diceva di essere stata aggredita. La sua fisionomia è quella di una foto che circola in rete in cui ha i capelli legati; mi colpì la magrezza e la bellezza della figlia, il suo aspetto un po’ alternativo. A un certo punto arrivano i carabinieri».
«Presumo che lei abbia attivato prima i carabinieri, in ogni caso siamo stati i primi ad intervenire. La porta era chiusa, abbiamo bussato, apre Denise. Entriamo, c’è lei dietro questo tavolino di fronte, lei è con la figlia. Erano molto agitate per la concitazione ambientale. Io guardo subito questa cassetta degli attrezzi poggiata a terra, dall’ingresso era posata sulla destra. Addossata alla parete c’era questa cuccia del cane, un Alano femmina, mansueto, mite. Tant’è vero che Lea e Denise se la prendevano ripetutamente con il cane che non le aveva difese. Ovviamente parlavano in dialetto stretto calabrese, non era sempre facile capire il significato delle parole, la sostanza si».
E cosa succede dentro la casa?
«Subito loro hanno detto di essere state aggredite, che volevano essere refertate per questa cosa, in particolare Lea diceva di essere stata aggredita. La sua fisionomia è quella di una foto che circola in rete in cui ha i capelli legati; mi colpì la magrezza e la bellezza della figlia, il suo aspetto un po’ alternativo. A un certo punto arrivano i carabinieri».
E cosa accade?
«I carabinieri non vanno subito al merito della problematica, cominciano a fare delle domande: «Chi è? Chi ha chiamato? Perché è venuto questo?», addirittura ho avuto l’impressione che non fossero convinti del tentativo di omicidio, ma è umano. A un certo punto succede una cosa bizzarra».
Ce la racconti.
«Ho avuto la brillante idea, lo devo confessare con il senno di poi, di guardare sopra al frigorifero e vedo un pacchetto di sigarette, senza il cartoncino laterale…».
Sì, Lea fumava le canne…
«Si, si… a un certo punto faccio un cenno al collega, che lo prende. Non ricordo bene se ci fosse hashish o marijuana. Il collega lo prende e lo passa al vicebrigadiere, questo giustizialismo eccessivo, al ché il comportamento dei carabinieri cambia».
Che significa?
«Cominciano a urlare, «di chi è questo?», imprecando contro la donna. E lei urla e dice «io lo faccio per rilassarmi, voi dovete pensare a proteggerci, no a queste cose qua. Io non sono una criminale, non ho ammazzato nessuno». Gesticolava, sbatteva i pugni sul tavolo, cercava di imporsi, di far capire le sue ragioni. Ad un certo punto il carabiniere chiede alla infermiera donna di perquisire Lea Garofalo, e la dottoressa intelligentemente impedisce questa perquisizione. Quando la dottoressa vede che il problema non è più la questione aggressione, ma c’è un conflitto tra la pattuglia e loro due “ritira le truppe”. Esaurito il nostro compito ce ne andiamo. Scrive i documenti, fa un referto che consegna come copia anche a loro, e andiamo via».
Quanto tempo è durato il vostro intervento?
«Il tutto è potuto durare, approssimativamente, non più di quaranta minuti».
Ritorniamo alla cassetta degli attrezzi. Lei cosa ricorda?
«Era aperta, era una comune cassetta da idraulico, per dissimulare. Ascoltando la vicenda e rileggendo ho fatto mente locale. La cassetta era lì, di colore celeste. Era tra il cane e il tavolino, come se qualcuno l’avesse scagliata a terra e fosse fuggito».
In quella stanza c’era anche una lavatrice?
«C’era uno sgabuzzino, quello era un soggiorno, forse, con angolo cottura. Una casa piccolissima, potrei ipotizzare una quarantina di metri quadri, cinquanta».
Nella stanza c’erano coltelli?
«Mi sembra che lei ha tirato fuori il coltello, per dire «io mi sono dovuta difendere con questo».
In che stato avete trovato Lea Garofalo?
«Aveva dei segni non appariscenti, sul collo segni di pressione. Non c’erano ferite, escoriazioni, si vedeva che c’era stata una colluttazione».
La donna come era vestita?
«Aveva dei jeans stretti, scuri, pure la maglia credo fosse scura. Capelli raccolti, non era truccata in modo appariscente, era agitatissima. Si è cercato subito di calmarla, di far spiegare cosa fosse avvenuto, lei continuava a parlare in dialetto calabrese».
Lei ha deciso di fare questa intervista, senza rivelare il suo nome, perché?
«Per rendere onore a questa persona, perché credo di aver avuto un pregiudizio…».
Ci può spiegare il suo pregiudizio?
«Come se in realtà avevamo a che fare con una persona che faceva uso di sostanze, non credibile. L’ho scoperto dopo chi era, tutta la situazione. L’atteggiamento è stato di tutta l’equipe, lo devo dire per onor del vero e per rendere giustizia, in qualche modo, a questa donna. Siamo stati poco sensibili».
Può spiegare meglio?
«Si è fatto ciò che prevede il protocollo, redigere un referto, riempire una scheda. Non credo che siamo stati molto umani da confortare, essere più protettivi. È vero che ha rifiutato le cure, delle gocce di valium, ma lei voleva calcare la mano, tra virgolette, sull’avvenimento, come a dire «dimostrate che è successo questo», attraverso una scheda sanitaria, l’intervento delle forze dell’ordine. Con l’episodio del pacchetto le cose si confondono…».
C’è stata sensibilità da parte delle forze dell’ordine?
«No, per quello che ho visto io. Anzi hanno alzato la voce».
Quando uscite dalla casa notate qualcosa di particolare?
«Sì, quando siamo usciti lo scenario era radicalmente cambiato. Quando arriviamo non c’è nessuno, quando usciamo c’erano almeno una decina di poliziotti, tra quelli in divisa e in borghese. Avevano chiuso la strada con il nastrino. Mi ricordo la scena dell’addetto della scientifica con la valigetta che stava salendo in casa. Quella è l’ultima immagine di quella giornata».
La sua testimonianza è stata raccolta? Siete stati sentiti nel processo molisano contro Massimo Sabatino, il falso tecnico della lavatrice?
«No, mai. Ma è a discrezione del giudice, in primis viene convocato il medico, in seconda battuta l’infermiere…».
Gli altri componenti dell’equipe sono stati sentiti?
«Non mi risulta, io non ho più sentito parlare di questa storia».
fonte: Il Coraggio di dire No. Lea Garofalo, la donna che sfidò la 'ndrangheta