Fotografare ... dar voce al cuore

L'OCCHIO DEL SECOLO. «Gabbie sono le nostre paure, le nostre insicurezze, debolezze, fragilità, che non abbiamo il coraggio o la forza di affrontare, forse per timore di essere giudicati o per l’angoscia della solitudine. Molte volte, infatti, nella nostra società liquida del postmoderno globalizzato ci si ritrova ad essere “una solitudine insieme”.»

Fotografare ... dar voce al cuore

“Fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere”: questa la voce autorevole di Henri Cartier-Bresson, fotografo francese del ‘900, considerato un pioniere del fotogiornalismo, tanto da meritare l’appellativo di “occhio del secolo”.

 

Già, è proprio così. Quando scattiamo una fotografia, allineiamo contestualmente la testa, l’occhio e il cuore. Spesso, anche inconsciamente, cristallizziamo nell’immagine ciò che il cuore in quel preciso momento ci sta dettando dentro.

 

Una volta scattata, la guardi, riguardi, osservi attentamente i singoli dettagli e, ad ogni nuovo sguardo, cogli via via particolari aggiuntivi, che solo pochi secondi prima ti erano sfuggiti, quasi ne avessi fatto una lettura superficiale e frettolosa. Infatti, ti accorgi che ora quella lettura si fa sempre più densa, profonda, si arricchisce di significati. E, allora, in quel momento ti senti unanime con Proust quando afferma che “la fotografia è l’arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta”. È vero: un istante effimero è stato anche quello in cui hai attivato la fotocamera del tuo cellulare e digitato per scattare, ma di quanti diffusi e concatenati pensieri è stato poi foriero quello stesso istante!

 

Nell’immediato mi è venuto subito spontaneo un titolo per la foto: dialettica tra prigionia e libertà!

 

La ringhiera in ferro battuto si staglia su un grazioso muretto giallo ocra, abilmente decorato con greche ornamentali, ma tanta bellezza è nascosta, è in basso, latente. Prevale, invece, in primo piano la freddezza della gabbia, la chiusura dell’inferriata, la potenza opprimente del vincolo. Quante gabbie, quante inferriate, quanti vincoli ci imponiamo o ci vengono imposti quotidianamente nella nostra vita personale, familiare, professionale, sociale?

 

Gabbie sono le nostre paure, le nostre insicurezze, debolezze, fragilità, che non abbiamo il coraggio o la forza di affrontare, forse per timore di essere giudicati o per l’angoscia della solitudine. Molte volte, infatti, nella nostra società liquida del postmoderno globalizzato ci si ritrova ad essere “una solitudine insieme”.

 

Gabbie sono poi i numerosi pregiudizi nei confronti dell’Altro, nella poliedricità di piani: di genere, culturale, politico, etnico, religioso, sessuale.

 

Inferriate dure da divellere sono le angherie, i soprusi, le prevaricazioni di varia natura che una donna, dopo venti anni di matrimonio, è sicuramente stanca di subire da un uomo che si è detto marito per tutto questo tempo, eppure non riesce ancora a dare forma completa alla sua ribellione in nome della dignità di donna, madre, “bella” persona qual è, nel senso della kalokagathìa dei Greci.

 

A proposito di bellezza, le grate nella foto sembrano ingabbiare anche quella di una Natura, emblema di libertà, che è lì svettante, se si spinge lo sguardo poco più in là. Un alito vitale si respira da quella vegetazione lussureggiante, con quel verde acceso degli alberi in lontananza che fa trapelare speranza, fiducia, attesa di un cambiamento. Necessario.

 

Per ritrovare la pace e la serenità in se stessi e con gli altri. L’azzurro nitido del cielo, quasi completamente terso se non fosse per qualche nuvola bianca e soffice come panna che lo attraversa delicatamente, vuole dare conferma a questo miraggio. Qualche segnale di speranza, forse, vuole lanciarlo anche la stessa ringhiera, non del tutto connotata negativamente, come a cantare con Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”.

 

Gli spazi tra un'asta di ferro e l’altro che sono rientrati – casualmente (?) – nella foto sono dieci: il 10, secondo il filosofo Pitagora, è considerato il numero perfetto e costituiva il cosiddetto Tetraktys che, a sua volta, è la somma della successione dei primi quattro numeri e rappresentava i quattro principi cosmogonici.

 

Ecco, dunque, che proprio l’inferriata diventa il discrimen tra prigionia/e e libertà, la siepe che può far immaginare interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete di là da quella.

 

Solo così il naufragar può diventare dolce nel mare della nostra esistenza.