Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici

IMPUNITA’/14^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. «L'elenco degli esponenti politici e dei sindacalisti assassinati in Sicilia negli anni immediatamente successivi al 1945 è particolarmente lungo e con ogni verosimiglianza non è nemmeno completo, non bastando talora la sola personalità della vittima a qualificare il delitto».

Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici

L'altro strumento di cui la mafia si servì, negli anni immediatamente successivi alla liberazione, prima per impedire e poi per cercare di far fallire la riforma agraria, fu indubbiamente quello della violenza e della intimidazione, portate fino alle conseguenze estreme.

La mafia, come risulta da quanto si è detto, ha sempre perseguito il fine di limitare il diritto di proprietà, ma naturalmente lo ha fatto a beneficio di interessi privati e non della collettività. Perciò, quando si arrivò a parlare in termini concreti di riforma agraria, la sua azione fu decisamente diretta ad impedirne o almeno a ostacolarne l'attuazione, appunto perché la riforma doveva essere, nell'intenzione di chi l'aveva voluta, un'applicazione concreta del principio della limitazione della proprietà fondiaria, in vista non più di interessi singoli, ma di una maggiore e più estesa giustizia sociale.

Per perseguire questo obiettivo, e più in generale per frenare il progresso sociale delle popolazioni siciliane, la mafia non esitò a fare ricorso (soprattutto nei paesi dell'interno dove più sentito era il problema agrario) non soltanto ad un massiccio intervento più o meno intimidatorio nel corso delle competizioni elettorali, ma anche a una programmata azione di violenza contro coloro che si battevano per le riforme di struttura e per il processo di sindacalizzazione delle masse contadine, nel quadro di una politica unitaria diretta al miglioramento del tenore di vita delle classi lavoratrici.

In quegli anni, come già si è accennato, si sviluppò in Sicilia, sotto la spinta dei grandi partiti di massa, un movimento politico e sindacale che operò prevalentemente nel settore agrario, con l'apporto di elementi di tutte le tendenze, per incidere obiettivamente sulle strutture esistenti, con una serie di interventi che andarono dall'occupazione delle terre incolte alle rivendicazioni in materia di imponibile di mano d'opera e di riparto mezzadrile.

Contro questo tentativo di rinnovamento la mafia ingaggiò una lotta sanguinosa, colpendo senza pietà e privando il movimento sindacale, ed anche politico, dei suoi esponenti migliori, di ispirazione cattolica e socialista, non solo al fine di ostacolare la riforma agraria nella sua attuazione, ma anche perché non dovette sfuggirle che partiti e sindacati, rinnovati nelle strutture, potevano essere gli istituti, nei quali il singolo avrebbe finito col trovare la protezione necessaria, per uscire infine dall'angusta sfera di una visione individualistica e affrancarsi dalla sudditanza al potere illegale dei mafiosi.

L'elenco degli esponenti politici e dei sindacalisti assassinati in Sicilia negli anni immediatamente successivi al 1945 è particolarmente lungo e con ogni verosimiglianza non è nemmeno completo, non bastando talora la sola personalità della vittima a qualificare il delitto.

Comunque l'elenco più attendibile dei sindacalisti e dei politici caduti per mano mafiosa comprende gli omicidi di Vito Allotta a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Pasquale Almerico a Camporeale il 25 marzo 1947, di Nicolo Azoti a Baucina il 21 dicembre 1946, di Giuseppe Biondo a Santa Ninfa il 22 ottobre 1946, di Paolo Bongiorno a Lucca Sicula il 20 settembre 1960, di Calogero Caiola a San Giuseppe Tato il 3 novembre 1947, di Pino Camilleri a Naso il 28 giugno 1946, di Vincenzo Campo a Gibellina il 22 febbraio 1948, di Calogero Cangelosi a Camporeale il 15 aprile 1948, di Salvatore Carnevale a Sciara il 6 marzo 1955, di Giuseppe Carrubia a Partinico il 30 giugno 1947, di Giovanni Castiglione a Alia il 22 settembre 1946, di Margherita Cresceri a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Lorenzo Di Maggio a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Vincenzo Di Salvo a Licata il 17 marzo 1958, di Paolo Farina a Comitini il 28 novembre 1946, di Eraclito Ciglia ad Alessandria della Rocca l'8 marzo 1951, di Castano Ganco a Montedoro nel 1952, di Giovanni Grifo a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Gaetano Guarino a Favara il 16 maggio 1946, di Costanza Intravaia, Vincenzo La Fata, Filippo Lascari, Serafino Lascari, tutti a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Epifanio Li Puma a Petralia Sottana il 3 marzo 1948, di Vincenzo Lojacono a Partinico il 22 giugno 1947, di Pietro Macarella a Ficarazzi il 19 febbraio 1947, di Giuseppe Maniaci a Terrasini il 25 novembre 1947, di Giovanni Megna a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, di Accursio Miraglia a Sciacca il 4 gennaio 1947, di Vito Montaperto a Palma di Montechiaro il 13 settembre 1947, di Nunzio Passafiume a Trabia il 18 giugno 1945, di Vito Pipitone a Marsala l'8 novembre 1947, di Giuseppe Puntarello a Ventimiglia Sicula il 5 dicembre 1945, di Andrea Raia il 23 novembre 1946 a Casteldaccia, di Leonardo Renda ad Alcamo l'8 luglio 1949, di Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo 1948, di Leonardo Salvia a Partinico il 13 febbraio 1947, di Michelangelo Salvia a Partinico il 30 giugno 1947, di Nunzio Sansone a Villabate il 13 febbraio 1947, di Giuseppe Scalia a Cattolica Eraclea il 25 novembre 1945, di Giuseppe Spagnolo a Cattolica Eraclea il 13 agosto 1945, di Marina Spinelli a Favara il 16 maggio 1946, di Nicasio Triolo a Trapani il 10 ottobre 1948, infine di Francesco Vicari a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947.

Per la strage di Portella della Ginestra, fu imputata, come è noto, la banda Giuliano, ma quasi tutti gli altri omicidi, che si sono ora elencati, rimasero impuniti o perché ne restarono fin dall'inizio ignoti gli autori, o perché coloro che ne fluirono accusati alla fine vennero sempre assolti.

Sarebbe naturalmente impossibile e praticamente inutile rifare nei dettagli la storia di fatti così drammatici, che insanguinarono per tanti anni le campagne ed i paesi della Sicilia occidentale; ma non è possibile, anche per comprendere meglio un fenomeno così sconcertante, non fare particolare cenno, tra quali citati, ad alcuni casi più significativi, per il tempo, per l'ambiente e le circostanze che li riguardano, ed anche perché forse e più degli altri sottolineano l'incapacità che per quel periodo   caratterizzò l'amministrazione giudiziaria in Sicilia, di assicurare alla giustizia gli autori di tanti efferati delitti.

Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro di Sciacca, venne assassinato sul pianerottolo della propria abitazione nella tarda sera del 4 gennaio 1947.

Si iniziò procedimento penale a carico di Carmelo Di Stefano, Antonino Sabella, Francesco Segreto, Gaetamo Velia, Francesco Pasciutta, Enrico Rossi, Bartolomeo Oliva, Pellegrino Maroiante e Calogero Curreri, per avere i primi sei dato mandato agli altri tre di eliminare il Miraglia.

Ma la Sezione istruttoria di Palermo, con sentenza del 27 dicembre 1947, su conforme richiesta del Procuratore generale, prosciolse tutti per non aver commesso il fatto.

Successivamente sono stati compiuti vari tentativi per riprendere le indagini. Anche la Commissione ha avuto notizia di una lettera scritta al riguardo il 12 gennaio 1959 da un dirigente comunista, Antonello Scibilia, ed ha provveduto a pubblicarla integralmente in appendice alla relazione su mafia e banditismo (pag. 502), ma finora non è stato possibile far luce sull'efferato delitto, certamente determinato dall'interesse degli ambienti mafiosi a far tacere un oppositore sincero e instancabile.

Carmelo Silvia, sindacalista, Angelo Maccarella, sindacalista, Nicolo Azoti, sindacalista, Epifanio Li Puma, segretario della Federterra di Petralia Sottana, l'avvocato Vincenzo Campo, segretario provinciale della Democrazia cristiana di Trapani, (furono anche loro trucidati, a colpi di lupara e secondo la tecnica sperimentata degli agguati mafiosi, senza che se ne potessero individuare o almeno sospettare gli assassini.

Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro di Corleone, scomparve la sera del 10 marzo 1948. A distanza di oltre venti mesi furono ritrovati in una foiba della zona miseri resti umani che si ritenne gli appartenessero.

Un ragazzo dodicenne, che avrebbe visto gli assassini, tale Giuseppe Letizia, sconvolto e agitato, venne portato in ospedale, dove Michele Navarra gli praticò una iniezione, dopo la quale il piccolo Letizia morì. Quali autori dell'efferato delitto, vennero rinviati a giudizio, dopo una lunga istruttoria, Pasquale Criscione, Vincenzo Collura, Biagio Cutrupia e Luciano Leggio, allora già latitante per precedenti delitti, ma tutti furono assolti per insufficienza di prove dalla Corte d'Assise di Palermo, con sentenza del 30 dicembre 1952.

Dopo sette anni, il luglio 1959, venne confermata dalla Corte di Assise d'Appello, per divenire poi definitiva, quando fu rigettato dalla Cassazione il ricorso proposto dal pubblico ministero.

Anche per gli omicidi di Calogero Cangelosi, sindacalista socialista, di Vincenzo Lojacono e Giuseppe Carrubia, sindacalisti, di Nicasio Triolo, vicesegretario della Democrazia cristiana di Trapani, non fu possibile identificare gli autori; mentre la Corte di Assise di Appello di Palermo, con sentenza del 7 dicembre 1960, assolse per insufficienza di prove Bruno Isidoro, Gregorio Renzulli, Antonino Giambrone, Giuseppe Delizia e Giovanni Genovese, imputati dell'omicidio di Leonardo Renda, segretario della Democrazia cristiana di Alcamo, ucciso 11 anni prima, nel 1948.

Anche Eraclito Ciglia e Gaetano Genco dirigenti locali della Democrazia cristiana, come l'avvocato Vito Montaperto, segretario provinciale della DC di Agrigento, vennero soppressi da persone rimaste sempre ignote.

Salvatore Carnevale, socialista, organizzatore sindacale di Sciara, fu ucciso, come si è detto, il 16 maggio 1955. Vennero imputati dell'assassinio quattro mafiosi, Antonino Mangiafridda, Giorgio Panzeca, Luigi Tardibuono e Giovanni Di Bella, che furono condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Santa Maria Capua Vetere, a cui il processo era stato rimesso per motivi di ordine pubblico;

ma la Corte d'Assise di Appello di Napoli, giudicando in secondo grado, assolse gli imputati per insufficienza di prove, e la Corte di Cassazione rigettò il ricorso del pubblico ministero.

Pasquale Almerico, ex sindaco di Camporeale e segretario della locale sezione della DC, fu ucciso la sera del 25 marzo 1957, in un agguato, nel pieno centro del paese, nel quale fu ferito anche suo fratello Liborio e perse la vita un passante occasionale, Antonino Pollari.

Fu iniziato procedimento penale a carico di Giovanni Sacco, capomafia di Camporeale, di cui il Pubblico ministero chiese il rinvio a giudizio per i delitti di strage, di tentato omicidio e di associazione per delinquere; ma la Sezione istruttoria presso la Corte d'Appello di Palermo, con sentenza del 21 luglio 1958, prosciolse il Sacco per insufficienza di prove, pur non mancando di rilevare come il piccolo paese di Camporeale fosse tenuto in pugno dagli esponenti della mafia e quindi dal Sacco, tanto

da rendere impossibile al povero Almerico di continuare ad esercitare, con quella libertà e quella indipendenza di giudizio che egli giustamente pretendeva, le funzioni di sindaco e di segretario della DC.

Nello stesso periodo di tempo, oltre agli omicidi sindacali e politici, furono molte altre e altrettanto gravi le manifestazioni delittuose dell'attività mafiosa nelle campagne siciliane, in quel mondo in cui andava morendo la vecchia società pastorale ed agricola e si sperava che si sviluppasse una società moderna ed evoluta.

Basti pensare, per averne un'idea, che soltanto nel piccolo paese di Sanità Ninfa, in provincia di Trapani, furono ben 25 gli omicidi di marca mafiosa nell'arco di tempo che va dal 1946 al 1962, quelli in persona di Vito Chiaromonte, Grazio Morselli, Giuseppe Biondo, Giuseppe Salvo, Vito Palmieri, Francesco Di Stefano fu Alessio, Francesco di Stefano di Paolo, Vincenzo Mangogna, Giuseppe Mangogna, Salvatore Giambalvo, Vincenzo Biondo, Antonino Bellafiore, Salvatore Di Prima, Vincenzo Giambalvo, Nicolò Pizzitola, Giuseppe Martino, Mario Leggio, Pietro Cordio, Gemma Baldassarre, Francesco Di Stefano, Giuseppe Spina, Giacomo Spina, Giacomo Palmeri, Pasquale Di Prima, Tommaso Castiglione e Virgilio Piazza.

Anche nel territorio di Corleone, l'attività sanguinosa della mafia capeggiata da Michele Navarra e da Luciano Leggio ebbe continue esplosioni e toccò il vertice, con una lotta spietata tra le opposte fazioni, dopo l'eliminazione fisica del Navarra, esponente del gruppo mafioso avversato da Luciano

Leggio, e che venne crivellato di colpi in automobile insieme ad un ignaro compagno di viaggio, il dottor Giovanni Russo, il 2 agosto 1958.

Infine, in un'altra ristrettissima zona ad economia, nemmeno agricola, ma pastorale, quella che è compresa nel triangolo Mistretta-Xuisa-Pettineo, furono commessi, sempre in quegli anni ed in un periodo relativamente breve, 13 omicidi, anche essi di carattere mafioso, e tutti ispirati da causali spesso inverosimili in pieno secolo ventesimo, come il desiderio di un misero guadagno, la necessità di sfruttare un campo praticamente senza risorse, la rappresaglia per il furto di un animale, la vendetta per un motivo senza significato.

In particolare, il 12 febbraio 1953, a Pettineo, fu ucciso a colpi di pistola da persone rimaste sconosciute, Angelo Turrisi, un possidente che esercitava nella zona un predominio personale, quale noto e temibile mafioso del territorio delle Madonie.

Nella notte dell'11 agosto 1956, fu ucciso a fucilate, in Castel di Lucio, il bracciante Rosario Patti, ed anche questa volta gli assassini rimasero ignoti.

Il 6 gennaio 1957, in contrada Verdecanna di Mistrotta, fu uccisa la guardia giurata Liborio Frascone e il suo corpo venne poi dato alle fiamme.

Il 23 febbraio 1958, il fattore Vincenzo Franco fu strangolato nelle campagne di Tusa e il suo scheletro venne rinvenuto cinque mesi dopo, il 18 luglio dello stesso anno, senza che nemmeno questa volta fosse possibile assicurarle i colpevoli alla giustizia, dato che la Corte di Assise di Messina assolse gli imputati, per insufficienza di prove, con sentenza del 21 dicembre 1962.

Il 27 dicembre 1958, sempre nella zona di Tusa, venne ucciso con un colpo di fucile a lupara il pastore Francesco Nicolosi. Anche per questo delitto si brancolò nel buio per molti mesi, finché risultò che il Nicolosi aveva negato il diritto di passaggio su un proprio fondo ai fratelli Giuseppe, Giovanni e Santi Mastrandrea e aveva inoltre rubato a quest'ultimo alcuni bovini. Santi Mastrandrea fu allora accusato dell'omicidio del Nicolosi, ma la Corte d'Assise di Messina lo assolse per insufficienza di prove con sentenza del 21 dicembre 1962.

Il 6 aprile 1959, il pastore Calogero Macchio Calanni, residente a Castel di Lucio, venne ucciso da ignoti a colpi di lupara, in contrada Lassano di Tusa.

Il 28 settembre 1958, in contrada Lima di Mistretta venne trovato ucciso con colpi di scure il pastore Benedetto Chiavetta. Si procedette per l'omicidio contro Luigi Di Cangi, anche egli pastore, ma la Corte di Assise lo assolse ancora una volta per insufficienza di prove ed anche l'omicidio di Chiavetta restò così avvolto nell'ombra, senza che se ne conoscano gli autori e il movente.

Il 4 maggio 1960, il pastore Mauro Cassata, di 21 anni, e i fratelli Rosario, di 17 anni, e Angelo, di 12, nell'uscire dall'abitato di Tardara di Tusa, trovarono la morte sotto le raffiche di dieci colpi di lupara, sparati da ignoti che si erano messi all'agguato dietro un muretto.

Si procedette a carico di Placido Macina e dei fratelli Giovanni e Giuseppe Mastrandrea, ma in data 21 maggio 1961 la Sezione istruttoria presso la Corte d'Appello di Messina li assolse il primo per non avere commesso il fatto e gli altri due per insufficienza di prove.

Il 21 febbraio 1962, nella zona di Pettineo, venne ucciso a colpi di lupara il pastore Sebastiano Russo, ma anche questa volta l'Autorità giudiziaria prosciolse per insufficienza di prove e alcuni con formula ampia coloro che erano stati indiziati del delitto.

Sempre in agro di Pettineo, il 26 agosto 1962, venne ucciso un altro pastore del luogo, Angelo Rampulla, ma ancora una volta la Corte d'Assise di Messina assolse per insufficienza di prove Angelo Russo, che era stato rinviato a giudizio come autore dell'omicidio.

l 29 dicembre 1965 Salvatore Calogero Marchese, una guardia giurata dipendente dal Consorzio proprietari terrieri di Mistretta, venne ucciso in Contrada Castelli, a colpi di lupara, e come al solito gli autori rimasero ignoti.

Nemmeno un mese dopo, il 22 gennaio 1966, sempre a Mistretta, un pastore di Castel di Lucio, Giuseppe Alercia, venne ucciso con una fucilata in contrada Cigno d'oro, mentre il 24 marzo di quell'anno la terribile serie di omicidi, commessi nella zona di Mistretta, continuava con l'assassinio di Carmelo Battaglia, di cui si tornerà a parlare in seguito.

In complesso, come si è detto, furono tredici omicidi, a cui si aggiungono due tentati omicidi in persona di Giuseppe Antonio Gagliano (23 dicembre 1957) e di Nicolò Cangelosi (12 novembre 1960), anche essi compiuti sullo sfondo fosco di una natura selvaggia e avara, in un contrasto di sentimenti e di interessi, non sempre comprensibile per chi non abbia conoscenza di quelle zone e delle tristi condizioni che allora caratterizzavano le popolazioni locali.

Si trattò in tutti i casi, e non solo per quelli avvenuti tra Tusa e Mistretta, ma anche per gli altri omicidi, di cui si è prima parlato e in particolare per quelli che fecero vittime tra i sindacalisti e gli uomini politici, di manifestazioni di delinquenza, che erano intrinsecamente legate alle strutture prevalentemente agricole della società siciliana di allora, ed anche alle condizioni in cui si svolgevano l'agricoltura e le attività connesse.

Tra queste, la pastorizia, aveva allora (e in certa misura ha tuttora) un suo specifico rilievo, per le possibilità di occupazione che essa offre in certe zone dell'Isola, e per le difficoltà di mettere altrimenti a frutto ampie estensioni dell'entroterra siciliano. Ma in quegli anni la pastorizia si esercitava con animali bradi e con imprese armentizie in forme tali da tendere facili le infiltrazioni mafiose, così come è dimostrato, tra l'altro, dal fatto che alcuni capi riconosciuti della mafia, quali Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e lo stesso Luciano Leggio, furono proprietari o interessati all'allevamento di grosse mandrie di animali vaganti fra i diversi fondi.

Fu appunto da questa prevalenza nella pastorizia che trassero origine i delitti di sangue avvenuti tra Tusa e Mistretta e fu intorno al pascolo brado che nacque e si sviluppò quella che venne chiamata, nel periodo in cui fu più fiorente, la mafia dei pascoli, e che era costituita da varie componenti: anzitutto il capraio, proprietario di qualche decina di capi, che viveva una vita di stenti dietro ai suoi animali che, se pure pochi, potevano però arrecare grandi danni alle piantagioni, data l'estrema difficoltà di controllarli; poi il grande allevatore, che possedeva migliaia di animali fra capi grossi e piccoli e che, pur vivendo in città, era sempre pronto a dare man forte ai suoi uomini, rigorosamente e gerarchicamente organizzati, anche qui con a capo il campiere; infine, specialmente nei Nebrodi, ma anche nelle Madonie e nei  monti del palermitano, soprattutto a Piana dei Greci, la società dei pastori, di regola parenti fra loro.

In tutta la gamma di questa loro tipologia, di pastori di Sicilia erano, almeno nei decenni che seguirono la fine della guerra, tutt'altra cosa rispetto a quelli delle grandi imprese zootecniche delle Americhe, del centro e del nord Europa e della nostra stessa Italia, e si differenziavano anche dai pastori nomadi dell'oriente europeo e dell'Africa, in quanto, contrariamente alle abitudini di questi ultimi, non portavano la famiglia nelle loro peregrinazioni, ma la lasciavano nei paesi, lontano dai luoghi in cui vivono le mandrie, esponendosi così al pericolo di una maggiore irrequietezza e di una più viva insoddisfazione per il loro modo di vita.

A ciò si aggiunga che in una povertà di flora pabulare, dovuta all'eccessivo sfruttamento conseguente al sovraccarico di peso vivo per unità di superficie, gli animali non trovavano (e tuttora non sempre trovano) alimento sufficiente, soprattutto nei mesi più freddi e in quelli più caldi.

Ne derivava una frequenza di sconfinamento, che era in pratica impossibile evitare, e di conseguenza una serie di azioni di intimidazione nei confronti dei proprietari dei terreni vicini, o di ritorsione da parte dei soggetti che avessero ricevuto danni dagli animali bradi. Era perciò naturale in una simile situazione la presenza di pastori o di allevatori che diventavano mafiosi, per il modo stesso in cui vivevano e in cui esercitavano la loro attività.

Così si spiega, col clima di violenza, di intimidazione, di ricatti, che era proprio di quell'attività, la lunga serie di delitti che insanguinò le campagne tra Mistretta, Tusa, negli anni tra il 1945 e il 1960.

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1° maggio 2020La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo

Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e Banditismo

Decima parte, venerdì 5 giugno 2020, Le funzioni della MAFIA di campagna

Undicesima parte, venerdì 19 giugno 2020, Il capo della mafia di Corleone

Dodicesima parte, venerdì 26 giugno 2020, Il capomafia dell’intera Sicilia

Tredicesima parte, venerdì 3 giugno 2020, Le attività della mafia di campagna