I francesi si prendono la Bastiglia: è la Rivoluzione
Francia, 14 luglio 1789. Un intreccio inestricabile fra contesto politico generale, opzioni ideologiche dei singoli studiosi e dibattito sulle cause, la natura e le conseguenze della Rivoluzione francese ha caratterizzato per due secoli, e in gran parte caratterizza tuttora, la storiografia sull'argomento.

INTRECCIO DI MOTIVAZIONI E DI TEMI. Nella cultura storico-politica della Francia tale intreccio riflette innanzitutto una mai sopita «ossessione delle origini» (F. Furet), in quanto la Rivoluzione è avvertita, nelle coscienze dei singoli e nella memoria collettiva della nazione, come l'evento fondante della Francia contemporanea. In termini più generali esso si spiega con il ruolo fondamentale che la Rivoluzione ha svolto nella nascita e nello sviluppo dei movimenti politici e ideologici che negli ultimi due secoli si sono scontrati sulla scena europea e mondiale: liberalismo, radicalismo democratico, anarchismo, socialismo, comunismo, nazionalismo.
Dalla metà del XIX secolo, poi, la Rivoluzione francese è diventata un modello da imitare per i fautori di profonde trasformazioni sociali e politiche; per i sostenitori dei valori tradizionali e della conservazione sociale, invece, essa ha rappresentato la matrice esecrabile dei movimenti politico-ideologici considerati eversori dell'ordine costituito. Infine la ricerca, particolarmente insistita fra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, delle analogie fra la Rivoluzione francese e quella bolscevica esplosa nel 1917 in Russia ha proiettato sulla prima le divisioni e le passioni alimentate dalla seconda, trasformandosi non di rado in espressione di giudizi di valore sulla legittimità e auspicabilità della rivoluzione in sé quale strumento di trasformazione degli assetti politici, economici, sociali e in senso lato culturali di una collettività.
In questa prospettiva le differenti periodizzazioni proposte nello studio della Rivoluzione francese (1789-1794, 1789-1799, 1789-1815 o addirittura, come ha proposto Furet, 1770-1880) o il differente rilievo attribuito alle sue diverse fasi (liberale e monarchico-costituzionale del 1789-1791, democratico-giacobina del 1792-1794, dell'affannosa ricerca del juste milieu durante il Direttorio ecc.) e ai suoi protagonisti rinviano, in modo più o meno esplicito e consapevole, a orientamenti politico-ideali e storiografici diversi e talora opposti. Anche nello scorcio del XX secolo, benché si siano attenuate antiche contrapposizioni ideologiche e nonostante il moltiplicarsi dei temi e delle prospettive della ricerca storica sulla Rivoluzione francese abbia ridotto il tradizionale primato della dimensione politica ed economico-sociale, tutto quanto rappresenta (o è considerato) eredità della Rivoluzione non cessa di alimentare, come le celebrazioni del bicentenario hanno dimostrato, diversità di analisi e di giudizio spesso radicali.
“La presa della Bastiglia” (Jean Pierre Houel, 1789)
CONTEMPORANEI DEGLI EVENTI. Profonde differenze di valutazione divisero già i contemporanei. Se per I. Kant e molti suoi allievi più o meno dichiarati come F.G. Klopstock, F. von Schiller e G.W.F. Hegel, la Rivoluzione era «morale nella sua essenza» perché fondata sull'idea stessa del Diritto, l'inglese E. Burke, invece, ne condannava senza appello l'astratto universalismo dei principi, che non poteva generare se non anarchia o dittatura, e la volontà di rottura radicale con la tradizione e, in definitiva, con la storia. La tesi della Rivoluzione come frutto di un complotto illuministico-massonico contro la religione e la monarchia di diritto divino trovava un fervido e prolisso sostenitore nel gesuita abate A. Barruel (Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme, 1797-1799), mentre i cattolici ultramontani J. de Maistre (1797) e L.G.A. de Bonald (Observations sur l'ouvrage de M.me de Staël, 1818) respingevano, con un giudizio globalmente negativo sulla Rivoluzione, l'invito di B. Constant e di Madame de Staël a distinguere fra la rivoluzione "buona" del 1789-1791, fondatrice di un nuovo ordine basato sulla Legge e sul Diritto, da quella "cattiva" segnata dal Terrore e dalla dittatura giacobina.
STORICI DELLA RESTAURAZIONE E PRIMI CLASSICI. Questa "teoria delle due rivoluzioni" fu implicitamente accolta dagli storici liberali della Restaurazione: F.P. Guizot, F.A. Mignet e A. Thiers condannarono energicamente la fase giacobina della Rivoluzione, pur considerando quest'ultima, nel suo complesso, come il risultato positivo della crescita socioeconomica settecentesca e del correlato sviluppo della borghesia (le analoghe tesi del girondino A. Barnave, vittima del Terrore, furono conosciute solo nel 1843, con la pubblicazione postuma della Introduction à la Révolution française). Mentre F. Buonarroti ne La conspiration pour l'égalité dite de Babeuf (1828) riproponeva l'esperienza robespierrista e babuvista come modello positivo di lotta politica per l'instaurazione di una società comunista (riprese nel 1848 da L. Blanc e non a caso le tesi di F.N. Babeuf e Buonarroti sarebbero state studiate e rivalutate dopo la seconda guerra mondiale da storici di ispirazione filogiacobina o marxista come A. Galante Garrone, A. Saitta, C. Mazauric, V. Daline), maturavano, nel clima contraddittorio dell'ondata rivoluzionaria del 1848 e della restaurazione bonapartista del 1849-1852, le magistrali, ma molto diverse, letture della Rivoluzione proposte da J. Michelet (Storia della Rivoluzione francese, 1847-1853, ed. it. 1898) e da A. de Tocqueville (L'antico regime e la rivoluzione, 1856, ed. it. 1942). Per il primo, che collocava al centro della scena il Popolo, romanticamente inteso come indifferenziato portatore di istanze di giustizia e di fratellanza, la Rivoluzione era, nelle sue origini e nei suoi sviluppi, il frutto di un'indicibile miseria popolare, soprattutto contadina. Per il secondo, invece, essa era il risultato di un lungo processo di crescita materiale e spirituale e di sviluppo della borghesia. Quest'ultima, vera protagonista e principale beneficiaria della Rivoluzione, abolendo i privilegi e i particolarismi che erano l'essenza del sistema feudale e creando un modello di stato autoritario come quello giacobino-napoleonico, aveva completato l'azione livellatrice e di accentramento politico avviata alcuni secoli prima dalla monarchia assoluta contro la nobiltà feudale.
Nel clima infuocato della Comune di Parigi (1870-1871) e delle aspre tensioni politiche dei primi due decenni della terza repubblica veniva scritta e pubblicata l'opera più nota e fortunata della storiografia controrivoluzionaria: le Origini della Francia contemporanea (1875-1894, ed. it. 1986) di H. Taine. Muovendo da una concezione profondamente pessimista della natura umana, Taine vedeva nella Rivoluzione una pura esplosione di follia collettiva, in cui delle minoranze attive e senza scrupoli avevano manipolato (venendone spesso travolte, come apprendisti stregoni) folle che, in uno stato di forte tensione emotiva, avevano trasformato anche individui "normali" in belve sanguinarie. Contro questa vera e propria criminalizzazione della Rivoluzione si mobilitò la cultura laico-democratica della terza repubblica. I contributi più solidi e duraturi vennero, in questo senso, da A. Aulard e da J. Jaurès. Il primo, interessato soprattutto alla storia politica e religiosa della Rivoluzione, ne proponeva una lettura simpatetica («Per conoscere la Rivoluzione – egli scriveva – bisogna amarla»), ispirata al laicismo razionalista e al culto dell'idea repubblicana edell'unità nazionale, usciti vincitori dalla crisi dell'affaire Dreyfus.
Pur condannando gli eccessi del giacobinismo e del Terrore (Danton era stato, per Aulard, il più generoso interprete del «patriottismo rivoluzionario»), egli non contrappose mai una rivoluzione "buona" perché pacifica e ragionevole, quella del 1789, a un'altra "cattiva", quella giacobino-sanculotta, in quanto la violenza rivoluzionaria era stata solo «la risposta alla violenza di un passato che non voleva morire».
GRANDI ANALISI DEL SOCIALE. In una prospettiva diversa dalla storia politica "dall'alto" di Aulard si collocava, invece, la Storia socialista della Rivoluzione francese di J. Jaurès. Pubblicata (1901-1904, ed. it. 1953-1956) a fascicoli da Rouff, noto editore di romanzi popolari, fu un'operazione storiografica e, al tempo stesso, politico-culturale di grande respiro. Alla demonizzazione della Rivoluzione operata da Taine e all'ottica politico-elitaria di Aulard, Jaurès contrapponeva, in un'epoca in cui grandi masse si affacciavano organizzate sulla scena politica e sindacale, una lettura "dal basso" attenta ai fatti economici e sociali e centrata sul protagonismo dei ceti popolari. Per Jaurès la Rivoluzione, diretta dalla borghesia e resa possibile dalla crescita economica settecentesca, aveva vinto grazie al sostegno popolare e aveva liberato nuove forze produttive e sociali che nell'Ottocento avrebbero favorito lo sviluppo del proletariato e del movimento socialista.
La Storia di Jaurès fondava, così, una tradizione storiografica di orientamento giacobino che nei decenni successivi sarebbe stata ripresa e consolidata da A. Mathiez, fondatore della Societé des études robespierristes e direttore delle Annales revolutionnaires, poi intitolato "Annales historiques de la Révolution française". A una prima fase in cui prevaleva l'interesse, ereditato da Aulard, per la storia religiosa della Rivoluzione e nella quale le suggestioni della sociologia di E. Durkheim si fondevano con l'appassionato sostegno alla politica di J.L.E. Combes di netta separazione tra stato e chiesa, ne seguiva un'altra in cui dominante diventava in Mathiez la preoccupazione di esorcizzare la leggenda nera di un Robespierre e di una dittatura giacobina promotori solo di terrore sanguinario.
La repubblica democratica dell'anno II e la spietata intransigenza di Robespierre avevano avuto, per Mathiez, il merito storico di salvare la Rivoluzione nel momento di più grave pericolo, realizzando un'alleanza tra la borghesia intellettuale rappresentata dai montagnardi e i ceti medi produttivi e popolari organizzati nel movimento sanculotto. Dopo più di un secolo la rivoluzione bolscevica sembrava a Mathiez confermare la validità storica di quella alleanza e ripetere, in parte rinnovandole, forme di organizzazione e di lotta politica (dittatura rivoluzionaria di minoranze organizzate, che si ponevano alla guida di movimenti popolari più ampi ma eterogenei; dirigismo statale ed economia di guer ra; centralizzazione politico-amministrativa; politicizzazione di massa dell'esercito ecc.) sperimentate durante la Rivoluzione francese.
Il confronto fra quest'ultima e la Rivoluzione d'ottobre russa tendeva, così, a trasformarsi in assunzione di entrambe a modello di azione politica per la trasformazione rivoluzionaria della società. Invece in storici conservatori come P. Gaxotte (La rivoluzione francese, 1929, ed. it. 1989) tale confronto serviva a suffragare l'antico giudizio sulla Rivoluzione come opera del terrorismo ideologico e del settarismo superorganizzato di minoranze intellettuali, come quelle raccolte nelle "società di pensiero" e nei club rivoluzionari, destinati a generare la "dittatura comunista" dei montagnardi (qualche anno prima considerazioni analoghe aveva formulato, ma con ben diversa finezza intellettuale, A. Cochin in Les sociétés de pensée et la démocratie, études d'histoire revolutionnaire, opera pubblicata postuma nel 1921 e rivalutata decenni più tardi da F. Furet). Numerosi ed espliciti, ma spesso contrastanti perché funzionali a concezioni diverse del partito politico e del rapporto fra masse e leadership rivoluzionaria, furono nel primo Novecento i richiami all'esperienza della Rivoluzione francese anche in protagonisti di primo piano del movimento socialista e comunista come Lenin, R. Luxemburg, K. Kautsky e L. Trotsky. Pur attenta al ruolo dei fattori economici e sociali, la lettura della Rivoluzione proposta da Mathiez restava fondamentalmente politica e urbana.
RIVOLUZIONE E MONDO CONTADINO. Con G. Lefebvre la storiografia rivoluzionaria si apriva alla storia delle campagne e, soprattutto, elaborava un modello interpretativo in cui si intrecciavano strettamente economia, strutture e rapporti sociali, lotta politica, mentalità e psicologia individuale e collettiva dei protagonisti della Rivoluzione. Pur convinto che, per le forze che l'avevano promossa,per gli obiettivi perseguiti e i risultati raggiunti, la Rivoluzione francese fosse essenzialmente antifeudale e borghese, Lefebvre fu alieno da ogni schematismo e della Rivoluzione diede un'interpretazione multicausale e articolata.
Una profonda consapevolezza dello spessore e della capacità di resistenza delle strutture economico-sociali e mentali, soprattutto nel mondo rurale, lo spinsero a sottolineare, nella storia della Rivoluzione, oltre agli indiscutibili elementi di novità, anche fattori di continuità quali, per esempio, le resistenze contadine non solo al dominio feudale, ma anche ai processi di sviluppo capitalistico in atto in Francia già prima della Rivoluzione. La natura borghese di quest'ultima non escludeva quindi, per Lefebvre, antagonismi e compromessi più o meno precari fra le diverse componenti dello schieramento rivoluzionario. La rottura radicale fra la borghesia montagnarda e i settori più moderni della nobiltà feudale e le concessioni fatte ai contadini poveri per guadagnarne il sostegno alla Ri-voluzione avevano sì salvato quest'ultima e risparmiato ai contadini francesi la rovinosa proletarizzazione sperimentata da quelli inglesi, ma avevano anche rallentato il processo di trasformazione in senso capitalistico dell'economia e della società francesi.
Il modello interpretativo della Rivoluzione francese come rivoluzione capitalistico-borghese elaborato da Lefebvre e ulteriormente arricchito e articolato dagli studi di E. Labrousse e della sua scuola sulla borghesia e, più in generale, sull'economia e la società della Francia fra XVIII e XIX secolo era, dunque, più complesso e sfumato di quanto non risultasse dalle critiche di A. Cobban e di altri storici "revisionisti" come F. Furet e D. Richet o gli americani G.V. Taylor e C. Lucas, che dagli anni Cinquanta e Sessanta contestarono la definizione della Rivoluzione come essenzialmente antifeudale e borghese.
Per questi e altri studiosi la nobiltà e la borghesia, più che due classi antagoniste, erano le componenti di una nuova elite del danaro e del talento, entrambe interessate al superamento dell'antico regime. Rafforzando la piccola e media proprietà contadina e frenando la spinta alla piena affermazione dell'economia di mercato la Rivoluzione avrebbe non accelerato, bensì ritardato lo sviluppo del capitalismo in Francia.
Protagonista della Rivoluzione sarebbe stata, inoltre, non la borghesia imprenditrice, la sola interessata allo sviluppo del capitalismo e che dall'alleanza fra giacobini, sanculotti e contadini poveri fu invece penalizzata, bensì quella intellettuale e delle professioni. Più che mutare le strutture economiche e sociali della Francia, la Rivoluzione si sarebbe limitata a modificare le forme di legittimazione del potere e di svolgimento della lotta politica, giustificando un ricambio profondo dei gruppi dirigenti in nome della sovranità popolare e della volontà generale e fondando su queste basi un equilibrio instabile fra democrazia rappresentativa, dittatura di minoranze organizzate e cesarismo bonapartista (al ruolo dell'illuminismo democratico-radicale, soprattutto di J.J. Rousseau, e del giacobinismo nel passaggio dalla democrazia liberale a quella totalitaria è dedicato l'importante saggio di J.L. Talmon Le origini della democrazia totalitaria, 1952, ed. it. 1967).
UNA PROSPETTIVA MONDIALE. Scarsa fortuna ha avuto, la proposta interpretativa di J. Godechot (Le rivoluzioni, 1770-1799, 1963, ed. it. 1975) e R. Palmer (L'età delle rivoluzioni democratiche, 1959-1964, ed. it. 1971) secondo la quale la Rivoluzione francese sarebbe stata solo un episodio, sia pur decisivo e fortemente originale, di una più generale «rivoluzione occidentale» di cui quella americana sarebbe stata la prima rilevante manifestazione e che avrebbe contribuito ad affermare istanze democratiche fondate sull'eguaglianza, anche sociale, a fronte delle rivendicazioni aristocratiche e liberali, prevalentemente politiche, che avevano caratterizzato la prima fase della Ri voluzione.
Contro questa proposta, che aveva il merito di inserire la vicenda rivoluzionaria francese in un più ampio contesto internazionale senza cedere alle lusinghe, non infrequenti nella storiografia francese, di primati da rivendicare o da esorcizzare, insorsero soprattutto gli esponenti e i fautori della storiografia giacobino-marxista. Essi erano preoccupati che tale lettura della Rivoluzione francese ne offuscasse la specificità di «rivoluzione borghese a sostegno popolare» che, secondo A. Soboul, per prima aveva realizzato la transizione dal feudalesimo al capitalismo per via rivoluzionaria e non, come sarebbe invece avvenuto nel resto dell'Europa, soprattutto centrorientale, attraverso un compromesso politico tra la vecchia aristocrazia feudale e la borghesia finanziaria e commerciale. La controversia sul carattere capitalistico-borghese e a preminente valenza economico-sociale oppure esclusivamente politica e ideologico-simbolica della Rivoluzione, dominante negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si affievolì progressivamente negli anni Ottanta, pur senza esaurirsi del tutto.
DOPO IL BICENTENARIO. Nonostante le asprezze dei dibattiti svoltisi in occasione del bicentenario, non di rado amplificate e radicalizzate dai mezzi di comunicazione di massa per la loro coincidenza con i profondi sconvolgimenti politici e ideologico-culturali provocati dalla crisi del cosiddetto socialismo reale, il rinnovamento dei temi e dei metodi della ricerca tende ormai a superare la stanca ripetizione di vecchie querelles. Mentre il moltiplicarsi di monografie regionali e locali rende sempre più ricco, ma anche più complesso e diversificato, il quadro delle motivazioni e dei comportamenti delle forze in campo rispetto a quelle operanti nella capitale, tradizionalmente privilegiate dalla storiografia sulla Rivoluzione, nuovi campi di ricerca si aprono e altri, già arati in passato, vengono scandagliati sulla base di nuove domande e ipotesi di lavoro. La storia religiosa, per esempio, tende a privilegiare la dimensione antropologico-culturale rispetto a quella politico-istituzionale un tempo dominante (oltre ai lavori di M. Vovelle sono importanti, per esempio, quelli di B. Plongeron, Conscience religieuse en Révolution, 1967, e di M. Ozouf, La festa rivoluzionaria, 1976, ed. it. 1982).
La storia politica utilizza nuove categorie analitiche, come quella di sociabilità, per studiare le forme e gli strumenti del processo di acculturazione politica di massa realizzatosi in Francia durante la Rivoluzione (M. Agulhon, J. Boutier, P. Boutry) o si interessa alle trasformazioni del linguaggio e della simbologia politica (R. Balibar, M. De Certeau, D. Julia, J. Revel). La storia della cultura, pur non abbandonando i più tradizionali campi della biografia politico-intellettuale e dello studio del pensiero illuministico e rivoluzionario, si allarga alla storia delle istituzioni culturali ed educative (D. Julia) e dei concreti e tutt'altro cheomogenei processi di elaborazione e diffusione dei lumi (D. Roche, R. Darnton).
Lo studio dell'iconografia rivoluzionaria apre, poi, interessanti prospettive di ricerca, anche al di là della storia della mentalità, mentre nuove e più raffinate tecniche di rappresentazione grafica illustrano con evidenza ed efficacia inedite, nei volumi dell'Atlante storico della Rivoluzione francese, pubblicati a partire dal 1987, i processi politici, istituzionali, culturali, economici, sociali e di organizzazione dello spazio verificatisi durante la Rivoluzione. Al di fuori e al di là di vecchie, anche se non ancora del tutto sopite, polemiche sulla natura e sui meriti o crimini della Rivoluzione e dei suoi protagonisti, a due secoli di distanza dai fatti studiati la storiografia sulla Rivoluzione francese dimostra, dunque, tutta la vitalità di un cantiere di lavoro in piena attività.
LE FONTI: A. Gerard, La Rivoluzione francese. Miti e interpretazioni (1789-1970), Mursia, Milano 1972; L. Guerci, Rivoluzione francese, in N. Tranfaglia e altri (a c. di), Il mondo contemporaneo, Storia d'Europa, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1980; M. Terni, Il mito della Rivoluzione francese, il Saggiatore, Milano 1981; B. Buongiovanni, L. Guerci, L'albero della rivoluzione, Einaudi, Torino 1989; M. Vovelle (a c. di), Recherches sur la Revolution, La Découverte, Parigi 1991.
Angelo Massafra, docente universitario
Il vero autore de "La Marsigliese"