I giovani tra canne al vento e pini loricati

L'OPINIONE. «Oggi, 12 agosto, si celebra la Giornata Internazionale della Gioventù, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999 (risoluzione 54/120) allo scopo di evidenziare l’importanza della partecipazione dei giovani per lo sviluppo della società.»

I giovani tra canne al vento e pini loricati

Questa giornata vuole, dunque, portare le questioni giovanili all’attenzione della comunità internazionale e celebrare il potenziale dei giovani come partner nella società globale di oggi.

Potenziale dei giovani?!? Ma quali giovani? Gli sdraiati, svogliati, maleducati, disorientati, annoiati, tediati che costituiscono il popolo della notte della nostra società? Già, perché sono questi gli epiteti che, in una sorta di litania in rima baciata, sentiamo costantemente riferiti ai giovani di oggi quando si parla “di loro”.

E questo è un primo problema. Infatti, noi adulti – genitori, docenti, operatori nel mondo del sociale – dovremmo imparare ad ascoltare di più i giovani e parlare “con loro”. Li capiremmo più di quanto non li capiamo quando leggiamo o ascoltiamo le considerazioni di psicologi, sociologi, insegnanti, educatori che parlano “di loro”.

Il filosofo Umberto Galimberti, in “La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo” raccoglie la voce di tanti giovani che hanno un gran bisogno di essere ascoltati per poter dire quelle cose che molto spesso tacciono ai grandi – genitori, insegnanti, appunto, che dovrebbero essere il loro faro, la loro guida, il loro modello, punto di riferimento costante in un cammino di crescita e formazione in un’età così delicata – , perché temono di conoscere già le risposte, che avvertono lontane dalle loro inquietudini, ansie, problemi. E allora si affidano ad un ascoltatore lontano, che prende a dialogare con loro, non per trovare una soluzione certa ai problemi, ma per offrire un altro punto di vista, che li faccia apparire meno drammatici e insolubili.

Al nichilismo passivo della rassegnazione non sono pochi i giovani che sostituiscono il nichilismo attivo di chi, prendendo le mosse proprio da quel desolante scenario, e non da consolanti speranze o inutili attese, inventa il proprio futuro. Quante giovani menti, ad esempio, eccellono nel mondo dello studio, del sapere, della ricerca oppure quanti giovani sono impegnati fattivamente e si prodigano quotidianamente nel mondo del volontariato!

La realtà dei giovani è sicuramente articolata e complessa, ma non lo è più di ieri, perché le istanze rimangono sempre quelle: diventare grandi, innamorarsi, crearsi un futuro, avere dei legami stabili, divertirsi come vogliono divertirsi tutti. Non mi sembra che i giovani stiano chiedendo alla vita di più, troppo, o di meno, rispetto ai tempi passati.

È chiaro che siano figli di questo tempo. Anche loro avvertono il flusso e l’influsso della cultura nella quale viviamo: una cultura dove il consumo la fa da padrone, dove l’effimero vale più di ogni altra cosa, basta che aiuti ad apparire, ad emergere. Forse più di prima i giovani, oggi, risentono del fatto che ci sono degli adulti smarriti, e questo non genera e non provoca in loro grandi slanci. E cosa potremmo chiedere ai nostri ragazzi a fronte di un mondo adulto che gli slanci sembra averli proprio persi?

I ragazzi che ci vengono affidati – come figli, alunni – non cercano degli adulti perfetti, ma testimoni credibili e coerenti.

Spesso i gesti e i comportamenti, più che le parole, educano (o diseducano), segnano, scavano, creano scorie o sedimenti desolati e desolanti o strutturano, nell’intimo, spazi infiniti di luce e di speranza, di gioia. Di energia positiva.

La parola forma, ma di tanto in tanto non viene neppure ascoltata o recepita, viene gettata via lontano o accolta, al contrario, se la forza del linguaggio non verbale, talvolta la sua violenza o la sua ambiguità, la contraddittorietà degli sguardi e del corpo educante, degli abbracci e delle carezze trasmessi o impediti, vanno in altra direzione.

Gli altri ci osservano. I figli ci guardano. Gli allievi ci squadrano. E se non esiste coerenza tra il dire e il fare, la parola rimane sullo sfondo, perde di significato e assume anzi i connotati della menzogna, del ricatto, della impossibile praticabilità. Campeggiano così, nell’intreccio tra avvenimenti e percezione degli stessi, solo le condotte e gli atteggiamenti degli educatori. Ed è a quelli che gli educandi rivolgono maggiore attenzione, si ispirano e li seguono.

La migliore testimonianza è, allora, la coerenza (o la sua ricerca) tra la parola e il gesto. Non l’affanno della inesistente perfezione, ma la scelta dell’amore per l’educando e la crescita progressiva e non rinunciataria di chi ha deciso di educare.

È straordinaria l’etimologia di e-ducare, dal latino e-ducere, cioè tirare fuori, far emergere (come non pensare alla maieutica socratica o alla pedagogia maieutica di Danilo Dolci!) la bellezza intrinseca in ogni ragazzo/a. Tale bellezza interiore molte volte riesco ad evincerla attraverso la scrittura dei miei alunni. Una scrittura che, parola dopo parola, fa trapelare la loro notevole profondità di pensiero, la spiccata sensibilità d’animo che li connota. La voce rotta dal pianto durante la lettura del proprio elaborato, l’emozione e la commozione che si fa sempre più evidente e, a catena, fa rigare di calde lacrime i volti dei compagni che ascoltano, attenti, assorti, quasi incantati, in un’atmosfera di straordinaria empatia collettiva. È bellissimo quando capita, e non di rado: una catarsi pura.

Stesso scenario, ad esempio, quando la celebre citazione manzoniana dall’XI capitolo dei Promessi Sposi “Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto”, durante una lezione in DAD in pieno lockdown, ha fatto sgorgare parole accorate, sentite, sofferte da cuori provati, anime smarrite, corpi incatenati che desideravano gridare al mondo il loro impellente bisogno di riabbracciarsi e finalmente, in colorati giardini in fiore, senza alcun filtro, poterne cogliere tutta la fragranza.

La vita sarà complessa, ma non è mai troppo difficile, non può essere un peso da portare; in fondo è scritta dentro di noi la voglia di vivere, va affrontata serenamente e questo va detto e va portato, va testimoniato ai giovani. Dobbiamo motivarli e coinvolgerli, attraverso il nostro agire concreto, veicolando la passione che ci anima in tutto quello che facciamo, perché, se non mostriamo che c’è qualcosa che ci scalda il cuore, non possiamo scaldare il cuore dell’altro.

Con la stessa rapidità con cui si spengono i giovani sanno anche riaccendersi, ma ci vorrebbe un terreno più fertile che sostenga la loro crescita. Nonostante tutto, c’è da dire che i giovani lo slancio non l’hanno perso. Quelli che ho la fortuna e il privilegio di incrociare tra i banchi di scuola – sicuramente una minoranza, ma una buona rappresentanza – sono giovani che ti danno il cuore, sebbene dichiarino questo senso di smarrimento. Continuano ad essere sensibili riguardo i grandi temi di sempre, che sono la ricerca di senso, i legami, le domande esistenziali, ma oggi, per esempio, si mostrano più sensibili degli adulti rispetto a temi nuovi, come l’ambiente o l’educazione alla diversità, vissuta come ricchezza e non come limite, o rispetto alla cultura della legalità, nella sua variegata fenomenologia.

Nella nostra società liquida, proprio come Vittorino Andreoli, anch’io riesco ad immaginare un nuovo umanesimo: l’umanesimo della fragilità. E dentro l’umanesimo della fragilità è possibile un’educazione della fragilità. In “L’educazione (im)possibile. Orientarsi in una società senza padri” l’autorevole psichiatra utilizza un’immagine emblematica e, a mio avviso, particolarmente illuminante: il vaso di Murano. Realizzato dai soffiatori del vetro di questa meravigliosa isola veneziana, esso colpisce per la forma e i colori. Effetti possibili soltanto perché questi artigiani riescono a modellare un vetro molto sottile con un’abilità straordinaria, attraverso l’aria che vi soffiano dentro, mentre la pasta di vetro è ancora plastica, duttile, e perché, grazie ai pigmenti che da veri maestri inseriscono nelle sottili pareti, le colorano fino a farle sembrare dipinte. Il vaso di Murano si può rompere facilmente e ha proprio un punto, definito di minore resistenza, che se viene colpito riduce quella sua straordinaria bellezza in frammenti. Non si può dire che sia debole, mentre gli si adatta perfettamente la definizione di fragile. Si tratta di una caratteristica peculiare, legata alla sua struttura, all’essere vaso di Murano. E conseguenza delle caratteristiche che lo rendono così bello. Non è un difetto, ma parte della sua condizione. Questa è la concezione e il senso della fragilità. I nostri giovani, fragili per natura, figli di un’epoca che non li aiuta facilmente a rinvigorirsi e corroborarsi, vanno accompagnati da abili soffiatori del vetro a (ri)scoprire il patrimonio di eccezionalità e meraviglia presente nella storia di ciascuno di loro.

La fragilità e, quindi, la singolare bellezza nel loro “essere vasi di Murano” diventa così punto di forza per potersi trasformare finalmente da canne al vento in pini loricati.