Il figlio del boss dei boss in Abruzzo. E “Riina” diventa un brand

PRIMA PARTE. Il figlio di Totò Riina, autore della inaccettabile biografia della sua famiglia, sbarcato in Abruzzo esalta sui social i genitori. E cerca di costruire un vergognoso brand. Condannato ad otto anni per associazione mafiosa, l’autore era stato inizialmente destinato ad una comunità padovana. Dove svolgeva servizi di segreteria. In quegli anni viene pubblicato il suo primo libro (ne ha annunciato mesi fa un secondo di cui non si conosce ancora nulla). Nel 2011 si sparge la voce che Salvo Riina potrebbe tornare a Corleone. Non sarà così ma, allarmato dalla possibilità, il consiglio comunale all’unanimità vota un ordine del giorno in cui lo definisce “persona non gradita”.

Il figlio del boss dei boss in Abruzzo. E “Riina” diventa un brand

di Alessio Di Florio

RIINA. Un cognome che da decenni, nel sangue e nei crimini più orrendi, segna le vicende del nostro Paese. Pagine terribili, e per certi versi anche oscure, di cui non si riesce a vedere la fine. Morto il boss Totò Riina, condannato al carcere a vita il primogenito Giovanni, negli ultimi anni i riflettori mediatici si sono accesi varie volte sul terzogenito Giuseppe Salvatore detto Salvo. E sul rapporto con la figura paterna e la sua famiglia, su cui ha scritto un libro “Riina family”. Oggetto anche della famosa controversa intervista a “Porta a Porta”, nel libro Salvo Riina tratteggia il ricordo di una famiglia “amorevole” e di un padre il cui affetto, si lamenta, gli è stato tolto per troppi anni. Un libro in cui, quasi intendendo una sorta di protesta per questa brusca interruzione, disse di aver raccontato “la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto”. E di non aver voluto scrivere delle persone ammazzate dal padre perché “la meglio parola è quella che non si dice”. Un silenzio che “non è omertà” perché a lui “interessava raccontare, far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensavano di poterla giudicare”. Scrive Salvo Riina che per anni a lui e ai suoi fratelli era stato detto che il loro cognome era Bellomo. Quando scoprì la verità disse di non aver mai chiesto spiegazioni, perché in casa sono “cresciuti abituati a non chiedere”.

In nome del “rispetto” e di “un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali”, che a lui “piacciono” perché li considera “forti e sani”.  In un’intervista dichiarò “per me è un orgoglio chiamarmi Riina. È un cognome che mi è stato dato da due genitori capaci di insegnarmi tante cose: i valori, la morale. Io sono onorato di essere figlio di Totò Riina e Antonietta Bagarella”.

Un padre, Totò Riina, di cui disse di voler difendere la “dignità” e “la sua coerenza quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati”. Così come ha candidamente ammesso di non sapere cos’è la mafia, perché non se lo è mai chiesto. O che a casa hanno “vissuto sempre nella massima tranquillità” e i genitori gli hanno trasmesso “il bene e il rispetto” e “se oggi sono quello che sono lo devo ai miei genitori. Perché devo dire che mio padre ha sbagliato?”

Parole inqualificabili, che hanno già scatenato negli anni scorsi forti polemiche (la casa editrice dopo la pubblicazione del libro fallì). È lo stesso personaggio che al telefono nel 2001, passando in auto all’altezza di Capaci, protesta stupito di vedere che vengono deposte corone a Giovanni Falcone. Che lui, in quella telefonata intercettata, definisce “sto coso”.

Spazzando via ogni avvoltoio del finto garantismo (“povero ragazzo, quella è la sua famiglia, non l’ha mica scelta lui”) o ancor di più, finta umanità (“ma è il padre, che altro può fare?”) che svolazza anche a Casalbordino (in Abruzzo) intorno alla figura del terzogenito di Totò Riina. Condannato ad otto anni per associazione mafiosa, l’autore era stato inizialmente destinato ad una comunità padovana. Dove svolgeva servizi di segreteria. In quegli anni viene pubblicato il suo primo libro (ne ha annunciato mesi fa un secondo di cui non si conosce ancora nulla).

Nel 2011 si sparge la voce che Salvo Riina potrebbe tornare a Corleone. Non sarà così ma, allarmato dalla possibilità, il consiglio comunale all’unanimità vota un ordine del giorno in cui lo definisce “persona non gradita”.

Nell’autunno del 2017 l’accertamento della frequentazione del mondo dello spaccio padovano ha portato alla revoca dell’affidamento all’associazione e l’allontanamento dalla città.

Che viene così spedito in Abruzzo, nella casa lavoro di Vasto. La notizia provoca inizialmente forte clamore e l’allora deputata Maria Amato deposita un’interrogazione al ministro degli Interni, citando i tanti episodi documentati di penetrazione e attività delle mafie nella Regione. Interrogazione che non ha mai avuto risposta dal ministro Minniti. Ed è solo il primo di vari pesanti interrogativi, rimasto senza risposta, sul soggiorno abruzzese del rampollo di casa Riina. E sulla presenza di Salvo Riina, a cui è stata concessa una seconda possibilità di un percorso riabilitativo, sembra calare il silenzio. Nonostante, in occasione del primo Natale abruzzese, una sua lettera aperta con parole apparentemente ispirate da sentimenti di bontà e nobili sentimenti, intrisa dello spirito del Natale e della cristianità. Leggendo tra le righe si trovano riferimenti al sentirsi più forte di qualsiasi avversità e di ogni avvenimento della vita.

Nell’ultimo anno e mezzo soltanto il presidente della commissione parlamentare antimafia Morra, il movimento delle Agende Rosse e Azione Civile di Antonio Ingroia, l’Associazione Antimafie Rita Atria e PeaceLink Abruzzo si sono esposti ed espresso preoccupazione per la sua presenza a Vasto e Casalbordino.

Su quei mesi un faro è stato acceso l’estate scorsa dalla Procura di Agrigento. Nell’ambito dell’operazione Assedio, tra gli arrestati figura Angelo Occhipinti, indicato come il nuovo capomafia di Licata. Intercettato dagli inquirenti, durante una riunione in un magazzino, nel luglio 2018, Occhipinti afferma – riferendosi a Riina Jr – che “quello è un ragazzo che ci scappelliamo tutti” (davanti a quel ragazzo ci togliamo tutti il cappello). È la risposta ad uno dei convocati alla riunione, Massimo Tilocca, che è stato recluso, dal dicembre 2017 al maggio 2018, nella casa lavoro di Vasto.

Tilocca aveva appena riferito che – nel periodo trascorso a Vasto – avrebbe ricevuto un pizzino da Salvo Riina con l’ordine, una volta uscito dal carcere, di “stuccare” (eliminare) un licatese, tal Vincenzo Sorprendente. Sono passati diversi mesi ma di questa vicenda non si è più avuta notizia.

1/continua