Il Giudice, il Dottore, l’Uomo: Paolo Borsellino

L’eresia del CORAGGIO: a 31 anni dalla strage di via D’Amelio. Erano esattamente le 16.58 di una caldissima domenica, quando il 19 luglio del 1992, all’altezza del civico 21 di via D’Amelio, a soli 57 giorni dalla strage di Capaci, un altro assordante boato scosse Palermo, la Sicilia, l’Italia intera.

Il Giudice, il Dottore, l’Uomo: Paolo Borsellino

Il tritolo di Cosa Nostra annientava il giudice Paolo Borsellino e cinque dei sei agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli –, facendo posare le loro schiene sull’infuocata terra degli Edipi, delle Antigoni, degli Arabi illuminati, dei Normanni, degli Svevi.

 

A 31 anni dalla strage di via D’Amelio, vogliamo ricordare così il giudice Paolo Borsellino, con il delicato ritratto che ne fa la moglie Agnese in una toccante lettera al “Giudice” (appellativo usato dagli agenti per proteggerlo!), al “Dottore” (appellativo per proteggerlo!), a “Paolo” (nome per amarlo!), in occasione del ventennale della sua morte.

«Sei stato un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, resti per noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, “la vita”, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze».

 

 

Con inchiostro di doloroso amore e di sofferta tenerezza, la moglie Agnese Piraino Leto lo descriveva come un padre ed un marito meraviglioso, un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, un grande uomo: poche battute, ma così pregnanti, così icastiche, quasi scultoree, a scolpire l’immagine di quell’uomo tutto d’un pezzo, che in un’audizione davanti alla Commissione Antimafia del CSM, nella canicola della Città Eterna in un afoso 31 luglio 1988, con occhi intrisi di limpidezza e risoluta fermezza denunciò pubblicamente il “disarmo” dell’antimafia, nonché la carenza di risorse:“Buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate – come avviene la mattina – perché di pomeriggio è disponibile solo una macchina blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà utilizzando la mia automobile; però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera”.

 

Durante i suoi ultimi 57 giorni di vita dalla strage di Capaci, Paolo Borsellino visse una lotta contro il tempo.

 

Dopo la morte del suo amico e collega Giovanni Falcone, si sentì profondamente solo, svuotato, ma continuò a lavorare incessantemente, anzi, intensificò le ore di lavoro, perché era chiaro a tutti che di lì a poco sarebbe toccato anche a lui. 

 

Faccio una corsa contro il tempo, devo lavorare, devo lavorare tantissimo, io ho capito tutto sulla morte di Giovanni”.

 

Il magistrato indagò incessantemente, riprese in mano la documentazione di alcuni omicidi eccellenti, le relazioni tra mafia e appalti, ascoltò alcuni collaboratori di giustizia e annotò tutto su un’agenda, che gli fu regalata dall’Arma dei Carabinieri. Quell’agenda rossa che portava sempre con sé e che ripose nella valigetta di cuoio il 19 luglio, a seguito dell’esplosione e dell’arrivo dei primi uomini in via D’Amelio, sparì. Si aprirono le indagini sulla sua sparizione. Fu, infatti, scattata una foto in cui si vedeva l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli allontanarsi da via d’Amelio con la borsa del dott. Borsellino; la procura richiese il rinvio a giudizio, ma il giudice dell’udienza preliminare rigettò la richiesta, sostenendo che non vi fossero le prove per un’incriminazione di Arcangioli. 

 

Furono ascoltati anche altri esponenti delle Istituzioni, tra cui il magistrato Giuseppe Alaya, che giunse quasi subito in via D’Amelio, il quale fornì nel corso degli anni tante versioni diverse. Ancora oggi non si conosce la verità.

Siamo di fronte a “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”: restano ancora tante ombre sulla vicenda, sulla presenza di entità esterne a Cosa Nostra che hanno avuto un coinvolgimento nella strage, sulla sparizione dell’agenda, sulla Trattativa Stato-mafia.

 

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Seppur attorniato dalla “palude” – come spesso ripeteva – e abbandonato in una attanagliante solitudine da chi avrebbe dovuto proteggerlo, il lavoro del giudice Borsellino fu solenne nelle ore del caldo, nella mano destra che accarezzava le carte per corteggiare l’equilibrio, per corteggiare la Giustizia, nella ricerca incessante di una luce discreta. Semplice e solenne, come tutte le cose.

 

La ricerca di quella luce discreta voleva dire ricerca della Verità, che molti, tuttavia, non vogliono cercare e, allora, frenano, ostacolano, “fermano” chi, invece, si ostina a farlo. Le mafie hanno un saldo appoggio nella politica, un cospicuo sostegno nell’economia. I nemici non sono solo il volto di Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma un pezzo consistente della classe dirigente, un consolidato sistema di potere, la parte deviata degli apparati statali e istituzionali. Chi sarebbero i bravi senza don Rodrigo?!

 

Ecco, dunque, che deve cambiare l’atteggiamento di ciascuno di noi di fronte a queste date indimenticabili.

 

Una data indelebile della Storia d’Italia, il 19 luglio, proprio come il 23 maggio: queste due fatidiche date, tuttavia, ci ricordano che gli “sconfitti vittoriosi” – così il giudice Borsellino amava definire sé e il giudice amico fraterno Giovanni Falcone – tra i principali esponenti del pool antimafia, i giudici “scomodi” che sferrarono un duro colpo all’organizzazione criminale mafiosa, non hanno sacrificato la loro vita per una targa, per l’intitolazione di una scuola, di una strada, per una lapide, un discorso commemorativo, ma per un ideale di giustizia che sta a tutti noi realizzare.

Ricordare non basta: occorre trasformare la memoria in memoria viva, ossia in impegno a costruire una società diversa, formata da persone che si oppongono, non solo a parole, ma con le scelte e i comportamenti, alle ingiustizie, alle violenze, alla corruzione.

 

A 31 anni da quell’estate di sangue, “quel disegno politico dietro le bombe” non può non continuare ad interrogarci, ad interpellare le nostre coscienze, a scuotere i nostri animi.

Per combattere le mafie, infatti, bisogna partire dal basso, dal microcosmo di ciascuno di noi, nel nostro essere e agire quotidiano. È necessario smantellare una ‘cultura mafiosa’, che fa del consenso di massa il punto di forza per alimentare il potere delle consorterie mafiose e della criminalità organizzata.

Per questo diventa importante sensibilizzare la comunità civile, a partire dai nostri giovani, dagli alunni che ci vengono affidato ogni anno, far conoscere, far capire, leggere e interpretare correttamente la realtà, nei suoi meandri più reconditi, nelle sue pieghe più nascoste, per educare ad una cittadinanza attiva, consapevole e responsabile.

 

“Sono ottimista perché vedo che nei confronti della mafia i giovani siciliani, e non, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni fino ai 40 anni. 

Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo, l’importante è che il coraggio prenda il sopravvento.”

 

Furono queste le ultime parole scritte dal magistrato Paolo Borsellino la mattina di quel nefasto 19 luglio 1992, prima che scoppiasse la bomba che gli avrebbe tolto la vita.

 

Alcuni mesi prima, infatti, fu invitato a partecipare ad un convegno in una scuola, ma per motivi lavorativi non poté partecipare. Quella mattina, a poche ore dalla strage di via D’Amelio, decise di rispondere a quell’invito, e nella lettera si definì ottimista, perché credeva nelle giovani generazioni, credeva che un giorno i giovani avrebbero cambiato questa Terra, che definì “bellissima e disgraziata.” 

La lotta alla mafia è, dunque, una battaglia di legalità e di civiltà. Non basta scrivere le leggi nei codici se prima non le abbiamo scritte nelle nostre coscienze, spesso passive, un po’ addomesticate, che trasformano la legalità in qualcosa di strumentale, malleabile, calibrato a seconda degli interessi.

 

La memoria è un processo continuo, per ricordare il passato allo scopo che ciò che è successo non capiti più. I morti sono un punto di riferimento, un esempio per sviluppare il senso della comunità e per aprirsi verso una mentalità nuova”.

La mafia, le mafie sono annidate nei nostri territori, radicate da decenni di malaffare e invischiate nel mondo dell’imprenditoria, della politica, dell’economia e della finanza.

Possiamo riferire anche a questo 31° anniversario quanto scriveva don Luigi Ciotti nell’editoriale del numero di Lavialibera in occasione del trentennale lo scorso anno: “Trent’anni [trentuno] dalle stragi di mafia, ed ecco che si torna a parlarne. Sarebbe un crimine trasformare questa ricorrenza in un’occasione per spendere parole vuote, al solo scopo di timbrare un anniversario che invece pesa ancora, e non poco, sulla coscienza dell’Italia intera. Per celebrare questo trentennale [questi 31 anni] non servono allora parole leggere, ma scelte e gesti pesanti”.

L’impegno civile di tanti, nella cultura democratica dell’antimafia, laddove predomina un’etica della responsabilità, dimostra con grande forza ed efficacia come si possa concretizzare l’augurio rivolto sempre da don Luigi Ciotti a ciascuno di noi ad “essere eretici”.

 

“Vi auguro di essere eretici.
Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.
Eretico è la persona che sceglie e,
in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità.
E allora io ve lo auguro di cuore
questo coraggio dell’eresia.
Vi auguro l’eresia dei fatti
prima che delle parole,
l’eresia della coerenza, del coraggio,
della gratuità, della responsabilità
e dell’impegno.
Oggi è eretico
chi mette la propria libertà
al servizio degli altri.
Chi impegna la propria libertà
per chi ancora libero non è.
Eretico è chi non si accontenta
dei saperi di seconda mano,
chi studia, chi approfondisce,
chi si mette in gioco in quello che fa.
Eretico è chi si ribella
al sonno delle coscienze,
chi non si rassegna alle ingiustizie.
Chi non pensa che la povertà sia una fatalità.
Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza.
Eretico è chi ha il coraggio
di avere più coraggio.”

 

Abbiamo bisogno di una memoria viva, che si traduca ogni giorno in responsabilità e impegno.

Dobbiamo trasformare la memoria del passato in un’etica del presente!

 

Dobbiamo fare della nostra Costituzione un’etica e una pratica di vita, proprio come hanno fatto i “giudici – dottori – uomini” Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che vogliamo imparare ad amare così come ha fatto il giudice Antonino Caponnetto: Io ho amato particolarmente Paolo per la sua semplicità, perché sapeva essere uomo tra gli uomini, per la sua profonda umiltà e immensa umanità, e per la carica d’amore che sapeva spargere intorno a sé. Il suo insegnamento più grande? La sua capacità di sacrificarsi per un ideale. Egli ha saputo mettere insieme molte virtù : la semplicità, l’amore, il senso religioso del lavoro, tutte doti che oggi, purtroppo si stanno disperdendo.”

Con l’augurio che, ispirati dal suo illustre esempio, possiamo recuperare queste virtù disperse.

 

 

 

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