Da Pansa a Siani, il mestiere del giornalista

In questi giorni la quasi totalità dei ricordi di Giampaolo Pansa si è fermata allo scontro sul Sangue dei vinti e gli altri libri dello stesso filone. Nessuno o quasi ha ricordato il suo ultimo sferzante libro sull’ex Ministro dell’interno Salvini. Non potevano farlo le “destre” che avrebbero visto smontare la tavola apparecchiata sulla Resistenza, sui partigiani e tutto quel che abbiamo letto nei libri, che tanto adorano da quindici anni. E c’è stato un silenzio tombale in quella che si definisce “sinistra”, che ogni giorno proclama di esserne opposizione e alternativa. Lo spettacolo che forniscono non merita che ci si perda tempo. Andiamo avanti. Sono esisti più Pansa, quello del Vajont e dello scandalo Lockeed, quello del Sangue dei vinti e quello de Il Dittatore? L’apparenza farebbe dire si, la lettura vera no. Il giornalista-giornalista non ha appartenenze, non può – per dirla alla Pasolini – diventare potere e parlare o tacere secondo convenienza.

Da Pansa a Siani, il mestiere del giornalista
fonte TG1, dal film Fortapasc

di Alessio Di Florio

C’è una scena di Fortapasc, il film di Marco Risi su Giancarlo Siani, che fa riflettere. Una passeggiata in riva al mare, Giancarlo e il suo “capo” che conversano amabilmente, ridendo e scherzando. Ma in quei secondi placidi e tranquilli c’è il racconto di tutta la storia civile italiana e del giornalismo. Un racconto conflittuale, quello tra il giornalista impiegato e il giornalista-giornalista, tra chi tace e si amalgama e chi non trova mai pace. «Le notizie so rottur e cazz», dice Sasà al giovane Giancarlo, invitandolo a vivere in pace.

Ma il cronista non trova mai pace, il cronista vero vive un tornado, nel suo intimo. La Mehari di Giancarlo è il simbolo del suo ricordo perché ha rappresentato la ricerca, il vagare nel quotidiano, in ogni momento. Per cercare le notizie utili alla collettività.

Nelle terre di mafia, di camorra, di ogni ingiustizia e oppressione o nei teatri di guerra il cronista non si ferma nei grandi alberghi, non si accontenta di accucciare il microfono davanti ai potenti. Frequenta i bar e le piazze, si intrufola nei vicoli e negli anfratti delle città. Incontra l’umanità più varia, porta al centro le periferie e gli emarginati, dona voce a chi non ha voce, parafrasando Marco Revelli s’incunea nei meandri del disordine globale. Su Antimafia 2000 Saverio Lodato ha ricordato un episodio sconosciuto, apparentemente insignificante, di Pansa: in attesa del maxi processo a Cosa nostra intervistò un senza tetto sugli scalini del tribunale. Davanti al coro, anche ipocrita, di coccodrilli, retoriche e tanti fiumi di parole è passato quasi inosservato. E invece, di fronte a direttoroni, grandi editori, opinionisti, politici o presunti tali, salotti e salottieri, quel senza tetto è più testimone dei tempi di tutti, merita di stare al centro ed avere voce più di tutti loro. Nel reportage dopo il disastro del Vajont, Pansa esordisce «scrivo da un Paese che non esiste più». È un Paese che non è mai esistito invece quello delle periferie, non illuminate, dei luoghi dove muoiono le vittime delle guerre e delle repressioni, delle oppressioni criminali e delle ingiustizie quotidiane. Il Paese lontano dai palazzi e dove le rottur e cazz ti inseguono come un bambino corre dietro un pallone. Il tornado che non dona mai pace, che fa vivere sempre in perenne ricerca, che fa vivere con difficoltà, male, senza mai placarsi. La logica vorrebbe che si fugga lontano, che si viva cercando la pace. L’impegno di ogni giorno è svelare quel che non si può svelare, è cercare quel Paese che non c’è. Come scrisse il grande Eduardo Galeano, il navigante naviga anche se sa che non toccherà mai le stelle che lo guidano.

In questi giorni la quasi totalità dei ricordi di Giampaolo Pansa si è fermata allo scontro sul Sangue dei vinti e gli altri libri dello stesso filone. Nessuno o quasi ha ricordato il suo ultimo sferzante libro sull’ex Ministro dell’interno Salvini. Non potevano farlo le “destre” che avrebbero visto smontare la tavola apparecchiata sulla Resistenza, sui partigiani e tutto quel che abbiamo letto nei libri, che tanto adorano da quindici anni. E c’è stato un silenzio tombale in quella che si definisce “sinistra”, che ogni giorno proclama di esserne opposizione e alternativa. Lo spettacolo che forniscono non merita che ci si perda tempo. Andiamo avanti. Sono esisti più Pansa, quello del Vajont e dello scandalo Lockeed, quello del Sangue dei vinti e quello de Il Dittatore? L’apparenza farebbe dire si, la lettura vera no. Il giornalista-giornalista non ha appartenenze, non può – per dirla alla Pasolini – diventare potere e parlare o tacere secondo convenienza.

Il giornalista deve raccontare, deve porre domande, sferzare i benpensanti e i palazzi. Il giornalista non deve essere accomodante, con nessuno; il giornalista non deve essere simpatico, non deve seguire logiche di “questo mondo”. Un giornalista che non dà fastidio, che non si rende incomprensibile alle appartenenze, che non fa incazzare persino sè stesso non è giornalista.