Il questore Angelo Mangano

LA SUA ATTIVITA’ IN SICILIA/17^ parte. Continua il nostro “viaggio” per raccontare, attraverso la documentazione, l’origine del male. « La verità è che in tutti i casi (a cominciare dalla vicenda che riguardava Leggio, Mangano condusse le indagini con metodi discutibili, che gli impedirono di raggiungere risultati positivi, anche se non gli vietarono di conseguire premi e promozioni. La sua presenza in Sicilia portò al diapason i contrasti e gli attriti già esistenti fra i vari corpi di polizia. «Mangano» ha detto alla Commissione il colonnello Milillo «non era soltanto contro l'Arma, era contro tutti, era anche contro la Questura; non l'hanno desiderato nemmeno i suoi colleghi». Era naturale che da questi contrasti e dal correlativo difetto di coordinamento con gli organi giudiziari potesse trovare giovamento la delinquenza mafiosa. L'omicidio di Carmelo Battaglia, l'ultimo dei sindacalisti assassinati in Sicilia, segnò indubbiamente il punto critico (e per tanti versi drammatico) delle conseguenze a cui possono portare le accennate disfunzioni in un settore tanto delicato qual è quello della lotta alla mafia.»

Il questore Angelo Mangano
L'arresto di Leggio. Nella foto Mangano a destra

La Commissione ha avuto modo di occuparsi più volte di vicende che hanno messo in evidenza, nella lotta alla criminalità mafiosa, le accennate disfunzioni di coordina mento e di collegamento, ma quella che le documenta meglio delle altre e che ne costituisce un esempio tipico, tale da rappresentarle tutte, è indubbiamente la vicenda connessa all'attività svolta in Sicilia dal funzionario di Pubblica sicurezza, oggi questore, Angelo Mangano, una vicenda che si articola in una serie di distinti episodi.

Il primo di essi riguarda il primo arresto di Luciano Leggio, avvenuto il 14 maggio 1964, e le indagini che portarono alla sua cattura e alla denunzia sua e di altre numerose persone per una serie di delitti efferati.

A quell'epoca il Leggio era latitante da sedici anni ed era colpito da numerosi mandati di cattura per associazione a delinquere e per altri gravissimi reati, tra cui l'omicidio di Michele Navarra, capomafia di Corleone.

Nel 1963, fonti confidenziali riferiscono ai Carabinieri del gruppo esterno di Palermo, comandati dal tenente colonnello Ignazio Milillo che Leggio, affetto dal morbo di Pott, era degente nel ricovero di Albanese a Palermo.

I Carabinieri ritennero che l'accennata località si identificasse con la clinica Albanese e pertanto il 5 settembre 1963 vi effettuarono una perquisizione, che non ebbe però risultati positivi; Leggio, infatti, come poi si accertò, era ricoverato a quell'epoca nell'Ospizio Marino Albanese, sotto il falso nome di Gaspare Centineo, nato a Partinico il 3 gennaio 1925.

Questa circostanza divenne nota agli inquirenti, quando Leggio aveva lasciato la casa di cura; essa tuttavia si rivelò ugualmente decisiva per la cattura del bandito. Gli inquirenti infatti potettero anzitutto rilevare dai documenti sanitari dell'Ospizio Marino i nomi di alcuni medici e di un'infermiera che avevano accompagnato, raccomandato ed assistito il bandito. Si accertò anche che, durante la sua degenza, Leggio era stato visitato da un mobiliere di Palermo, Francesco Paolo Marino e che dopo aver lasciato la casa di cura aveva preso alloggio nella sua abitazione.

Sulla base di queste informazioni, gli organi di polizia procedettero ad appostamenti, perquisizioni domiciliari e pedinamenti, che si conclusero alle ore 11 circa del 14 maggio 1964 a Corleone, quando gli inquirenti accerchiarono alcuni isolati e fecero irruzione in un appartamento di Via Nicolo Orsini n. 6 delle sorelle Sorisi, dove trovarono in una stanza ili bandito Leggio.

Nel riferire al Ministro dell'interno le indicate notizie circa la cattura di Leggio, il Prefetto di Palermo Ravalli metteva in evidenza, in un rapporto del 16 luglio 1964, che alla rischiosa operazione e alle complesse, difficili indagini dirette e coordinate dal Questore avevano dato il loro validissimo e determinante apporto il commissario di Pubblica sicurezza dottor Angelo Mangano ed i1 commissario aggiunto di Pubblica sicurezza Nicola Ciocia, nonché il personale del commissariato di Pubblica sicurezza di Corleone, unitamente a quello dell'Arma diretto dal tenente colonnello Ignazio Milillo e dal capitano dei Carabinieri Aurelio Carlino;

e che l'opera che aveva isolato e ridotto all'impotenza Leggio, così da favorirne l’arresto, aveva avuto inizio il 14 dicembre 1963, quando veniva fermato dal dottor Mangano il pericoloso pregiudicato, da sei anni latitante, Riina Salvatore, nato a Corleone nel 1930.

Il Prefetto, inoltre, dopo aver dato notizia che al dottor Mangano erano stati concessi un attestato di merito speciale e un premio in denaro di 250.000 lire, lo proponeva «per la promozione per merito straordinario al grado superiore a riconoscimento della sua opera fattiva, intelligente e determinante espletata per la cattura del bandito», mentre si limitava a suggerire «di segnalare al Comando generale dell'Arma l'opera del tenente colonnello Ignazio Milillo e del capitano Aurelio Carlino, i quali, unitamente al dottor Mangano e al dottor Ciocia, avevano determinato la cattura del bandito».

Dopo l'arresto del Leggio, i protagonisti dell'azione, e in particolare il dottor Mangano e il tenente colonnello Milillo si dettero da fare, specie a mezzo della stampa, per attribuirsi il merito preponderante dell'operazione; tanto che in data 28 maggio 1965, il Presidente della Commissione scrisse al Prefetto di Palermo per avere un rapporto circa le modalità della cattura di Leggio e per sapere «ad iniziativa di quali organi e comandi tale operazione fosse stata impostata, e quali funzionari di Pubblica sicurezza o ufficiali dei Carabinieri si fossero maggiormente distinti in tale circostanza».

Il Prefetto Ravalli rispose alla lettera con una nota del 1° giugno 1965, nella quale scriveva anzitutto che le prime notizie circa l'imminente cattura di Leggio gli erano state fornite «proprio subito dopo il suo arrivo a Palermo, dai comandanti dei Gruppi interno e esterno dei Carabinieri».

Il Prefetto quindi, dopo aver citato gli organi dei Carabinieri e della Polizia che avevano partecipato attivamente all'arresto del bandito, aggiungeva - in sostanza smentendo quanto aveva riferito al Ministro dell'Interno - «che alla cattura del Leggio avevano contribuito efficacemente con pari impegno tutti gli organi di Polizia sopracitati, anche se una certa preminenza, specie nella fase preparatoria, doveva essere riconosciuta all'Arma».

Il Prefetto precisava inoltre che il rapporto al Ministro «pur essendo stato da me firmato, era stato predisposto dalla Questura», cercando così di spiegare le ragioni per le quali in un primo tempo aveva avallato la tesi secondo cui era stato il funzionario di polizia ad avere avuto un ruolo preponderante nella cattura di Leggio.

Nonostante queste precisazioni, il dottor Mangano, nelle dichiarazioni rese anche recentemente alla Commissione sull'arresto di Leggio, ha continuato a rivendicare a sé il merito dell'operazione.

In particolare ha spiegato che nel novembre 1963 fu inviato a Corleone personalmente dal Capo della polizia prefetto Vicari, con l'incarico specifico di compiere ogni utile accertamento per la cattura di Leggio e che furono lui ed i suoi uomini e non i Carabinieri, a svolgere l'attività decisiva per isolare, localizzare ed infine arrestare il pericoloso bandito.

Il funzionario ha anche precisato di essere entrato per primo nella casa, dove si trovava Leggio, di averlo personalmente arrestato, e di essere stato raggiunto solo successivamente dal tenente colonnello Milillo. Ha quindi esibito una relazione riservata inviata al Questore di Palermo il 18 maggio 1964, nella quale accusava i Carabinieri di assensi comportati nei suoi confronti con scarso spirito di collaborazione e con slealtà, di aver messo in pericolo, col loro comportamento, la riuscita dell'operazione di polizia, diretta alla cattura di Leggio, di avere spesso violato i doveri di riserbo e di imparzialità connaturati alle loro funzioni, di avere infine favorito la fuga di tre persone che dovevano essere arrestate per il soggiorno obbligato, avvisandole dell'imminenza dell'arresto.

Ha inoltre accusato il colonnello Milillo e i suoi collaboratori, non solo di aver fatto di tutto per attribuirsi il merito esclusivo dell'arresto del bandito, ma di aver anche cercato prima di ostacolare e poi di screditare l'opera della Polizia, mettendolo in cattiva luce con la Magistratura, con i pubblici amministratori di Corleone e con i privati cittadini.

In questo modo, il dottor Mangano è tornato a ripetere e a ribadire anche in tempi recenti (e malgrado che i fatti non gli avessero dato ragione) le violente accuse contenute in un lontano rapporto del 5 giugno 1964, nel quale non aveva esitato ad affermare che dopo l'arresto di Leggio «la pacifica popolazione corleonese» era tornata «nuovamente a vivere in uno stato di prostrazione a causa del vergognoso comportamento dei Carabinieri».

Di fronte alle critiche e alle vanterie di Mangano, il colonnello Milillo reagì fin dal primo momento con grande energia, arrivando a presentare querela per diffamazione contro il funzionario di polizia, poi rimessa, a seguito di una dichiarazione con la quale Mangano dava atto «della costante collaborazione fra Arma e Pubblica sicurezza nelle operazioni di polizia antimafia in Sicilia».

Più specificamente, anche nella sua deposizione alla Commissione, il colonnello Milillo ha negato ufficialmente che Mangano fosse stato inviato a Corleone per il fatto che si era riscontrata una carenza nell'azione precedente degli organi di polizia ed anzi affermò che il funzionario era arrivato a Corleone dopo che erano già stati effettuati, a seguito della strage di Ciaculli, una serie di arresti, che avevano ripulito la zona.

L'ufficiale dei Carabinieri inoltre, dopo aver dato alla Commissione i necessari particolari circa la traccia seguita per arrestare Leggio ha dichiarato testualmente: «Quando si è catturato Leggio, io seppi che si era trasferito a Corleone addirittura dopo l'arrivo di Mangano. Mangano arriva a Corleone verso il 16 novembre; dopo alcuni giorni o alcune settimane, Leggio che era sempre stato fuori di Corleone o quasi sempre, comunque era latitante in Palermo, si trasferisce a Corleone in casa delle sorelle Sorisi, dove fu poi catturato. Questo è un particolare che veramente mi sorprese e che appresi successivamente alle indagini fatte dopo la cattura».

D'altra parte, in ordine alle modalità dell'arresto, il colonnello Milillo ha affermato che la cattura era avvenuta subito e pacificamente e che Leggio aveva ingiuriato Mangano chiamandolo «buffone» e rivolgendogli altri epiteti offensivi, non solo perché irritato dalla circostanza che il funzionario aveva arrestato in paese un suo fratello deficiente, «ma un po' perché sembrava deluso da certi atteggiamenti che si attendeva dal Mangano».

Le esagerazioni, le inesattezze e le vanterie di Mangano non avrebbero meritato nemmeno di essere citate, se non fossero state la causa e insieme la manifestazione esteriore di un contrasto con i Carabinieri, che finì per influire negativamente sui risultati degli accertamenti compiuti in ordine alle specifiche responsabilità di Leggio e della sua banda.

In effetti, subito dopo l’arresto di Leggio, Polizia e Carabinieri agirono non più di conserva ma separatamente e Leggio, giudicato dalla Corte di Assise di Bari (a cui il processo era stato rimesso per legittima suspicione), con sentenza del 10 giugno 1969, fu assolto per insufficienza di prove dal delitto di associazione per delinquere e per non aver commesso il fatto da nove omicidi e da un tentato omicidio.

L'assoluzione del terribile bandito (che poi in grado di appello è stato condannato) fu giustificata in molti ambienti anche con la considerazione che i rapporti dei Carabinieri e della Pubblica sicurezza, che avevano dato luogo al procedimento, non sempre coincidevano, ma apparivano spesso in stridente contrasto fra loro.

Gli stessi Mangano e Milillo, prendendo atto di queste circostanze, non hanno potuto disconoscere gli effetti negativi che hanno esercitato la loro mancata collaborazione e i loro attriti, sul primo procedimento contro Leggio.

Ciononostante, il 20 gennaio 1966, Angelo Mangano, promosso vice questore, venne inviato nuovamente in Sicilia col compito di dirigere «il Centro di coordinamento regionale di polizia criminale», un organo che aveva il compito di coordinare l'azione delle varie forze di polizia operanti in Sicilia.

Nell'adempimento del nuovo incarico, il dottor Mangano svolse numerose indagini, sempre per delitti di mafia, frequentemente in relazione ad episodi avvenuti tempo prima e magari già definiti dall'Autorità giudiziaria. Complessivamente, nel periodo in cui rimase in Sicilia dal 20 gennaio 1966 al 22 maggio 1967, Mangano trasmise alla Magistratura diciotto rapporti di denunzia, e si occupò in particolare dei seguenti episodi:

A) Con rapporto dell'11 ottobre 1966, gli organi di polizia alle dipendenze del dottor Mangano denunciarono al Procuratore della Repubblica di Palermo, Giuseppe Cirrito, nato a Cerda, ed altre tre persone quali autori, in concorso di Salvatore Ancona (poi morto), di numerosi delitti e tra l'altro dell'omicidio di Giovanni Lama, avvenuto a Collesano il 23 agosto 1958.

Con successivo rapporto del 13 gennaio 1967, furono denunciati sempre al Procuratore della Repubblica di Palermo lo stesso Giuseppe Cirrito ed altre ventuno persone.

Tutti vennero accusati di associazione per delinquere e il Cirrito inoltre da solo, degli omicidi di Rosolino e Salvatore Alaimo, avvenuti in agro di Cerda il 9 giugno 1945; insieme con Rosolino Dioguardi dell'omicidio di Giuseppe Di Pasquale, avvenuto in agro di Collesano il 22 ottobre 1945; insieme con Vincenzo Guida, col Dioguardi e con Antonio Gargano (poi morto) dell'omicidio di Giuseppe Di Gregorio e del tentato omicidio di Filippo Cipolla, avvenuti in agro di Collesano il 2 febbraio 1946.

I rapporti furono trasmessi per competenza alla Procura della Repubblica di Palermo e, secondo Mangano, il sostituto incaricato delle indagini era stato sul punto di emettere mandato di cattura, ma poi non lo aveva fatto, perché pensava che vi avrebbe provveduto il Giudice istruttore. Senonchè successivamente il fascicolo era stato inviato per competenza a Termini Imerese, ma ciò era avvenuto, sempre a dire di Mangano, perché il processo era stato assegnato ad un magistrato diverso da quello inizialmente designato. Sta di fatto, comunque, che il processo fu in seguito definito con l'assoluzione degli imputati.

B) Con rapporto del 15 giugno 1966, firmato dal commissario di Pubblica sicurezza di Termini Imerese, G. Orestano, e dal commissario capo, Gaetano Lanza, addetto al nucleo del dottor Mangano, furono denunziati al Procuratore della Repubblica di Termini Imerese Agostino Rubino e altre dodici persone.

Tutti furono accusati di associazione per delinquere e alcuni di loro degli omicidi di Antonino Pusateri avvenuto il 15 maggio 1957; di Cosimo Cristina, avvenuto il 5 maggio 1960; di Emanuele Nobile, avvenuto il 4 luglio 1960 e di Agostino Longo, avvenuto il 3 dicembre 1961. Le denunce però non ebbero nessun seguito.

C) Con rapporto giudiziario del 24 settembre 1966, il Centro denunciò al Procuratore della Repubblica di Termini Imerese Giuseppe Panzeca ed altre diciannove persone.

Tutti furono accusati di associazione per delinquere; inoltre il Panzeca venne accusato insieme con Nicolò Marsali e Giovanni Muriella dell'omicidio di Salvatore Carnevale avvenuto a Sciara il 16 maggio 1955, (per il quale erano state già imputate ed assolte altre persone); e insieme con Antonino Mangiafridda, Giovanni Di Bella e Giorgio Panzeca dell'omicidio di Giovanni Prestigiacomo, avvenuto a Sciara il 27 settembre 1951.

Anche queste denunzie non ebbero l'esito sperato, e il dottor Mangano allora non ha esitato ad affermare, in un appunto consegnato alla Commissione, che nel 1959 il rapporto giaceva «inspiegabilmente» presso la Procura di Termini Imerese e che i magistrati della Procura di Termini Imerese nutrivano un malcelato rancore nei confronti dei funzionari di Pubblica sicurezza per un episodio verificatosi in precedenza.

D) Con rapporto del 15 giugno 1966, il Centro denunciò Attilio Ramacela, Pasquale Ramaccia, Bernardo Canzoneri, Filippo Marretta e Giuseppe Cannella, quali responsabili tra l'altro dell'omicidio del pastore Diego Fucarino, avvenuto a Frizzi il 15 aprile 1966; il Marretta e il Cannella furono inoltre accusati, insieme con Rosario D'Azzò, Antonino Comparetto e Salvatore Mosca dell'omicidio in persona del pregiudicato Carmelo Macaluso, ucciso a Frizzi il 25 luglio 1956.

Tutti i suddetti e altre persone vennero anche accusati di associazione per delinquere. Per l'omicidio in persona del Fucarino, si era già proceduto a carico di Attilio e Pasquale Ramaccia, ma i due erano stati prosciolti per insufficienza di prove con sentenza del Giudice istruttore del 30 ottobre 1958. A seguito delle nuove indagini svolte dal Nucleo diretto dal dottor Mangano, si procedette contro tutti i denunciati per i delitti di associazione per delinquere e di assistenza agli associati.

Inoltre, per l'omicidio del Fucarino, fu disposta la riapertura dell'istruzione nei confronti dei soli Ramaccia. Al termine dell'istruzione, con sentenza del 24 settembre 1968, il Giudice istruttore di Palermo prosciolse gli imputati con formule varie dai delitti di associazione per delinquere e di assistenza agli associati, ordinò il rinvio a giudizio dei Ramaccia per rispondere dell'omicidio del Fucarino, mentre per gli altri accusati di omicidio decretò l'archiviazione degli atti, così scrivendo in sentenza: «Quanto a Marretta Filippo, Cannella Giuseppe e Canzoneri Bernardo, denunciati pure per l'omicidio di Fucarino Diego, è da osservare che contro i predetti non si è nemmeno proceduto, in mancanza di qualsiasi concreto elemento né tale potendosi considerare la serie di supposizioni prospettate nel rapporto in base a notizie non controllate e comunque non confermate o accertate nel corso dell'istruzione.

Nei loro riguardi deve essere quindi disposta l'archiviazione degli atti. Ad analoga conclusione e per le medesime considerazioni devesi pervenire nei confronti di Marretta Filippo, D'Azzò Rosario, Cannella Giuseppe, Comparetto Antonino e Mosca Salvatore in ordine alla denuncia a loro carico per l'omicidio di Macaluso Carmelo».

Dopo la definizione dell'istruttoria, in data 3 aprile 1969, uno dei denunciati Bernardo Canzoneri, avvocato, deputato all'Assemblea regionale, che, secondo Mangano, «aveva avuto ottimi voti in quelle zone dove dominava Leggio», denunciò par calunnia e falso ideologico cinque funzionari di polizia, sette tra sottufficiali e guardie e cinque cittadini di Frizzi.

La Procura iniziò l'azione penale soltanto nei confronti di questi ultimi e il processo rimase a lungo pendente, finché i cinque testimoni, che avevano accusato Canzoneri, non trovarono di meglio che ritrattare.

Intanto, con sentenza dell'8 maggio 1970, la Corte di Assise di Palermo, su conforme richiesta del Pubblico ministero, aveva assolto per insufficienza di prove i due Ramaccia dal delitto di omicidio in persona del Fucarino.

La sentenza però fu riformata dalla Corte di Assise di Appello, che il 28 novembre 1970 condannò i due imputati a venti anni di reclusione. Contro la decisione proposero ricorso per Cassazione sia il Procuratore generale sia i Ramaccia, i quali in sede di rinvio sono stati definitivamente assolti.

Nell'appunto consegnato alla Commissione, il dottor Mangano ha peraltro ribadito che l'avvocato Canzoneri aveva fama di mafioso e ne aveva dato prova, durante il processo, «nell'evidente intimidazione mafiosa da lui effettuata, secondo il tacito rituale mafioso, nei confronti dei testi convenuti a Palermo per deporre contro di lui».

Sarebbe altresì noto, sempre a dire di Mangano, che Canzoneri era in strettissimi rapporti con Leggio, «ispiratore di molte delle sue imprese», stando alle notizie fomite dal figlio del mobiliere Marino (favoreggiatore di Leggio).

Con rapporto del 21 luglio 1966, il Centro diretto da Mangano denunciò Pietro Portino, Fedele Ferrugia, Vincenzo Di Benedetto e Francesco Calderaro, quali responsabili dell'omicidio di Epifanie Li Puma, avvenuto a Ganci il 2 marzo 1948.

La denuncia fu archiviata dal Giudice istruttore di Termini Imerese, nonostante - scrive il dottor Mangano nel suo appunto - che «dallo stesso Procuratore della Repubblica (fosse) stata ritenuta e definita oltremodo probanle».

F) Con altri rapporti, il dottor Mangano riferì del tentato omicidio dei fratelli Ancona, poi uccisi negli anni scorsi a Roccamena, e di una rapina, in danno delle ferrovie, per la quale furono arrestate cinque persone.

Riguardo a quest'ultimo episodio, il dottor Mangano ha dichiarato alla Commissione che il teste principale, subito dopo essere stato interrogato, aveva voluto espatriare, servendosi di un passaporto ottenuto in precedenza e portando con sé la somma di duecentomila lire avuta dall'ufficio provinciale del lavoro, per la liquidazione dei suoi crediti. Senonchè il sostituto procuratore della Repubblica che istruiva il processo aveva sostenuto che era stato il dottor Mangano a procurare al teste il denaro ed il passaporto per farlo espatriare, e aveva quindi scarcerato i cinque arrestati.

G) Con rapporto del 19 giugno 1966 il commissario di Pubblica sicurezza di Petralia Sottana, a seguito di indagini coordinate dal dottor Mangano, denunciò il dottor Vincenzo Di Benedetto, Calogero Lombardo e Filippo Nardo, quali responsabili dell'omicidio di Francesco Paolo Siragusa. Il Siragusa era morto a Petralia Sottana il 23 novembre 1962 e si era sempre ritenuto che la morte fosse dovuta a suicidio.

Il nuovo rapporto invece accreditò la tesi dell'omicidio, sulla base di una serie di elementi e tra l'altro di due relazioni di servizio, con le quali gli agenti di Pubblica sicurezza Emanuele Pecorella e Gaetano Milano attestavano, a quasi quattro anni di distanza, che all'epoca dei fatti avevano trovato nei pressi della villa del dottor Di Benedetto alcuni oggetti, che lo indicavano come autore del delitto.

Al termine dell'istruzione, il Giudice istruttore ritenne del tutto infondate le accuse e prosciolse gli imputati per insussistenza del fatto.

Gli agenti Pecorella e Milano furono inoltre incriminati e poi condannati, con sentenza passata in giudicato, per il delitto di falsità ideologica in atti pubblici. Nella sua sentenza, il Giudice istruttore osservò che i verbalizzanti e quindi il dottor Mangano non avevano «vagliato con serenità i fatti posti a base delle denunzie, sospinti dalla fretta e dall'impegno di scoprire delitti che, negli anni trascorsi, non (erano stati) scoperti ovvero dei quali gli autori (erano rimasti) impuniti. Se, però, è giustificabile l'impegno, non lo sono certo la leggerezza ed i metodi poco ortodossi seguiti».

E aggiunse: «Una delle più gravi censure all'operato dalla Polizia è quella di avere agito con prevenzione e di avere cercato di fornire le prove della responsabilità del dottor Di Benedetto e dei suoi accoliti come a conforto di un convincimento e di una certezza acquisiti per altro verso».

Il Giudice istruttore inoltre rilevò che imputati e testimoni avevano lamentato travisamenti delle dichiarazioni rese alla Polizia; deplorò il metodo adottato dai funzionari di Pubblica sicurezza di seguire «passo passo l'indagine giudiziale, richiamando i testi sentiti dal Magistrato per conoscere se avessero confermato o ritrattato le dichiarazioni rese alla Polizia», scrivendo sul punto che «in sostanza la Polizia aveva fatto il processo al processo, travalicando i limiti costituzionali assegnatile con un'illegittima inframmettenza nell'indagine giudiziale».

Dal canto suo, il dottor Mangano ha dichiarato alla Commissione che Di Benedetto era cugino del Giudice istruttore di Termini Imerese, del quale però non ha saputo indicare nemmeno il nome, ed ha aggiunto di avere preventivamente informato del fatto il Procuratore generale di Palermo, che però 1o aveva invitato a trasmettere ugualmente il rapporto alla Procura di Termini Imerese.

Il dottor Mangano ha anche dichiarato che il giudice istruttore non aveva interrogato i testi in modo corretto e aveva disapprovato apertamente l'iniziativa presa della Polizia di continuare le indagini, mediante l'interrogatorio di altri testimoni, anche durante la istruttoria; ha lasciato peraltro intendere che il Giudice istruttore, quando li interrogava, faceva capire ai testi che gli accusati potevano a loro volta denunziarli e i testimoni allora, presi dalla paura, si affrettavano a ritrattare, «per evitare ulteriori grane» ed anche per il timore di essere rinchiusi in manicomio.

Per quanto poi riguarda la condanna per falso dei due agenti di polizia che avevano avallato con una loro relazione di servizio le accuse contro Di Benedetto, il questore Mangano ha tenuto innanzitutto a precisare che i due agenti non erano alle sue dipendenze e che furono condannati per il contrasto tra la versione dei fatti data da loro e quella del dirigente del commissariato presso il quale prestavano servizio.

Risulta evidente dai dati e dalle notizie ora elencate che le indagini condotte dal dottor Mangano sui ricordati episodi di stampo mafioso non ebbero in nessun caso un esito positivo, in quanto la Magistratura non ritenne attendibili o sufficienti gli elementi di prova raccolti dalla Polizia. Per spiegare questi insuccessi, Mangano non ha esitato a ricorrere ad accuse e insinuazioni, che, quando non sono state smentite dai fatti, sono comunque rimaste prive di ogni riscontro probatorio.

La verità è che in tutti i casi (a cominciare dalla vicenda che riguardava Leggio, Mangano condusse le indagini con metodi discutibili, che gli impedirono di raggiungere risultati positivi, anche se non gli vietarono di conseguire premi e promozioni. La sua presenza in Sicilia portò al diapason i ontrasti e gli attriti già esistenti fra i vari corpi di polizia. «Mangano» ha detto alla Commissione il colonnello Milillo «non era soltanto contro l'Arma, era contro tutti, era anche contro la Questura; non l'hanno desiderato nemmeno i suoi colleghi». Era naturale che da questi contrasti e dal correlativo difetto di coordinamento con gli organi giudiziari potesse trovare giovamento la delinquenza mafiosa.

L'omicidio di Carmelo Battaglia, l'ultimo dei sindacalisti assassinati in Sicilia, segnò indubbiamente il punto critico (e per tanti versi drammatico) delle conseguenze a cui possono portare le accennate disfunzioni in un settore tanto delicato qual è quello della lotta alla mafia.

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1° maggio 2020La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo

Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e Banditismo

Decima parte, venerdì 5 giugno 2020, Le funzioni della MAFIA di campagna

Undicesima parte, venerdì 19 giugno 2020, Il capo della mafia di Corleone

Dodicesima parte, venerdì 26 giugno 2020, Il capomafia dell’intera Sicilia

Tredicesima parte, venerdì 3 giugno 2020, Le attività della mafia di campagna

Quattordicesima parte, 17giugno 2020, Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici    

Quindicesima parte, 24 luglio 2020, Gli interventi giudiziari

Sedicesima parte, 10 agosto 2020, L’impunità dei delitti mafiosi