La corruzione e il riciclaggio di danaro sporco

QUINTA PARTE. Un principio fondamentale è espresso inoltre dall’art. 98, che stabilisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Ciò vuol dire, banalmente, che l’attività del dipendente pubblico non deve perseguire anzitutto l’interesse del datore di lavoro seppure ente pubblico, bensì l’interesse pubblico indicato dall’ordinamento.

La corruzione e il riciclaggio di danaro sporco

La responsabilità di chi esercita una funzione pubblica è specificata dall’art. 28, che impone al singolo dipendente pubblico di comportarsi legalmente nello svolgimento delle proprie funzioni: I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, infatti, sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.

Il secondo comma poi, estende la responsabilità del dipendente all'ente, per consentire al danneggiato una maggior possibilità di ristoro, dato che, mentre il dipendente potrebbe non essere in grado di risarcirlo, ciò non può accadere con una struttura pubblica.

Un principio fondamentale è espresso inoltre dall’art. 98, che stabilisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Ciò vuol dire, banalmente, che l’attività del dipendente pubblico non deve perseguire anzitutto l’interesse del datore di lavoro seppure ente pubblico, bensì l’interesse pubblico indicato dall’ordinamento.

In questo modo si sottolinea la separazione tra politica e amministrazione, per cui, l’amministrazione pubblica anche quando è strumento di attuazione delle politiche governative, ha un ruolo autonomo in diretto collegamento con la società per la realizzazione delle «finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento».

Ma l’articolo sicuramente più interessante è sicuramente l’art. 97 della Costituzione, il cui secondo comma recita: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.

Questa norma contiene i due principi fondamentali che devono guidare la buona amministrazione, cioè il buon andamento e l’imparzialità (più l’ovvio principio di legalità: l’organizzazione delle Pa avviene secondo le disposizioni di legge ed è quindi logicamente a queste subordinata).

Ricordando che anche l’art. 41 della Carta di Nizza del 2000, riconosce il diritto ad una buona amministrazione, buon andamento significa ottimale funzionamento della pubblica amministrazione, tanto sul piano dell’organizzazione quanto su quello della sua attività.

Quindi nella pratica, buon andamento si traduce nel dovere di cura dell’interesse pubblico nella maniera più immediata, conveniente e adeguata possibile.

Ad esempio, distribuzione delle competenze tra i diversi uffici in maniera razionale utilizzando il personale sulla base degli obiettivi che devono perseguire gli stessi uffici, commisurare la propria dotazione organica all’effettiva entità dei propri servizi indispensabili, attribuzione all’amministrazione di mezzi giuridici elastici idonei a consentire il migliore proporzionamento dell’attività erogata rispetto al fine prestabilito, congruità dell’azione in relazione all’interesse pubblico con criteri di convenienza/adeguatezza; e ancora: obbligo di motivazione a fronte dell’esercizio di determinate attività, completezza dell’istruttoria, evitare sprechi.

Sostanzialmente il buon andamento indica un’amministrazione efficace, efficiente ed economica, dove l’efficacia esprime il rapporto tra obiettivi programmati e obiettivi/risultati raggiunti; l’efficienza indica il rapporto tra risultati/obiettivi raggiunti e risorse impiegate per raggiungerli;

Quanto al principio di imparzialità, possiamo definirlo una sorta di corollario del principio di uguaglianza”, per cui “si devono trattare in modo eguale fattispecie eguali, in modo affine fattispecie affini, in modo egualmente diverso fattispecie diverse”.

Nella sua accezione oggettiva, il principio di imparzialità si riferisce all’obbligo di ponderare tutti gli interessi coinvolti, mentre in quella soggettiva nel divieto di disparità (quindi astensione in caso di conflitto di interessi, disciplina delle incompatibilità per cui gli amministratori non possono essere portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità o anche solo di divergenza, rispetto a quello generale, e ricusazione nelle ipotesi in cui vi sarebbe dovuta essere astensione e non vi sia stata).

L’imparzialità è quindi “l’esigenza che l’amministrazione si mantenga fedele alla funzione e allo scopo che le è stato assegnato dalla legge, senza deviarne per la pressione di interessi estranei”.

Il principio di imparzialità d’altronde, è ribadito anche dall’art. 1 della legge n. 241/90 e successive modifiche, intitolato “principi generali dell’attività amministrativa”. Il testo attuale afferma che l’attività amministrativa “è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza”.

E arriviamo così alla disciplina specifica in materia di anticorruzione, che vede nella legge Severino una sorta di spartiacque con il passato: se fino al 2012 l’approccio dominante era quello repressivo, la legge 190/2012, Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità̀ nella pubblica amministrazione, ha riequilibrato la strategia rafforzandone l’aspetto preventivo e potenziando la responsabilità dei pubblici ufficiali.

È una legge composta da due articoli, il primo articolato in 83 commi, e il secondo determina la clausola di invarianza finanziaria.

Va subito detto che uno dei limiti di tale normativa è la sua struttura: una sorta di grande contenitore destinato a disciplinare materie poco omogenee, con un coordinamento decisamente complesso tra le disposizioni introdotte o modificate. La legge Severino infatti incide, riformandolo, sul codice penale, di procedura penale, codice civile, legge241/90, nonché su tutta una serie di decreti legislativi11. Si tratta quindi di "provvedimento omnibus", che disciplina una eterogeneità di situazioni, dal diritto amministrativo al diritto penale. per lo più rientranti nell'alveo dell'attività amministrativa e dell'organizzazione aziendale pubblica.

La riforma si articola su quattro punti fondamentali.

In primo luogo, inasprimento del trattamento sanzionatorio previsto per alcuni tipi di reato, allo scopo di potenziare l’efficacia dissuasiva

In secondo luogo: rimodulazione di alcune fattispecie, e ridefinizione dei reati di corruzione e concussione. Ad esempio si pensi allo spacchettamento (controverso) della concussione distinguendo il caso della costrizione, da quello dell’induzione, oggetto ora di autonoma norma: induzione indebita a dare o promettere utilità. In questo modo però, come osservato anche dal rapporto UE del 2014, si rischia di dare adito ad ambiguità nella pratica e di limitare ulteriormente la discrezionalità dell’azione penale. Più positiva invece è l’introduzione della fattispecie di traffico di influenze illecite: la legge 190/2012 introduce l’art. 346 bis del codice penale che punisce con la reclusione da 1 a 3 anni sia chi si fa dare o promettere denaro o altra utilità, sia chi versa o promette con riferimento ad un atto contrario ai doveri dell’ufficio, o all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio. In questo modo si realizza una tutela anticipata del buon andamento e dell’imparzialità della p.a., andando a colpire comportamenti eventualmente prodromici all’accordo corruttivo.

In terzo luogo, e questo è sicuramente l’aspetto principale, la legge Severino impone alcuni obblighi a carico della P.A. allo scopo di prevenire i fenomeni corruttivi. Lo strumento principale è sicuramente la redazione del PTPC, che deve seguire il modello del PNA. Va specificato qui che la legge Severino ha scelto un modello decentrato in cui il PNA detta solo linee generali ma rimanda alle singole amministrazioni la contestualizzazione e la costruzione di una rete preventiva efficace, per cui in un rapporto tra uniformità dettata dal PNS e autonomia organizzativa perseguita dai PTPC, le singole amministrazioni non hanno solo un ruolo passivo di “adempimento” ma ATTIVO di costruzione dei piani, in cui TUTTI e non solo i referenti e responsabili anticorruzione devono cooperare nella segnalazione delle criticità dei rischi e nell’attuazione delle misure.

La redazione del PTCP è affidata al Responsabile per la prevenzione della corruzione, una sorta di garante della legalità all’interno delle singole P.A. Questi viene scelto normalmente tra i dirigenti di prima fascia, e oltre a essere responsabile della redazione del PTPC (che sarà adottato dall’organo di indirizzo politico), è anche responsabile della verifica dell’efficace attuazione del Piano e della sua idoneità, nonché della sua eventuale modifica, se necessario. Inoltre, in caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile risponde ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, nonché sul piano disciplinare, per danno erariale e all’immagine della P.A. a meno che non dimostri di aver predisposto correttamente il PTPC, e di aver vigilato sul corretto funzionamento e osservanza del piano.

L’aspetto preventivo è quindi volto prevalentemente a dissuadere il dipendente pubblico dal porre in atto condotte illecite, sviluppandone la consapevolezza etica e morale (fondamentale a questo proposito anche il ruolo della formazione su temi dell’etica e legalità affidata alla SNA), ma anche a incoraggiare lo stesso dipendente pubblico a segnalare eventuali illeciti di cui dovesse venire a conoscenza, attraverso una disciplina (sebbene racchiusa in un unico comma) della tutela del cosiddetto whistleblower.

Infine, la legge 190/2012 ha dato ottemperanza agli obblighi internazionali, prevedendo la creazione di un’Autorità nazionale anticorruzione, con compiti di controllo e indagine sulla pubblica amministrazione. Identificata inizialmente nella preesistente CIVIT, alla quale la legge Severino aveva dato il nome di Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza nelle amministrazioni pubbliche, il decreto legge 90/2014 ha soppresso tale autorità, facendone confluire strutture e personale nell’ANAC, Autorità Nazionale Anticorruzione.

A dieci anni dalla sua approvazione, il testo è forse il più odiato dai politici e dagli amministratori locali. Al vaglio della Corte costituzionale la Consulta si è espressa in due occasioni confermandone la costituzionalità. La prima è la sentenza De Magistris del 2015, in seguito al ricorso dell’allora sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. La seconda è la sentenza De Luca del 2016, pronunciata dopo il ricorso del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca e di un consigliere della regione Puglia. Nel primo anno di entrata in vigore i casi sono stati numerosi per i consiglieri locali. Significativi sono stati la decadenza da senatore del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi nel 2013, dopo la condanna nel processo Mediaset per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita. La legge mette d’accordo tutti i maggiori schieramenti (PD; Lega, Fratelli d’Italia, radicali) nel volerne l’ammorbidimento delle disposizioni ritenute troppo dure per gli amministratori locali.

 

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