LA SENTENZA: I COLLABORATORI/6

“TRATTATIVA” STATO-MAFIA/10^ parte. Continua il nostro viaggio per “svelare” la Sentenza di Primo grado, dove i magistrati hanno dimostrato il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Giuseppe DI GIACOMO (“cosa nostra”), Mario Santo Di Matteo (“cosa nostra”), Giusto Di Natale (“cosa nostra”), Giovan Battista FERRANTE (“cosa nostra”), Giuseppe FERRO (“cosa nostra”), Vito GALATOLO (“cosa nostra”), Antonino GALLIANO (“cosa nostra”).

LA SENTENZA: I COLLABORATORI/6
Il «PAPELLO» (fonte Corriere.it)

DI GIACOMO GIUSEPPE

È stato esaminato alle udienze del 26 gennaio e 9, 10 e 23 febbraio 2017.

Ha fatto parte della "famiglia" mafiosa dei Laudani di Catania sin dall'inizio degli anni '80 allorché è stato formalmente affiliato ("...ho militato nella famiglia mafiosa dei Laudani, che è parte integrante del sodalizio di Catania e provincia.... Dagli inizi degli anni ottanta, ero poco più che adolescente e sono stato affiliato a questa famiglia mafiosa.... sono stato sottoposto a questa affiliazione nel clan Laudani prestando un giuramento di non poter mai tradire questa famiglia perché previa la morte...").

Ha iniziato a collaborare con la Giustizia nel 2009 ("Io mi stacco nel 2009, quando inizio formalmente la mia collaborazione con la giustizia").

Ciò premesso, va osservato che, all'esito dell'approfondito esame del Di Giacomo, pur a fronte di alcune problematicità di cui si dirà, non si ritiene di potere pervenire ad una preliminare conclusione di inattendibilità intrinseca del predetto tale da impedire il successivo vaglio delle sue dichiarazioni.

Tali problematicità sono sostanzialmente legate, infatti, al ritardo col quale il Di Giacomo ha riferito le confidenze ricevute dal Cinà e da Filippo Graviano, non avendone egli parlato all'inizio della sua collaborazione e, specificamente, come gli è stato ripetutamente contestato dai difensori degli imputati, entro il prescritto termine dei centottanta giorni.

Sennonché, per quelle ricevute da Cinà, è agevole rilevare che, oltre a non essere stato egli allora interrogato sui fatti poi riferiti (concernenti, soprattutto, il c.d. "papello"), questi non avrebbero potuto essere ricondotti, di certo, a fronte anche dei molteplici omicidi confessati dal Di Giacomo, tra i "fatti di maggiore gravità ed allarme sociale".

La gravità dei fatti concernenti il c.d. "papello", invero, allora (nel 2009), non era in alcun modo emersa, essendo appena iniziate (peraltro da parte di tutt'altra Autorità Giudiziaria) le indagini conseguenti alle prime propalazioni di Massimo Ciancimino. Sotto tale profilo, dunque, nessun pregiudizio può farsi derivare all'attendibilità intrinseca del Di Giacomo dal non avere quest'ultimo già allora raccontato quelle confidenze del Cinà oggi, invece, riferite.

Più problematico appare, indubbiamente, il ritardo nel riferire le confidenze del Graviano, non già per gli aspetti che riguardano, anche in questo caso, il c.d. "papello" per i quali vale quanto già osservato sopra a proposito delle confidenze del Cinà, ma, piuttosto, per la mancata indicazione di alcuni correi materiali delle stragi e per alcuni riferimenti ai "soggetti esterni".

È vero, però, che il Di Giacomo allora non venne interpellato direttamente e specificamente sulle stragi e che, per queste, molti processi si erano già celebrati ed altri erano ancora in corso, così che egli avrebbe potuto ignorare se i soggetti indicati da Filippo Graviano fossero già noti o meno alle diverse AA.GG. procedenti per quei delitti.

È, poi, appena il caso di rilevare che è priva di qualsiasi riscontro giudiziario l'ipotesi, che la difesa degli imputati Subranni e Mori ha tentato più volte di accreditare nel corso del suo controesame, per la quale le "nuove rivelazioni" siano state suggerite al Di Giacomo in occasione degli interrogatori effettuati dal Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Dott. Donadio. Quand'anche quest'ultimo dovesse essere incorso in violazioni di carattere disciplinari connesse alla mancata delega per quella attività, al mancato coordinamento con le indagini di altre AA.GG. ed al mancato adeguato resoconto al vertice del suo Ufficio delle attività compiute, non potrebbe, infatti, da queste farsi derivare la conclusione del "suggerimento" ai vari dichiaranti del contenuto delle propalazioni, perché, se ciò fosse avvenuto, non si verterebbe più in ambito disciplinare, ma evidentemente di responsabilità penale, che, però, non risulta essere mai stata contestata o, comunque, accertata con sentenze irrevocabili.

In ogni caso, nel vaglio qui richiesto per la valutazione dell'attendibilità intrinseca del Di Giacomo, gioca a favore di quest'ultimo la circostanza che il medesimo non ha mai sollecitato l'esame ai Pubblici Ministeri di Palermo che notoriamente si occupavano delle indagini sulla c.d. "trattativa Stato-mafia" (AVV. DI PERI: lei ha mai chiesto di essere sentito dalla Procura di Palermo? DICH. DI GIACOMO: No, io personalmente no, mai").

È emerso, infatti, che l'esame del Di Giacomo è stato disposto dai Pubblici Ministeri di Palermo soltanto a seguito di una segnalazione da parte di altra A.G. Ciò comprova il disinteresse del Di Giacomo per quelle propalazioni, d'altra parte del tutto ininfluenti rispetto alla sua posizione personale, dovendo egli scontare la pena dell'ergastolo in regime di detenzione carceraria.

A ciò si aggiunga che al Di Giacomo, come risulta dalla sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Catania del 24 luglio 2015 (divenuta irrevocabile il 16 ottobre 2015) è stata, peraltro, già riconosciuta la circostanza attenuante speciale di cui all' art. 8 D.L. n. 152/91 in relazione a sette omicidi commessi tra il l0 maggio 1991 e il 3 agosto 1993 in Catania, Giarre e Carlentini, tanto che, per tali delitti, Io stesso è stato condannato alla pena di anni dodici di reclusione.

Infine, non sembrano idonee ad inficiare in radice l'attendibilità del Di Giacomo le spontanee dichiarazioni del Cinà, che, senza la possibilità di alcun contraddittorio (il Cinà, infatti, si è sottratto all'esame richiesto dalle parti), ha negato non soltanto di avere mai fatto alcuna confidenza al Di Giacomo, ma anche che ciò fosse possibile in considerazione dello stato dei luoghi e della loro sorveglianza (v. dich. spontanee rese da Cinà all'udienza del 22 settembre 2017: "...Quanto alle dichiarazioni del Teste Di Giacomo, posso affermare di non averlo conosciuto prima del periodo di comune detenzione né di aver mai saputo chi fosse. Per un po' di tempo, siamo stati collocati in celle, situate in una sezione a parte rispetto agli altri detenuti, in quanto eravamo entrambi in regime di isolamento. Non ricordo se nella sezione fossero presenti delle telecamere di videosorveglianza. Posso comunque affermare che il controllo visivo degli agenti era continuo e costante. Seppur il loro ufficio si trovasse al di là di una porta, che peraltro rimaneva sempre aperta, all'interno della nostra sezione vi era una postazione di controllo, presidiata 24 ore su 24 da un agente, situata proprio innanzi all'ingresso delle nostre celle. Saremmo stati certamente uditi dal personale GOM e conseguentemente sanzionati non appartenendo al medesimo gruppo di socialità e comunque in isolamento. Smentisco ancora che ci potessimo passare degli oggetti dalle finestre del bagno, allungare la mano verso la finestra dell'altro detenuto. Aggiungo che, se realmente le reti fossero state rotte, come afferma il Di Giacomo, il personale di Polizia Penitenziaria non avrebbe potuto non accorgersene, dal momento che le operazioni di battitura delle inferriate si svolgevano tre volte al giorno, più una serale solo per la rete metallica. E questo tutti i giorni. E non sarebbe stato possibile non avvedersi di eventuali manomissioni ... ").

In proposito, va rilevato, infatti, che nel corso dell'esame del Di Giacomo è stata prodotta (ed acquisita con ordinanza del 27 gennaio 2017) la nota del 2 maggio 2016 prot. N. 5385 indirizzata dal Direttore della Casa Circondariale di Tolmezzo Dott.ssa Silvia Della Branca al Ministero della Giustizia - D.A.P. - Direzione Generale dei detenuti e del trattamento - Segreteria di Sicurezza, nella quale, con riferimento alla nota nr. O 149245 del 28 aprile 2016 della Direzione Generale in indirizzo, si legge: "I detenuti Graviano Filippo e Di Giacomo Giuseppe Maria hanno sofferto comune detenzione presso il Reparto 41 bis annesso a questo istituto dal 10.09.2001 al 27.02.2007, fatta eccezione per il periodo giugno 2003 - luglio 2003 nel quale il Di Giacomo è stato temporaneamente assegnato in altro Istituto. Dal luglio 2003 al settembre 2003 e dall'ottobre 2004 al marzo 2005, il Graviano ed il Di Giacomo hanno fatto parte del medesimo <>.

I detenuti Cinà Antonino e Di Giacomo Giuseppe Maria sono stati congiuntamente ristretti presso il Reparto detentivo 41 bis dal 16.07.2006 al 29.07.2008; sono stati ubicati nella medesima Sezione detentiva dal luglio 2006 a gennaio 2007 ma non hanno mai fatto parte del medesimo <>. Le camere detentive ove erano ubicati sono confinanti tra loro e uniche componenti della Sezione detentiva, all'epoca denominata B. Le finestre dei bagni delle rispettive camere distano circa un metro mentre le porte di accesso alle camere distano tra loro circa 5 metri. Dal dicembre 2007 al luglio 2008 i detenuti sono stati ubicati in sezioni detentive diverse e sovrapposte. Le camere detentive di entrambi non erano né sovrapposte né confinanti ma in lati opposti delle rispettive Sezioni detentive".

Ora, l'allocazione confinante delle camere detentive e, soprattutto, l'estrema vicinanza delle retrostanti finestre dei bagni distanti tra loro appena un metro, rendono, con manifesta evidenza, del tutto possibile i colloqui tra i detenuti di quelle due celle senza che gli agenti della Polizia Penitenziaria potessero ascoltarli, stante che questi si trovavano in una postazione all'inizio del corridoio nel quale si aprono le porte delle celle (opposte alle retrostanti finestre di cui si è detto).

Non è, poi, di certo inverosimile la parziale rottura delle reti non scoperta in occasione dei controlli operati dagli agenti, i quali, di certo, per la situazione dei luoghi qual è emersa in questo dibattimento, non potevano temere alcuna fuga dei detenuti attraverso quelle finestre che si aprivano nel cortile retrostante.

Né, notoriamente (e ciò vale anche per Cinà che non può certo ignorarlo), esistono, se non nei casi di attività intercettati disposte dall'A.G., videoriprese interne al carcere al di là di quelle connesse alle esigenze contingenti di controllo dei detenuti e che non vengono né registrate, né, in ogni caso, custodite per così lungo tempo (nella fattispecie, sono trascorsi oltre dieci anni dalla comune detenzione di Cinà e Di Giacomo).

Le predette considerazioni (e, ancor prima, le relative risultanze) hanno reso superflui tutti gli accertamenti istruttori sollecitati dal Cinà e dalla sua difesa (l'esame della Direttrice dell'Istituto Penitenziario che nulla potrebbe aggiungere riguardo alla situazione dei luoghi già come sopra descritti, sulla base della quale non potrebbe di certo escludere che i detenuti abbiano potuto

comunicare da loro, né potrebbe, ovviamente, garantire, in termini di assoluta certezza, che gli agenti preposti al controllo siano stati effettivamente ininterrottamente attenti nel loro servizio o ancora, in ipotesi, che non si siano talvolta allontanati ovvero abbiano eventualmente tollerato, tenendosi a distanza, che i detenuti conversassero tra loro; l'acquisizione di eventuali videoregistrazioni potendosene escludere l’esistenza; l’esperimento giudiziale perché appare addirittura ovvio che, ad una distanza di appena un metro esistente tra le rispettive finestre dei bagni, sia possibile conversare mantenendo un tono di voce basso e non udibile da coloro che si trovavano nel corridoio e, quindi, all’opposto della cella e con la porta di questa chiusa).

Ne consegue, in conclusione, che, per gli elementi di conoscenza acquisiti in questa sede, deve ritenersi che anche Giuseppe Di Giacomo superi il vaglio preliminare di credibilità necessario per affrontare il merito delle sue dichiarazioni, anche se tra queste, quelle da lui tardivamente rese, dovranno essere valutate con estrema attenzione e utilizzate nei limiti in cui sarà possibile acquisire adeguati riscontri esterni.

 

DI MATTEO MARIO SANTO

È stato esaminato all'udienza del 12 giugno 2014.

Appartenente all'associazione mafiosa sin dalla fine degli anni settanta, Di Matteo Mario Santo è stato arrestato il 4 giugno 1993 ed il successivo 24 ottobre 1993 ha iniziato a collaborare con la Giustizia consentendo anche di pervenire alla individuazione di molti responsabili della strage di Capaci alla quale anch'egli aveva preso parte.

La sua collaborazione si è dimostrata subito dirompente per l'organizzazione mafiosa, tanto che il 23 novembre 1993 venne rapito il figlio tredicenne del Di Matteo proprio per indurre quest'ultimo a ritrattare le sue dichiarazioni.

In conseguenza di tale evento altamente traumatico per il Di Matteo (il figlio, dopo oltre due anni di "detenzione" inumana, venne ucciso nel gennaio 1996 per volere di Giovanni Brusca) la sua collaborazione ha avuto alterne vicende, risentendo anche dell'astio nutrito dal detto dichiarante verso coloro che riteneva responsabili della morte del figlio e, tra questi, innanzitutto, Giovanni Brusca. Ciò nonostante, nel suo complesso, la collaborazione non può che considerarsi positiva pur con la necessità di un più attento vaglio dei singoli contesti sui quali si inserisce ciascuna propalazione.

 

DI NATALE GIUSTO

È stato esaminato all'udienza del 12 giugno 2015.

Pur senza essere mai stato formalmente affiliato all'organizzazione mafiosa, Giusto Di Natale ha preso parte a molte attività delittuose (anche omicidiarie) per conto di questa, intrattenendo rapporti con importanti esponenti mafiosi, tra i quali, innanzitutto, Leoluca Bagarella.

Le sue dichiarazioni sono state riscontrate in vari processi conclusi con sentenze irrevocabili ed allo stesso è stata già riconosciuta la circostanza attenuante della collaborazione.

Del tutto positivo, dunque, deve essere il giudizio preliminare sulla credibilità del detto dichiarante.

 

FERRANTE GIOVAN BATTISTA

È stato esaminato all'udienza del 7 novembre 2013.

Ha fatto parte dell'associazione mafiosa "cosa nostra" dalla fine degli anni settanta sino al 1996 quando ha iniziato a collaborare con la Giustizia, confessando la sua partecipazione alle stragi di Capaci e di via D'Amelio, oltre che ad altri omicidi "eccellenti" quali quelli del Dott. Chinnici e dell 'On. Lima. La sua collaborazione si è rivelata subito preziosissima per la ricostruzione materiale dei suddetti eventi delittuosi ed al Ferrante è stata già riconosciuta la circostanza attenuante della collaborazione.

 

FERRO GIUSEPPE

È stato esaminato all'udienza del 10 settembre 2015.

Appartenente alla "famiglia" mafiosa di Alcamo sin dal 1981 e successivamente

anche capo mandamento di Alcamo dopo l'uccisione di Vincenzo Milazzo avvenuta nel 1992, Ferro Giuseppe ha subito vari periodi di carcerazione ed ha, infine, iniziato a collaborare con la Giustizia nel giugno 1997.

Insieme al figlio Vincenzo, ha preso parte alla strage di Firenze, di cui, come risulta dalla sentenza in atti, ha consentito di disvelare la fase della ricerca e del rinvenimento della base logistica utilizzata dagli attentatori.

L'attendibilità del Ferro è stata già positivamente vagliata dalla A.O. di Firenze sia pure con alcuni comprensibili limiti di reticenza nel coinvolgimento del figlio Vincenzo, tanto che, tenuto conto del "contributo dato all'individuazione dei mandanti di queste azioni delittuose e all'accertamento del contesto in cui sono maturate le stragi'' (v. sentenza di primo grado), è stata riconosciuta al predetto la circostanza attenuante della collaborazione.

 

GALATOLO VITO

È stato esaminato nelle udienze del 7 e 15 maggio 2015.

Vito Galatolo, quale figlio di Vincenzo capo della "famiglia" mafiosa dell'Acquasanta, ha fatto parte di tale "famiglia", di fatto dal 1992 ed è stato, però, formalmente "combinato" nel giugno 2010 in carcere

P.M. TERESI: Senta, lei ha fatto parte dell'associazione mafiosa Cosa Nostra?

DICH. GALATOLO Sì, sì ... Allora, ufficialmente oppure da quando... Non so, perché dal 92 in poi già mi occupavo della famiglia dell'Acqua Santa, a gestire immobili, soldi di mio padre, della famiglia dell'Acqua Santa, queste cose. Poi ufficialmente sono stato combinato nel giugno del 2010... Una punciuta

P.M. TERESI: La punciuta. E chi era presente?

DICH. GALATOLO: Rosario Lo Bue del mandamento di Corleone e Antonino Di Giovanni, all'epoca responsabile della famiglia dell'Acqua Santa... Nino Di Giovanni era come mio padrino di cresima, di entrare in Cosa Nostra... Del mandamento di Resuttana

P.M. TERESI: E quali altre famiglie vi appartengono?

DICH. GALATOLO: Acqua Santa, Arenella e Vergine Maria... allora, il rappresentante della famiglia dell'Acqua Santa è Galatolo Vincenzo, mio padre... io sto parlando dell'associazione Cosa Nostra dagli anni ottanta ai novanta... Sotto Capo Antonino Pipitone, sempre della famiglia dell'Acqua Santa, e uomini d'onore c'era mio zio, Galatolo Giuseppe, Galatolo Raffaele, Stefano Fontana, Vincenzo Di Maio, questa era diciamo quella vecchia, diciamo. Poi dal novanta in poi sono cambiate un po' le cose").

Dopo la scarcerazione gli è stato, quindi, affidato, nel 2012, l'incarico di capo del "mandamento" di Resuttana ("... Dopo la mia scarcerazione nel 2012, dopo quasi dieci e mezzo di carcere, ho preso anche il ruolo del capo mandamento di Resuttana") per diretto volere di Matteo Messina Denaro secondo quanto riferitogli da Girolamo Biondino ("Sono stato avvicinato, chiamato in un appuntamento da Mimmo Biondino, da Girolamo Biondino, in cui... Per una situazione che si doveva fare, mi volevano a capo del mandamento sia lui... Però la vera decisione l'ha portata Matteo Messina Denaro... Essendo che noi eravamo stati sempre vicini ai Madonia e lui ci conosceva, a mio padre, chi eravamo noi, avevamo un po' di diritto ufficialmente di prenderci il mandamento nelle mani al posto di gente estranea che non si conoscevano chi erano, senza pedigree diciamo").

Dopo essere stato arrestato il 23 giugno 2014 nell'ambito dell'operazione c.d. "Apocalisse" ha deciso di collaborare con la Giustizia.

Le conoscenze del Galatolo appaiono coerenti con l'appartenenza dello stesso ad una delle storiche "famiglie" di "cosa nostra" e con la sua discendenza da Vincenzo Galatolo, che ha ricoperto ruoli direttivi nell'associazione mafiosa ed è stato alleato dei Madonia e, quindi, dei "corleonesi".

Lo stesso Galatolo ha dato conto delle ragioni della sua recente decisione di intraprendere la collaborazione con la Giustizia e non sono emersi, nel corso dell'esame condotto in questa sede, al di là di talune incertezze assolutamente "normali" quando si riferiscono fatti risalenti nel tempo, elementi idonei a inficiare la credibilità generale del dichiarante.

 

GALLIANO ANTONINO

È stato esaminato all'udienza del 10 luglio 2014.

Arrestato nel dicembre 1995 per una rapina alle Poste, ha iniziato a collaborare il 20 luglio 1996, confessando di essere stato affiliato riservatamente da Raffaele Ganci nell'ottobre 1986 e di avere partecipato alla strage di Capaci ed a molti omicidi, tra i quali quello dell'ex sindaco di Palermo Insalaco.

La sua credibilità è stata già positivamente vagliata in molti processi ed allo stesso è stata già riconosciuta la circostanza attenuante della collaborazione.

 

 

Per approfondimenti:

PRIMA PARTE, giovedì 21 maggio 2020Il Patto Sporco: la sentenza dimenticata

SECONDA PARTE, domenica 24 maggio 2020, Stato-mafia: la sentenza

TERZA PARTE, lunedì 25 maggio 2020, Le tappe della Sentenza dimenticata

QUARTA PARTE, martedì 26 maggio 2020, La Sentenza: i Corleonesi

QUINTA PARTE, giovedì 28 maggio 2020, La Sentenza: i Collaboratori/1

SESTA PARTE, sabato 30 maggio 2020, La Sentenza: i Collaboratori/2

SETTIMA PARTE, domenica 31 maggio, La Sentenza: i Collaboratori/3

OTTAVA PARTE, martedì 2 giugno 2020, La Sentenza: i Collaboratori/4

NONA PARTE, sabato 6 giugno 2020, La Sentenza: i Collaboratori/5