«Lettera aperta di un calabrese vigliacco»
«Ogni volta che torno provo a destrutturare alcuni retaggi socio culturali aberranti, ma è poco, troppo poco per un territorio che necessiterebbe di un intervento massiccio di massa, di un interessamento fisico e viscerale senza precedenti. Ed è per questo che nell’ammenda dei miei peccati fatico a non considerarmi vigliacco, perché sarebbe troppo comodo posizionarmi tra gli impotenti, tra coloro che ci avrebbero voluto provare ma hanno desistito.»
Non potrei esordire che in un modo più tuonante e veritiero di questo titolo. Sono un giovane calabrese ormai residente a Roma da 10 anni, che si è naturalizzato nella caput mundi, che è scappato dalla sua terra guardandola affondare anno dopo anno sempre di più.
L’ho fatto come lo hanno fatto molti altri prima di me ed insieme a me, chi più passivamente ed altri come me che comunque non hanno avuto il pieno coraggio di voltare lo sguardo ed a mai più rivederci.
Sono sempre stato attento, nel mio piccolo ho fatto delle battaglie virtuali. Ogni volta che torno provo a destrutturare alcuni retaggi socio culturali aberranti, ma è poco, troppo poco per un territorio che necessiterebbe di un intervento massiccio di massa, di un interessamento fisico e viscerale senza precedenti.
Ed è per questo che nell’ammenda dei miei peccati fatico a non considerarmi vigliacco, perché sarebbe troppo comodo posizionarmi tra gli impotenti, tra coloro che ci avrebbero voluto provare ma hanno desistito.
La Calabria ha un substrato di tradizione clientelare che nasce quasi nella notte dei tempi, la formula “dell’amico dell’amico” è talmente insita in ogni calabrese che pare quasi peccato disfarsene. Quella finta novella dell’accoglienza, che sembrerebbe quasi uno slogan comunista e che in realtà nasconde quanto sia profondo in Calabria il senso egoistico del coltivare solo il proprio orticello: “se serve a me allora
mi ingegno, se serve agli altri è inutile”.
No, perché non basta solo imbandire tavolate bucoliche a base di carne del maiale, ucciso con onore i mesi precedenti, per dirsi “veritieri” nell’accogliere.
Non basta invitare l’amico di fuori regione per fargli vedere le meraviglie naturalistiche se poi per farlo arrivare a casa tua devi fargli fare l’interrail che non farebbe neanche in un paese del quinto mondo.
Non bastano molte cose eppure così perdurano.
Le sottolineo, le sottolineiamo, ma tutto così resta, come una magica profezia di immobilismo.
Senti parlare di 'ndrangheta, che esiste per amor del cielo, ma se la paragonassi ad una gara da appalto ogni calabrese farebbe carte false per vincere il bando.
L’indignazione è pari all’ammirazione che si ha verso il sistema mafioso e non si devono commettere efferati crimini per definirsi tali.
Tutti ci indigniamo se vediamo il perpetrarsi di situazioni che non cambiano da sempre, ma mai che nessuno si impegnasse realmente per innescare un sistema di rivoluzione del pensiero, una sensibilizzazione delle
coscienze.
Ed allora tutto quel che accade intorno alla Calabria perde di senso, anche quest’ultima diatriba sulla sanità, sulla zona rossa, sui calabresi che troppo facilmente si lasciano convincere che la rivolta vada fatta perché sono costretti a rimanere a casa e non sul motivo radice del perché debbono farlo.
Ma perché è sempre più semplice interpellare il problema satellite e non si prova mai ad approdare nel pianeta incancrenito per provare a disinnescare la violenza del suo tormento?
Forse questo sarebbe il momento per scendere in piazza, di raccogliere energie e menti brillanti per fare quello che si doveva fare almeno 50 anni fa.
E niente, ricordi che le utopie sono gratis ma smantellare il sistema richiede una dedizione ed uno sforzo talmente enorme, che ti fermi allo stato embrionale delle tue bizzarre intenzioni.
Uno, nessuno e centomila… il volto di un Calabrese vigliacco.
Francesco Oscar Ferraro
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