Ma gli animali possono parlare? E possono soffrire?

Il convegno, dal titolo “La comunicazione interspecie: sfide epistemologiche e ricadute applicative”, si è svolto la scorsa settimana. Due giornate intense, 5 e 6 dicembre, organizzate dall’Università del Molise, con il Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione e con il Centro Linguistico di Ateneo. Nella sala “E. Fermi” della Biblioteca di Ateneo, a Campobasso, sono intervenuti accademici provenienti dalle diverse Università italiane.

Ma gli animali possono parlare? E possono soffrire?
Foto UniMol

«Una domanda ricorrente è se c’è una unicità, una particolarità nel linguaggio umano o se in qualche modo c’è una discontinuità. L’idea che l'uomo è un animale parlante e questo rappresenta la sua unicità, si fa risalire, in genere, ad Aristotele. Parte da qui la posizione che la capacità di parlare è specifica della specie umana ed è la grande barriera che ci distingue dagli animali. Ancora oggi c’è chi sostiene questa unicità del linguaggio. Noi siamo la specie simbolica, il linguaggio è proprio della specie umana e gli altri esseri umani hanno capacità di linguaggio che si sovrappongono». Comincia così l’intervento della professoressa Giuliana Fiorentino, docente dell’Università del Molise.

L’iniziativa ha focalizzato l’attenzione sui temi legati alle interazioni comunicative che esistono tra persone e animali.

Il convegno, dal titolo “La comunicazione interspecie: sfide epistemologiche e ricadute applicative”, si è svolto la scorsa settimana. Due giornate intense, 5 e 6 dicembre, organizzate dall’Università del Molise, con il Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione e con il Centro Linguistico di Ateneo. Nella sala “E. Fermi” della Biblioteca di Ateneo, a Campobasso, sono intervenuti accademici provenienti dalle diverse Università italiane. Nel corso dell’esposizione i relatori hanno toccato diversi ambiti scientifico-culturali: dalla linguistica alla sociologia, dalla filosofia all’antropologia, per confluire nella storia, nel diritto, nell’etica, nella zootecnia, nella medicina.

Presente tra i relatori anche Roberto Marchesini, direttore della Scuola di Interazione Uomo-Animale.

I professori dell’Unimol Lorenzo Scillitani e Giuliana Fiorentino

Di spessore l’intervento della professoressa Fiorentino: «Con Cartesio continua la svalutazione, l’idea della unicità della comunicazione umana, ma non tanto del linguaggio in sé, anzi c’è una svalutazione di quest’ultimo perché in realtà il linguaggio è in qualche modo il riflesso, il modo attraverso cui noi abbiamo accesso alla ragione che caratterizza l’uomo. Mentre i linguisti, i filosofi - in qualche modo - isolavano l'uomo dalle altre specie viventi, nel mondo delle scienze naturali si accumulavano opere, osservazioni e studi sulla vita degli animali e sulle forme di interazione, socialità che sfruttano i meccanismi di comunicazione. Tutto questo patrimonio di conoscenze scientifiche trova nella sistemazione e visione darwiniana un tributo fondamentale».

Molte forme di comunicazione – ha sostenuto la docente dell’Unimol - appartengono tanto agli animali quanto alla specie umana. «Con la nascita dell’Etologia gli studi scientifici sulla comunicazione animale hanno cittadinanza ampia, non solo nel mondo delle scienze ma alcune di queste ricerche entrano in tutti i manuali di linguistica e rappresentano nuovamente un punto di contatto tra le scienze umane, la linguistica e gli studi sulla comunicazione degli animali. Riprende spazio una visione della continuità pur riconoscendo l’unicità, la specificità e la superiorità alla comunicazione umana».

Ma cosa accade nell’Etologia?

«Finalmente gli animali e la forma di comunicazione degli animali sono studiati senza pregiudizi cioè senza necessità di riportare a confronto con l’umano. Negli anni Sessanta nasce una disciplina nota come Zoosemiotica a cura di Thomas Sebeok che la definisce “il punto di saldatura fra lo studio delle lingue verbali e lo studio dei codici di comunicazione delle specie animali e non umane”». In linguistica si osserva come gli esseri umani hanno in comune la comunicazione verbale, ma anche elementi del non verbale. «Un contributo importante in questo dibattito è rappresentato dal lavoro di Charles Hockett – ha aggiunto la Fiorentino -, che a partire dagli anni Sessanta lavora intorno ad una lista chiusa di tratti costitutivi del linguaggio».

Il seminario ha visto il supporto di Associazioni, Enti, Istituzioni: tra cui il Comitato Bioetico di Ateneo dell’Unimol, l’Università di Foggia, il Parco Nazionale del Gargano, il Parco Nazionale della Majella, MareVivo, il CSV Molise e Foggia e il NuovoMeridionalismoStudi. L’incontro tra accademici ed esperti delle varie materie non solo ha creato un serrato dibattito scientifico ma è stata anche l’occasione per sensibilizzazione la popolazione sulle tematiche vicine ai concetti della tutela degli animali.

Due giornate di incontri dove i presenti hanno potuto ascoltare gli interventi di Felice Cimatti (UniCal), Francesca Maria (UniNa), Silvana Mattiello (UniMi), Elisabetta Salimei (UniMol), Fabio Granato (UniBa), Simone Pollo (Uniroma 1), Federica Pirrone (UniMi), Elisabetta Palagi (UniPi), Lorenzo Scillitani (UniMol), Fabrizia Abbate (UniMol), Letizia Bindi (UniMol), Matteo Luigi Napolitano (UniMol), Renzo Infante (UniFg), Marco Stefano Birtolo (UniMol).

«Il linguaggio verbale è innato»

«Uno degli obiettivi e degli interessi di linguistici – ha concluso la professoressa Fiorentino - è stato quello di provare ad insegnare le lingue verbali agli altri animali, in particolare alle scimmie antropomorfe. Chomsky stabilisce che il linguaggio verbale è innato. La sua caratteristica fondamentale è la sintatticità. Nella seconda fase, dagli anni ‘90 ad oggi, in cui nasce l’etologia cognitiva, ricomincia l’interesse dei linguisti verso gli studi di etologia».

La professoressa Rebeca A. Papa

«Critical Animal and Media Studies: il ruolo dei media nella rappresentazione della relazione uomo-animale». Questo è stato il tema dell’intervento della docente dell’UniMol Rebeca Papa. Un intervento che ha toccato una questione fondamentale, apparentemente slegata dalla questione del linguaggio tra gli esseri viventi: gli animali possono soffrire? Questa domanda viene posta dall’uomo? «Come esseri umani non possiamo non farci carico della responsabilità di riconoscere agli animali un valore intrinseco, in quanto soggetti senzienti, e quindi anche in quanto soggetti che meritano di essere presi in considerazione a partire dai loro interessi e dal loro benessere. Gli studi critici sugli animali affrontano questa questione sia come compito morale, quindi come sfida etica ma anche da un punto di vista intellettuale. E il ruolo della ricerca sociologica si definisce in questo senso.

Ma quali sono gli obiettivi dei primi studi dei Critical Animal Studies?

«Forme di sfruttamento e oppressione vissute da molte specie negli assetti produttivi delle società umane; le implicazioni sul piano sociale politico e culturale, con particolare attenzione tra ricerca scientifica e attivismo. Le scienze umane iniziano ad occuparsi di questo tema e del rapporto che noi abbiamo con gli animali. Nei primi decenni del secolo scorso iniziano ad interrogarsi sul modo in cui l’uomo sfrutta e tratta gli animali. Le scienze umane studiano la questione animale con un’istanza morale fortemente critica nei confronti dello sfruttamento degli uomini sugli animali.»

Il ruolo dei media

«In ambito sociologico gli studiosi hanno iniziato a interrogarsi su qual è il ruolo dei media, in riferimento alla questione animale e su come i media abbiano un ruolo importante nel perpetuare quel sistema di valori che in qualche modo legittima e giustifica ciò che l’uomo fa agli animali. Iniziano a fiorire una serie di ricerche sulle rappresentazioni da parte dei media su come i media rappresentano gli animali e le relazioni uomo-animali. Naturalmente queste prime ricerche adottano un atteggiamento critico».

Per molto tempo, però, gli studi critici hanno dimenticato la questione animale. «È venuta successivamente perché c’era una visione estremamente antropocentrica. Iniziano a fiorire le prime ricerche, ad esempio sulla pubblicità, per capire come veniva rappresentato l’animale. Una visione antropomorfizzata dell’animale attraverso i media, una rappresentazione che vuole giustificare il consumo di un prodotto ricavato dall’animale. La giustifica rappresentando un animale che è apparentemente felice.»

Con la rete, come ha sostenuto la docente dell’UniMol, comincia una contro narrazione ad opera delle associazioni animaliste.  

La medializzazione dell’animale

«Nel modo in cui l’animale può essere rappresentato attraverso i media, possiamo avere due possibilità, secondo i critical media studies. Una prima possibilità, quella dello spot iniziale che ritroviamo spesso nei programmi di intrattenimento. I media possono essere o fonte di legittimazione delle relazioni di potere nei rapporti interumani e nel rapporto che l’uomo ha con l’animale oppure possono presentare una contronarrazione, un frame diverso evidenziando una realtà che ha un’altra caratteristica».

Gli animali vengono trattati come simboli. «I primi studi si concentrano all’inizio sull’arte e sulla rappresentazione dell’animale nell’arte, poi anche nel cinema e nella cultura visiva. Ci sono stati tanti studi anche sul ruolo svolto dal linguaggio da parte dei mass media e studi sui media audiovisivi e sulla rappresentazione degli animali in qualche modo selvatici»

Ma qual è lo scopo dei critical media studies? «Proprio quello di smascherare quelle logiche di rappresentazioni mediali degli animali basate tutte su una serie di stereotipi e pregiudizi che sono tipici dello scenario mediale informativo e spesso stereotipi e pregiudizi che però hanno la finalità di legittimare sempre l’oppressione dell’uomo sull’animale. I primi studi ci dicono che l’ideologia di fondo su cui si basano queste rappresentazioni mediali, è quella di osticismo; l’uomo è al di sopra di tutti gli altri esseri viventi».

Mancano però gli studi sulle sofferenze degli animali. «I critical media studies hanno messo in evidenza il legame tra la rappresentazione degli animali e anche il sistema capitalistico di produzione, per esempio di sfruttamento dell’animale. Hanno notato come molti cartoni animati che hanno come protagonisti gli animali spesso creano accordi con le grandi catene di fast food, con l’obiettivo essenzialmente di distrarre il bambino dal fatto che sta consumando la carne e lo si fa affezionare piuttosto al personaggio del cartone».

 

Gli studenti del Laboratorio di Scrittura giornalistica dell'Unimol

 

 

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