Michelina Di Cesare, la brigantessa

Lei rimase uccisa, fucilata, denudata e forse violentata. Fotografata ed esposta al pubblico, insieme agli altri nella piazza del paese.

Michelina Di Cesare, la brigantessa

La collana Le Italiane, per i tipi della Casa Editrice Maria Fazzi Editore, risulta essere un contenitore accattivante per mettere in scena le vicissitudini di donne che hanno partecipato alla storia dell’umanità ognuna con il proprio ruolo e con la personale ricaduta nel contesto in cui sono vissute. Talune hanno seguito la scia della regolarità dettata dalla loro appartenenza ai circuiti del potere, altre hanno scardinato il substrato di una linea sociale che le vedeva costrette a rimanere nell’ombra, altre ancora hanno delineato, con il loro passaggio, un diverso modo di interpretare il dialogo del mondo delle donne con il resto della società.

Tutte si sono però distinte per aver colmato un vuoto storico, il valore sociale rafforzato dai loro passi nella storia personale che irrimediabilmente è diventata collettiva e universale.

Direttrice della collana non poteva che essere una donna, Nadia Verdile, docente, giornalista, scrittrice, ma soprattutto una donna che ha tenuto  e tiene a cuore le sorti delle donne, un universo da esplorare, da valorizzare e da far conoscere.

Molti i libri della Collana scritti proprio da lei. Basti ricordare “Cristina Trivulzio”, “Gianna Manzini” e “Matilde Serao”.

Ma quello che voglio farvi conoscere oggi è l’ultimo suo libro, “Michelina Di Cesare” che da povera contadina, diventa una “brigantessa”.

Michelina Di Cesare nasce a Caspoli, paese poverissimo, oggi in provincia di Caserta, nel 1844. Giovane vedova, conobbe Francesco Guerra, ex soldato borbonico, disertore verso l’esercito italiano e poi capo di una banda di briganti e ne divenne la compagna. Visse con lui in clandestinità e condivise il comando della banda fino alla cattura e all’uccisione.

Nel libro, Nadia Verdile riesce a riannodare la storia privata della protagonista nel  contesto frastagliato del sofferto periodo postunitario, quando il Meridione, in particolare,   e il resto dell’Italia, vittima di una disorganica e  improvvisata unificazione, pagavano lo scotto della povertà estrema, dell’ignoranza e della mancanza di identità storica e sociale.

Pagine intense di fatti e misfatti in cui campeggia la storia degli ultimi, della fascia di popolazione a cui era stato affidato un mondo miserabile di mortificazione e di nefaste sventure le cui sorti erano manovrate dalle azioni della classe dominante che tendeva a stabilizzarsi: tutto questo senza il loro consenso.

Puntuale la collocazione degli eventi nello spazio e nel tempo con la raccolta documentaria della storia pre e postunitaria. Ed arriviamo all’esistenza e al ruolo dei briganti nel Meridione. Chi erano i briganti e chi le brigantesse? Furono definiti sbandati, partigiani, criminali che combattevano per la loro sopravvivenza e per la caparbia volontà di non abbassare la testa al neonato Stato italiano di stampo sabaudo. Ciò che caratterizza la loro azione è il ribellismo, macchiato anche di ferocia, nel fare razzie, seminare il terrore nelle campagne, anche quelle molisane.

Cosa c’entra Michelina Di Cesare? La donna, proveniente da una delle tante famiglie poverissime, per scampare al suo ruolo spento di vedovanza, e per di più, insieme alla sorella, incapaci di “generare” erano viste come un fallimento. Fu così che decise di aggregarsi, seguendo il fratello Domenico alla banda capeggiata da Francesco Guerra chiamato Ciccio. Smise i suoi abiti di pastrorella e indossò, con grande disappunto del fratello e dello stesso Ciccio, gli abiti maschili per diventare una di loro. Non la tradì il suo spirito combattivo, la selvaggia libertà esalata dall’odore dei boschi che attraversavano a cavallo tra Molise, Abruzzo e Sannio dove la banda incontrava la banda di Domenico Fuoco e Alessandro Pace. Anche dopo la legge Pica del 13 agosto 1863 per contrastare il brigantaggio,  le bande non arrestarono la loro azione. Chi tesseva i contatti con casa Borbone in Molise era il duca di Pescolanciano, era stato lui a preparare la “controrivoluzione” dalle terre molisane.

«Si trattò di una legge vergognosa che non faceva distinzione tra briganti, banditi, assassini, contadini, manuntegoli, complici veri o presunti. A tal punto che nel 1864 il calabrese don Vincenzo Padula scrisse “Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali , civili e militari… si arrestano le famiglie, i briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora chi comanda, ora chi esegue quegli arresti. Fu così che la legge Pica mescolò, consapevolmente e colpevolmente, in un unico calderone il banditismo con l’attività di brigantaggio politico di stampo leggittimista” (cif. pag 76/77)

E fu in questo gioco di passioni che esplose la passione più grande tra Michelina e Francesco. Il loro amore portò a sorvolare le tracce del loro passaggio tra le vallate e i boschi dove succedeva di tutto. E lei Michelina, quando scopre di essere incinta, porta avanti la gravidanza, ma  una volta nata la sua creatura nella Valle dell’Inferno tra le mani della levatrice di Veroli, la consegna alla sua nuova mamma che, prende il denaro con cui l’avrebbe allevato.

Ma lei Michelina,  anche con lo sguardo di pietra, continuò a lottare con Ciccio e la sua banda fino a quando l’attività di repressione del brigantaggio, non fu più possibile essere contrastata. Lei rimase uccisa, fucilata, denudata e forse violentata. Fotografata ed esposta al pubblico, insieme agli altri nella piazza del paese. A Mignano.

Il tempo della fine arrivò anche per lei, donna vittima della sua condizione sociale, della rudezza di una vita che pareva non avesse più scopo se non quello di respirare l’unica  libertà  che le pareva adeguata al fluire del suo tempo nel mondo.