Perché non bisogna scomodare l'Egitto

Dopo il caso Regeni, è arrivato il caso Zaki. L'Egitto di al-Sisi tenta di silenziare il dissenso tappando la bocca agli studenti. L'Italia ha provato a far sentire la propria voce, ma i risultati sono stati scarsi. Perché ci si guarda bene dallo scomodare il dittatore egiziano? Quali interessi politici - ed economici - si celano dietro le relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto?

Perché non bisogna scomodare l'Egitto

Dall’aula del Senato è arrivato un segnale netto, risoluto nei confronti del governo affinché si impegni a dispiegare tutte le forze necessarie per tirare fuori di prigione Patrick Zaki. L’ordine del giorno, approvato con larghissima maggioranza, chiede, tra l’altro, che si conceda la cittadinanza italiana allo studente egiziano, che nel nostro Paese “può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia ovvero quando occorra un eccezionale interesse dello Stato”.

Quanto questo strumento possa facilitare il dialogo con le autorità egiziane per il rilascio di Zaki, non è chiaro. Il vice ministro per gli Affari Esteri, Marina Serini, pur lodando l’iniziativa dei parlamentari, ha tenuto a chiarire che in caso di doppia cittadinanza, sarebbe comunque quella egiziana a prevalere e l’iter per la scarcerazione potrebbe addirittura complicarsi: "con riferimento all'attribuzione della cittadinanza, si riconosce la portata ideale, simbolica e umanitaria del gesto ma è importante che la mozione oggi in discussione faccia riferimento alla necessità di verificare tutte le condizioni in vista della possibile concessione della cittadinanza. Serve una valutazione approfondita del contesto in cui tale concessione andrebbe ad inserirsi: la misura potrebbe essere priva di effetti pratici a tutela di Zaki perché, anche alla luce del diritto internazionale, l'Italia incontrerebbe notevoli difficoltà a fornire protezione consolare. Essendo Zaki anche cittadino egiziano, prevarrebbe la cittadinanza originaria, un principio applicato dall'Egitto in modo stringente. C'è il rischio di effetti negativi sull'obiettivo che più ci sta a cuore, cioè ottenere il rilascio di Patrick”.

Ma se non altro, il segnale lanciato dal Senato va nella direzione dell’accoglienza, della solidarietà.

Patrick Zaki lo riconosciamo come cittadino italiano, come cittadino europeo.
È un amo gettato sull’altra sponda del Mediterraneo per raccogliere, una volta tanto, solidarietà invece che odio, morte, violenza, orrore.

Lo scorso dicembre, il Parlamento europeo ha approvato una proposta di risoluzione che punta i riflettori sul regime di al-Sisi e invita i paesi membri dell’Unione a considerare misure restrittive mirate e limitazioni nei confronti di un Paese che mostra ogni giorno di più il suo volto autoritario e uno sprezzante disinteresse verso i diritti umani.

La mossa del Senato italiano, seppur doverosa, potrebbe rivelarsi, sul piano pratico, inefficace o addirittura controproducente. Tutto sta nel capire quali siano le strategie diplomatiche perseguite dal governo italiano.

Ma perché non si procede ad un’azione drastica nei confronti dell’Egitto?

La via della diplomazia non sembra avere dato i suoi frutti in passato. Il caso Regeni ancora grida giustizia. C'è stata un'incrinatura nei rapporti con al-Sisi, eppure non si è mai andati al di là di dichiarazioni risentite, neanche quando le autorità egiziane hanno mostrato palese fastidio e scarsa collaborazione nell’accertamento della verità, ostacolando in tutti modi il percorso della giustizia.

Ciò che a questo punto tocca chiedersi è perché l’Egitto rappresenti per il nostro Paese un partner così importante, un interlocutore da non scomodare.

Le questioni geopolitiche non possono essere trascurate. L’Egitto svolge un decisivo ruolo strategico in quella particolare area geografica: è considerato un mediatore nel conflitto arabo-israeliano e riveste una funzione importante nel processo di stabilizzazione della Libia, oltre che di contrasto al terrorismo. Eppure, non è solo questione politica.

L’Italia intrattiene con il regime di al-Sisi importanti relazioni commerciali, tanto da diventarne il secondo partner europeo e il quarto nel mondo (dopo Stati Uniti, Cina e Germania). Il governo Conte ha incassato la cosiddetta “commessa del secolo”, un accordo economico con cui l’Egitto si appresta a divenire il principale cliente dell’industria militare del nostro Paese.

La commessa prevede la vendita di due fregate Fremm (spedite dall'altra parte del Mediterraneo in tutta fretta e nel silenzio generale), alle quali si aggiungeranno altre 4 navi, 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e aerei addestratori M346, per un valore complessivo di circa 9 miliardi.

Un affare imponente, che altri Paesi europei (prima tra tutti la Francia) ci hanno invidiato. Ma che va a scontrarsi con la salvaguardia dei diritti umani. E, secondo i genitori di Giulio Regeni - che pochi mesi fa hanno firmato un esposto contro il governo - anche con la legge (la legge 185 del 1990 vieta infatti al nostro Paese l’esportazione di materiale di armamento verso paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”).

Ma gli interessi economici dell’Italia in Egitto non sono solo occasionali. L'ENI, per esempio, ha investito 5 miliardi di dollari per lo sviluppo delle risorse minerarie egiziane e gestisce il più grosso giacimento di gas naturali del Mediterraneo (e tra i più estesi del pianeta).

È l’eterna contrapposizione tra interessi economici e diritti umani, che arrovella i governi di tutto il mondo.

E però, i dati di Human Rights Watch parlano di qualcosa come 3000 condannati a morte e 60.000 persone arrestate in Egitto dal 2013. La SSSP (Procura suprema per la sicurezza dello Stato), col pretesto dell’antiterrorismo, ha allargato notevolmente le sue competenze nel perseguire quei crimini che “minano la sicurezza dello Stato”.

Un modo come un altro per tappare la bocca al dissenso.

Nel regime di al-Sisi, gli studenti vengono torturati e imprigionati. A volte, come nel caso di Giulio Regeni, barbaramente massacrati.
Il dissenso, parola potente e “sovversiva”, si incaglia nel filo spinato di un Paese che calpesta i diritti fingendo – neanche troppo bene – di combattere il terrorismo e di assicurare la tenuta dello Stato. Quello di al-Sisi non è nemmeno più un regime mascherato. È una dittatura in piena regola che continua a mostrare ogni giorno al mondo il suo vero volto. E per tutta risposta, riceve indietro attenzioni, proposte di affari, strette di mano.

Che al-Sisi sia solo uno dei tanti “dittatori di cui però abbiamo bisogno”? Dovremmo spiegarlo a Patrick Zaki. Dovremmo spiegarlo ad Ahmed Samir Santawy. E dovremmo spiegarlo a Giulio Regeni. Ma non possiamo.

 

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