«Se non lo facciamo noi chi deve farlo?»

Quarant’anni fa la ‘ndrangheta uccise Giuseppe Valarioti.

«Se non lo facciamo noi chi deve farlo?»
fonte: associazione daSud

La notte tra il 10 e l’11 giugno 1980 le ‘ndrine assassinarono Peppe Valarioti, militante e dirigente del PCI. Si era conclusa da poco una serata di festa, la vittoria alle elezioni amministrative erano un segnale forte di ribellione alle cosche, alle infiltrazioni nel tessuto politico e sociale calabrese e una tappa importante di un vento nuovo per la Calabria.

Durante la campagna elettorale i tentativi di intimidazione della ‘ndrangheta erano state pesanti: fu incendiata l’auto di Giuseppe Lavorato, candidato al consiglio provinciale per il PCI, e la stessa sezione del Partito Comunista.

Valarioti era in prima fila, l’artefice e la voce di una primavera che avanzava impegno dopo impegno, denuncia dopo denuncia, battaglia dopo battaglia. Una lotta contro la ‘ndrangheta con il PCI, nel non fermarsi di fronte ai compromessi e alle complicità che si annidavano anche nel mondo cooperativo e in personaggi che aveva incontrato nel suo impegno politico.

«Se non lo facciamo noi chi deve farlo?», un interrogativo pressante e appassionato che giunge al cuore e riassume perfettamente l’impegno di un grande militante politico, di una persona che aveva deciso di dedicare tutta la vita alla giustizia e alla costruzione di un avvenire migliore per la sua Calabria.

Erano anni in cui la stessa esistenza delle mafie veniva ancora negata e sottovalutata e tanti, troppi, pensavano accettabile chinare il capo di fronte alla violenza e accettare compromessi per interessi di squallide consorterie. Valarioti aveva compreso che le mafie opprimono i più deboli, rubano agli impoveriti, costruiscono una società iniqua e ingiusta. Lottare contro la ‘ndrangheta, il malaffare e le complicità politiche doveva essere un impegno politico, sociale, un imperativo etico e civile. In questi ultimi anni, nauseanti sotto troppi aspetti, è ancora rivoluzionario: troppe volte sentiamo blaterale di legalità e repressione in maniera a dir poco sconcertante, che chi denuncia e s’indigna di fronte alla criminalità e s’impegna perché gli appalti rispettino le leggi e i territori, che l’economia non sia inondata di soldi sporchi e di malaffare è «contro lo sviluppo» e si tenta di isolarlo, delegittimarlo e considerato «nemico» dai grandi industriali come da «opinionisti» à la carte di ogni provenienza politica.

Non può essere così ma, allora come oggi, la verità è sempre un atto rivoluzionario. In quella Calabria dove la ‘ndrangheta all’epoca stava iniziando una prepotente ascesa, e oggi s’insinua nel tessuto politico ed economico, rappresenta un macigno sulla vita pubblica sempre più devastante, Valarioti ha dimostrato con l’impegno politico di tutta la vita che non è così, che i sistemi criminali sono nemici della giustizia e degli ultimi e dei lavoratori, che la ‘ndrangheta si può e si deve battere con la cultura – Valarioti era un professore – una politica pulita ed onesta. Impegni a cui nessuno dovrebbe sottrarsi, non esiste persona che non può esserci.

E quindi «se non lo facciamo» chi altri «deve farlo?», di fronte alle ingiustizie, all’oppressione del prepotente contro i più deboli e fragili, al furto criminale di futuro, ai diritti negati e calpestati per gli interessi e gli affari di pochi potentati non si può e non si deve rimanere in silenzio. Nel 1980 come oggi in un’Italia piegata e in ginocchio dopo la pandemia, dopo questi mesi di incubo ed emergenza, in cui milioni di persone si ritrovano a combattere contro la povertà crescente, il lavoro che manca sempre più o è precario, sottopagato, dietro cui si nascondono sfruttamento e vere schiavitù. La lotta contro le mafie è battersi perché questo non avvenga più, perché non ci siano persone incatenate e sfruttate nei campi o nella logistica, nelle consegne a domicilio o nelle fabbriche, per l’arricchimento dei colletti bianchi e di padroni e padrini.

Le idee, come scrissero i compagni di un altro grande Giuseppe del sud assassinato due anni prima dalla mafia in Sicilia, camminano sulle nostre gambe e i comunisti – urlò in uno dei suoi ultimi comizi Peppe Valarioti (comizio che avvenne lo stesso giorno del funerale della madre del boss Giuseppe Pesce con l’arrivo a Rosarno di tutti i mafiosi del circondario) – non si piegano. Compagno per Valarioti non era solo una parola e non era solo lo spartirsi potere e prebende, affari e poltrone, ma condividere in maniera autentica il pane e farlo con i lavoratori, con coloro che non hanno diritti, con coloro che vengono impoveriti perché altri si possano arricchire, senza piegare la testa e scendere a compromessi con la borghesia mafiosa e gli sfruttatori, contro i criminali oggi in giacca e cravatta e un sistema economico-politico che prospera sul sangue delle persone, sulla bestialità delle peggiori pratiche.

Pratiche criminali, delinquenziali, inique, disumane. Quarant’anni dopo le ‘ndrine sono ancora presenti, hanno sempre più referenti negli apparati istituzionali, l’imprenditoria criminale è cresciuta e la ‘ndrangheta è oggi la mafia più presente ed affermata a livello internazionale. Nella sua Rosarno e in tanti altri luoghi della Calabria e dell’Italia intera il caporalato e la schiavitù nell’agricoltura esistono e sfruttano – l’ultima inchiesta che ha coinvolto varie regioni è dei giorni scorsi, i lavoratori migranti venivano chiamati «scimmie» dagli schiavisti – fino ad ammazzare. Come ci ricorda la storia di Soumaila Sacko, bracciante e militante sindacale dell’Unione Sindacale di Base assassinato due anni fa in un contesto sociale in cui sfruttamento e ‘ndrangheta rappresentano lo stesso blocco criminale.

Due anni fa furono fatte girare le notizie più false e squallide possibili contro Sacko, ci fu chi provò persino a trattarlo come ladro, ma la verità tutta intera è stata fin troppo evidente sin dall’inizio: Sacko è stato assassinato, è vittima della ‘ndrangheta ed era sfruttato tra gli sfruttati, ucciso perché considerato «colpevole» di volersi battere per la dignità delle persone e per rompere le catene. Esattamente come Peppe Valarioti quarant’anni fa.

A Caltanissetta il 3 giugno scorso è stato assassinato Siddique Adnan che si era fatto portavoce di una rivolta contro i caporali, da settimane l'Usb sta portando avanti una mobilitazione nei ghetti dello sfruttamento - di cui è portavoce Aboubakar Soumahoro - «siamo persone e non braccia» il grido dei braccianti al governo per chiedere il rispetto della dignità e dei diritti e non solo una «regolarizzazione» funzionale solo agli interessi economici padronali di questi mesi di emergenza.

«Se non lo facciamo noi chi deve farlo?» non accettare di alimentare e denunciare lo sfruttamento nelle campagne o nelle fabbriche, nelle periferie o anche nascosti dalle mura di tante residenze sfarzose. «Se non lo facciamo noi chi deve farlo?» di alzare la voce, documentare e battersi contro chi inquina i terreni e le falde acquifere con rifiuti tossici di ogni tipo, chi prospera sulla schiavitù sessuale o vendendo ad ogni angolo droghe sempre più pericolose. Che distruggono le persone e le famiglie, dietro cui si nasconde l’annientamento umano e drammi familiari che arrivano anche alle violenze più atroci. «Se non lo facciamo noi chi deve farlo?» a dire no al clientelismo, ad una politica piegata dal malaffare e dalla corruzione, dalla corsa ad affermarsi costi quel che costi e a consolidare poteri con appalti truccati e comitati d’affari.

L’Associazione DaSud ha dedicato a Giuseppe Valarioti una mediateca a Roma per «scavare nella memoria, indagare con consapevolezza nel presente, ragionare sul futuro». In questi giorni sulla loro pagina facebook l’Associazione sta portando avanti una catena della memoria ricordando la vita e l’impegno di Peppe Valarioti, le vicende giudiziarie che non hanno mai portato a rendergli giustizia e gli anni della sua militanza politica. In questi giorni è tornato in libreria, dieci anni dopo la prima stampa, il libro Il caso Valarioti scritto da Danilo Chirico e Alessio Magro.

Non un mero ricordo ma per far camminare sulle nostre gambe le sue idee e la sua militanza, la sua lotta contro la ‘ndrangheta e per un futuro migliore, più giusto, libero e solidale. Perché «se non lo facciamo noi chi deve farlo?».