«Si darà molto più potere al Governo espropriando la funzione legislativa da parte del Parlamento»

SPECIALE REFERENDUM. LE RAGIONI DEL NO. Intervista al Deputato Andrea Colletti (M5S).

«Si darà molto più potere al Governo espropriando la funzione legislativa da parte del Parlamento»
Andrea Colletti, fonte: pagina facebook

Il referendum sulla riforma parlamentare che riduce il numero dei deputati e senatori, rinviato a causa dell'emergenza sanitaria, si svolgerà domenica 20 e lunedì 21 settembre. Il taglio dei parlamentari e i «costi della politica» sono un tema che infiamma e appassiona il dibattito pubblico da diversi anni, creando anche caos e confusione. Per cercare di fare chiarezza su alcuni punti fermi e sul merito della situazione, in vista della consultazione elettorale, Wordnews ha contattato i promotori delle due posizioni: in quest’articolo pubblichiamo l’intervista al Deputato del Movimento 5 Stelle Andrea Colletti, convinto sostenitore del no al referendum.

Il dibattito si è molto focalizzato sulla questione del risparmio, in quanto può essere quantificato? Può essere ottenuto con altre strade?

«Sulla "vexata quaestio" del risparmio, che in realtà non è dei cittadini perché, secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici (che fa capo all’Università Cattolica di Milano e a Cottarelli) sarà intorno ai 57/70 milioni di euro all’anno, un risparmio molto simile a quello prefigurato con la riforma Renzi bocciata dal referendum costituzionale del 2016. Se il punto nevralgico è il risparmio, cosa che per quanto mi riguarda non è, non serve modificare la Costituzione ma i privilegi e gli stipendi dei parlamentari, dei consiglieri regionali e per esempio dei sindaci delle più grandi città che spesso arrivano a guadagnare anche 9.000 euro lorde al mese. Andando a toccare quei privilegi, che sono una minima parte rispetto per esempio alla burocrazia ministeriale, avremmo potuto avere un risparmio molto superiore. Quando si fa riferimento a 57 milioni di euro è necessario rendersi conto della cifra calata nel bilancio dello Stato: per esempio col decreto Agosto sono stati stanziati per gli editori 30 milioni di euro in più per il 2020, con un solo articolo di un decreto abbiamo coperto più della metà del risparmio previsto da questa modifica costituzionale».     

Lei è tra coloro  che sostengono che il taglio dei parlamentari non è un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle: quello sarebbe il taglio di stipendi e privilegi, in quanto non sarebbe presente nei programmi depositati al Ministero dell’Interno nel 2013 e 2018. Altri invece, hanno trovato un riferimento a questi tagli nel programma votato dagli attivisti su Rousseau prima delle ultime elezioni politiche. Può chiarirci questo aspetto?

«Su questo punto c’è stata una diatriba con Marco Travaglio de Il Fatto Quotidiano, che sta portando avanti una battaglia a più non posso per il si al referendum, a cui avevo inviato il link a vari programmi del Movimento 5 Stelle e dei due V-Day. È vero che nel programma del 2013 non si fa minimamente menzione del taglio dei parlamentari ma si propose di eliminare i privilegi dei parlamentari, è vero che nel 2018 si fa menzione solo di taglio di stipendi e privilegi. Il taglio dei parlamentari era presente in una votazione su Rousseau in cui gli attivisti certificati dovevano mettere in fila le priorità su determinati aspetti, scelti precedentemente e quindi gli attivisti non potevano scegliere se fare o no, e scelsero su 10 opzioni. Non era specificato quale taglio, questo è fondamentale, che arrivò settimo su dieci. Questo fa comprendere quanto fosse lontano dalla volontà degli attivisti certificati su Roausseau. Ebbe cinque volte il numero dei voti, invece, il taglio degli stipendi e delle indennità. Questa è la dimostrazione davanti a chi propaganda il taglio dei parlamentari come battaglia storica del movimento e io, dopo tredici anni, ne so abbastanza».

Lei ha dichiarato nelle scorse settimane di non essere l’unico parlamentare del Movimento 5 Stelle schierato con il no, ma che altri preferiscono non esporsi. Perché? E questo fronte 5 Stelle del no al taglio quanti deputati e quanti senatori coinvolge?

«Preferisco espormi perché mi espongo sempre sulle cose in cui credo, penso sia una questione fondamentale per ogni parlamentare ed ogni politico esporsi sulle battaglie in cui si crede e anche in quelle in cui non si crede e si cerca di avversare. La questione del perché altri non si espongono è comune un po’ a tutti i partiti: la motivazione per cui non si va contro il proprio partito è la speranza di ricandidature, trovare un posto in prima fila le prossime volte, è storia partitica negli anni, non dimentichiamoci che all’epoca la maggioranza parlamentare votò che Ruby era la nipote di Mubarak. All’interno del gruppo parlamentare, io non ho parlato con tutti i parlamentari ovviamente, ma so benissimo che almeno un 20/30% la pensa come me. In un certo senso mi faccio latore anche degli altri che non vogliono esprimersi pubblicamente».  

Una delle critiche alla riforma è la possibile riduzione della rappresentatività, con alcune regioni che rischierebbero di essere sotto rappresentate anche rispetto ad altre (si fa spesso riferimento al confronto tra Trentino e Abruzzo con la prima che avrebbe più rappresentanti nonostante una popolazione minore) e il dovere di ogni parlamentare di essere presente in più commissioni contemporaneamente. Cosa succederà, anche alla luce della sua esperienza parlamentare, se vincerà il Sì?

«Da un lato si fa riferimento al diritto alla rappresentanza a livello nazionale, appare ovvio che questa rappresentatività verrà notevolmente abbassata con il taglio di un terzo dei parlamentari. Avremmo potuto volendo ridurre di un terzo i parlamentari senza intaccare la rappresentatività, per esempio, andando verso il monocameralismo. Tagliando il Senato la Camera dei Deputati avrebbe mantenuto la stessa rappresentatività dei cittadini. La questione della sovra rappresentazione di alcune regioni rispetto ad altre è ancora più interessante. Nella prima bozza della proposta di legge non c’era ed è stata inserita solo in un successivo passaggio parlamentare, a favore di una regione a statuto speciale quale il Trentino Alto Adige (e quindi assomma notevoli privilegi rispetto ad altre regioni) che avrà un senatore ogni 170.000 abitanti rispetto ad altre regioni come l’Abruzzo, la Sardegna, la Liguria, la Calabria o le Marche avranno un senatore ogni 330mila/340mila abitanti. Quindi un cittadino abruzzese come me varrà la metà di un cittadino del Trentino Alto Adige».

Come è nata questa questione? Perché è stata inserita?

«Secondo me all’epoca del passaggio parlamentare la SVP, al fine di realizzare un accordo sulla Provincia di Bolzano con la Lega, aveva obbligato l’allora maggioranza di governo Lega-5 Stelle ad inserire l’emendamento che prevede che ogni provincia autonoma deve essere rappresentata almeno da tre senatori. Il Trentino Alto Adige quindi ne avrà sei mentre l’Abruzzo ne avrà quattro. Questo fa capire quanto adesso che non è sovra rappresentato la SVP già ha un grande peso al Senato, figuriamoci dopo con la sovra rappresentazione. È storia recentissima l’emendamento, che era passato in commissione, al decreto semplificazioni per il quale si poteva lavorare in un ospedale del Trentino Alto Adige anche conoscendo solo il tedesco. Emendamento, grazie a Dio, che è stato cassato dalla presidente del Senato Casellati immagino perché palesemente incostituzionale. Si rischia quindi di dare molto più potere ad una regione già a statuto speciale e toglierlo soprattutto alle regioni del centro sud».

Con rispetto al rischio di inefficienza delle commissioni parlamentari a cui fanno riferimento alcuni?

«L’obiettivo che mi sembra si celi dietro questa modifica costituzionale, che non è una riforma in quanto avrebbe avuto bisogno di un passaggio e un volume molto superiori, è che le commissioni non potranno lavorare abbastanza in quanto non avranno i numeri per esempio per modificare i decreti governativi. Già adesso le commissioni al Senato fanno molta fatica a portare avanti modifiche legislative, fanno quasi esclusivamente da passacarte del Governo. Con il taglio non avranno minimamente il tempo di ragionare su proposte di legge, emendamenti o sui decreti legge proposti dal Governo. Si darà quindi molto più potere al Governo espropriando la funzione legislativa da parte del Parlamento».   

Il taglio viene legato alla legge elettorale che, sottolineiamo, non è una legge di rango costituzionale. I due piani sono realmente così strettamente correlati? Quale proposta andrebbe portata avanti a suo giudizio?

«La modifica costituzionale ovviamente non c’entra nulla con la legge elettorale ed infatti una nuova legge elettorale già l’abbiamo: durante questa legislatura è già stata votata una nuova legge elettorale. Durante la discussione sulla modifica costituzionale abbiamo votato anche la modifica del Rosatellum, durante il governo Lega-Movimento 5 Stelle. Teoricamente il giorno dopo il referendum, nel caso dovesse vincere il si, potremmo andare tranquillamente a nuove elezioni. La posizione del legare i due piani viene soprattutto dal PD e fa capire la pochezza di argomenti, da un punto di vista giuridico, perché se si voleva proporre un vero dibattito sulla legge costituzionale andava posto sulla costituzionalizzazione di un principio della legge elettorale: personalmente sono favorevole da sempre al proporzionale, perché ritengo che anche le minoranze devono essere rappresentate, e si poteva costituzionalizzare il principio proporzionalistico o il principio delle preferenze. Tutto questo non è avvenuto e che non sia stata votata una legge elettorale, neanche in un primo passaggio, dimostra che non c’è nessun interesse su questa modifica. E ci scommetto che le preferenze non verranno inserite nella prossima legge elettorale».  

Vengono delineati vari scenari, legandoli anche alle sorti delle regioni al voto dove alcune proiezioni e sondaggi portano a pensare che il PD potrebbe perdere alcune regioni (Marche, Toscana e Puglia per esempio), per le sorti del governo e della legislatura. Secondo lei quali di questi sono verosimili e cosa potrebbe accadere realmente?

«Collegare scenari regionali e nazionali da un punto di vista politico è sempre scorretto di per sé, mi riferisco ad un punto di vista di scienze politiche, in quanto sono elezioni diverse. Movimento 5 Stelle e PD vanno, tra l’altro, separatamente quindi se si volesse fare una valutazione dovremmo sommare le loro preferenze e non vedere chi saranno i prossimi presidenti regionali. Sono tra coloro convinti che in una regione come la Puglia un accordo sarebbe stato deleterio: Emiliano negli ultimi cinque anni si è portato dietro moltissimi elementi provenienti dalla destra che ora sono tornati all’ovile. Legherei piuttosto alla debolezza intrinseca dei partiti della maggioranza. Da una parte abbiamo un PD con evidenti problemi di leadership e di segreteria con Zingaretti sempre molto instabile, dall’altra un Movimento 5 Stelle uscito dalle elezioni politiche del 2018 con il 32% e ha avuto purtroppo una débacle continua nelle varie elezioni europee e locali. In più Renzi controlla una pattuglia di parlamentari che dopo il ritorno alle urne non controllerebbe più in quanto avrebbe, come si suol dire, percentuali da prefisso telefonico. È quasi una sorta di sommatoria di debolezze».