Strage via D'Amelio, parla Ingroia: «Borsellino è stato ucciso perché ostacolo insormontabile alla trattativa Stato-mafia»

L'INTERVISTA. Il ricordo di Paolo Borsellino e le riflessioni di Antonio Ingroia: dopo quasi trent’anni «la verità completa purtroppo non è arrivata, come comunità nazionale non l’abbiamo conquistata, non è stato fatto abbastanza come Paese»

Strage via D'Amelio, parla Ingroia: «Borsellino è stato ucciso perché ostacolo insormontabile alla trattativa Stato-mafia»
Paolo Borsellino e Antonio Ingroia all'uscita del P.S. dell'Ospedale dopo aver visto Falcone, 23 maggio 1992. (profilo fb Antonio Ingroia)

Antonio Ingroia è stato giovanissimo sostituto procuratore a Marsala e poi a Palermo, condividendo con Paolo Borsellino le sue prime grandi inchieste contro mafie e corruzioni. Anni in cui è nato un fortissimo professionale e di amicizia: con il giudice condivise il dolore e le terribili ore successive alla strage di Capaci.

Dopo esser stato costretto a lasciare la toga, oggi prosegue il suo impegno per la verità e la giustizia – sulle stragi del 1992 e le troppe zone grigie e squallide di questo Paese – come avvocato e presidente del movimento politico Azione Civile.

«Ogni anniversario si ravvivano ricordi sempre presenti nella memoria e si riapre una ferita mai rimarginata – è la sua prima riflessione - la ferita della verità mancata, ancora oggi mentre ci avviciniamo ai 30 anni dalla strage di via D’Amelio la verità completa purtroppo non è arrivata, come comunità nazionale non l’abbiamo conquistata, non è stato fatto abbastanza come Paese. Una conquista che sarebbe il minimo etico e morale nei confronti di Borsellino che si è sempre battuto per la verità e in nome della verità è caduto. Questa è la prima considerazione, che purtroppo si ripete quasi uguale a se stesse in ogni anniversario con l’eccezione di alcuni anniversari in cui abbiamo, e ho anche per lo speciale rapporto che mi lega a Paolo Borsellino, nutrito speranze che fossimo veramente ad un passo dalla verità compiuta».

«Certamente – aggiunge - non siamo al buio e al punto di partenza perché alcuni passi in avanti ci sono stati, tra mille depistaggi e deviazioni spesso di fonte istituzionale che ci hanno confermato che il motivo per cui è così difficile scoprire la verità sulla strage è legata alla matrice della strage. Possiamo ormai affermare che è stata una strage di Stato, nei primi anni l’abbiamo definita una strage di mafia e forse non solo mafia, poi mafia e altro e oggi possiamo dire soprattutto strage di Stato e anche di mafia».

Lei ha condiviso con Paolo Borsellino i primi anni della sua carriera, quando fu lui a comunicarle l’arrivo di una lettera minatoria contro entrambi. Quali i ricordi più significativi di quegli anni e quali gli insegnamenti più importanti?

«L’anniversario è anche occasione di ricordo dell’uomo, del magistrato e della lezione spesso dimenticata che ci ha lasciato. E in questo probabilmente, l’aver dimenticato la sua lezione, sta la ragione per cui non è stata conquistata la verità. Una lezione che è stata sentita da pochi tra gli uomini delle istituzioni e i cittadini: se l’avessero seguita in tanti oggi avremmo la verità completa sulla strage. Per non essere condannati a continuare a vivere altri anniversari con gli stessi rimpianti ed amarezze proviamo ad evidenziare alcuni dei punti più significativi della sua lezione e del suo modello, con la speranza e l’augurio che possa avere maggiore seguito in futuro così da creare anche le condizioni perché la verità venga conquistata.

La prima virtù civica, prima ancora che istituzionale, di Paolo Borsellino è la sua generosità nel senso più ampio civico e istituzionale. Uno degli episodi, che nella mia esperienza istituzionale illumina e illustra questa sua virtù, è legata alla mia sicurezza e l’assegnazione per la prima volta di una scorta nel 1990 dopo l’arrivo di una lettera anonima. Da poco più di un anno avevo assunto le funzioni di sostituto procuratore a Marsala quando lui era procuratore capo: mi assegnò subito un’indagine complessa e delicata di mafia e corruzione che coinvolgeva vari pubblici amministratori della provincia di Trapani, in particolare dell’isola di Pantelleria e dell’allora nuovo porto turistico che vi si doveva realizzare. Un’indagine che portò all’arresto del sindaco e del segretario comunale dell’epoca e di consulenti universitari e altri e che fece molto scalpore. In quell'occasione arrivò una lettera anonima di minacce accompagnata da alcuni proiettili destinata a Paolo Borsellino e a me».

La "prima scorta" per lei. La reazione di Borsellino fa riflettere e ci riporta molto della sua straordinarietà.

«Quando Paolo Borsellino mi comunicò l’arrivo di questa lettera, da un lato lo fece con il rammarico che avrebbe comportato un cambio totale delle mie abitudini di vita: per la prima volta mi vennero assegnate una scorta ed un auto blindata, dicendo che mi era capitato molto in fretta (avevo 31 anni) mentre lui aveva avuto almeno la fortuna di arrivare quasi a quarant’anni. Dall’altro lato mi disse di essere molto arrabbiato, anzi "incazzato".

Sul momento non capii cosa volesse dire, gli chiesi se era incazzato con chi ci aveva minacciato e lui invece mi rispose di essere incazzato con se stesso perché sentiva di non essere stato un buon capo. Un buon capo, aggiunse, è in grado di fare da scudo protettivo nei confronti dei suoi collaboratori, avrebbero quindi dovuto minacciare solo me, avevano minacciato anche me e quindi disse che si sentiva di non esserlo stato.

È un episodio significativo del pensiero di Paolo Borsellino se lo confrontiamo con l’interpretazione del ruolo del capoufficio di altri procuratori capo dei tempi più recenti, che non brillano per coraggio e spirito di protezione nei confronti dei sostituti più esposti. Mandati spesso allo sbaraglio e al macello, pronti a prendere le distanze dai sostituti più intraprendenti che osano portare avanti indagini «politicamente scorrette». Questo confronto fa capire la netta differenza tra il modello di magistrato incarnato da Paolo Borsellino e il modello oggi, purtroppo, vincente secondo i canoni di Palamara and company e della maggior parte, mi dispiace doverlo affermare, dei capi degli uffici giudiziari di oggi».

Il modello di magistratura coraggiosa e indipendente che Borsellino portava avanti quotidianamente è ben diverso da tanti che esistono, anche ai nostri giorni.

«La seconda virtù di Paolo Borsellino è l’intransigenza. Mi piace sempre ricordare cosa accadde nel mio periodo di formazione a Marsala quando mi trovai ad occuparmi di un’indagine molto delicata che riguardava un politico all’epoca di rilievo nazionale e deputato, Enzo Leone, che incriminai per voto di scambio con implicazioni politico-mafiose e di corruzione. All’epoca il reato di voto di scambio era punito con una pena molto bassa, non c’era ancora il reato specifico e se non ricordo male il processo finì in prescrizione.

All’epoca non era ancora scoppiata «Mani Pulite» e quindi indagare un uomo politico per compravendita di voti era abbastanza raro, ricordo che la notizia fu pubblicata anche dai giornali nazionali. Mi disse testualmente «non hai neanche idea perché non hai mai avuto indagini di questo genere, di cosa si scatenerà contro di me e contro di te, che sei il sostituto e contro di me che sono il tuo capo. Ti sosterrò ma io sono uno solo e dovremo andare avanti comunque, la legge è uguale per tutti, mi tremano le vene dei polsi all’idea delle polemiche che ci saranno ma il nostro dovere è andare avanti».

Polemiche che effettivamente ci furono. Anche questo in una magistratura che, le intercettazioni e le chat di Palamara lo dimostrano, spesso ha finito per confondere ciò che la legge prevede ed obbliga e ciò che viene ritenuto opportuno o meno rispetto alla carriera del singolo magistrato perché procedere o non procedere nei confronti di un politico ha dei ritorni sulla sua carriera grazie ad un Consiglio Superiore della Magistratura ampiamente condizionato dalla politica, ci permette di vedere l’abisso tra il modello di magistratura di Paolo Borsellino e quello che è prevalso. Sempre, va doverosamente sottolineato, con le dovute eccezioni e senza eccessive generalizzazioni.

La terza virtù di Paolo Borsellino è collegata non solo alla sua intransigenza etica, civica e morale – che probabilmente è stata la causa della sua morte se è vero, come io sono convinto che è vero, che Paolo Borsellino è stato ucciso perché ostacolo insormontabile alla trattativa Stato-mafia – è la sua tenacia e coerenza nell’impegno per la ricerca della verità e della giustizia. Virtù che si è mostrata lampante nei giorni dopo la strage di Capaci, in cui lui non perse soltanto il migliore collega ma soprattutto il suo più grande amico, sin dai tempi dell’infanzia».

Lei ha condiviso con Borsellino le ore e le settimane successive alla strage di Capaci.

«Il 23 maggio 1992 stavo tornando da Roma, dove ero stato per un interrogatorio, con un volo di linea e sostanzialmente sono passato sopra il tritolo che un paio d’ore dopo fece saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta in quanto quella è una strada obbligata per arrivare a Palermo dall’aeroporto. Ero in auto e non ero ancora rientrato in casa quando si seppe la notizia per radio dell’attentato, poco dopo si seppe che purtroppo Giovanni Falcone era morto.

In un primo momento stavo per dirigermi verso il luogo dell’attentato, poi mi diressi verso il Pronto Soccorso. Quando arrivai trovai Paolo Borsellino fuori dall’obitorio, appoggiato con le spalle al muro a capo chino quasi piegato in due dal dolore. Era chiuso in se stesso, un uomo quasi irriconoscibile.

Da quando l’ho conosciuto era sempre molto gioviale, allegro, solare, incline al sorriso e alle battute e persino alle barzellette in dialetto siciliano. Dopo quel giorno, il Borsellino che incontrai, pur piegato dal dolore, dimostrò una forza d’animo, una tale tenacia e forza interiore mossa dalla sete di verità e giustizia che fu l’elemento trainante nostro per riprendere, senza mai abbandonarsi, al dolore e alla disperazione dopo che era stato ucciso il punto di riferimento di tutti.

Paolo Borsellino assunse questo ruolo, dimostrando un’altra sua virtù che potrei persino definire ostinazione nella ricerca della verità e della giustizia anche nel momento del massimo dolore per la morte di un carissimo amico e in quel modo. Falcone morì tra le braccia di Paolo Borsellino».

Quando incontrò Borsellino l’ultima volta? E qual è il suo ricordo delle ore della strage di via D’Amelio?

«Il mio ultimo incontro con Paolo Borsellino avvenne nel giorno della festività di Santa Rosalia. Avevo deciso di prendermi alcuni giorni per il ponte, fino a domenica 19 luglio. Non potevo prendermi questi giorni di riposo se prima non lo salutavo e prendevo accordi per il rientro. Andai in Procura nel pomeriggio, gli uffici erano tutti deserti e si vedeva solo la luce della stanza di Paolo Borsellino.

Ci congedammo con un abbraccio e lui, anche con un atteggiamento molto paterno, mi incoraggiò dicendomi che ogni tanto faceva bene «ricaricare le pile» e che ci saremmo visti il lunedì perché aveva grandi progetti per noi due. C’era un pentito, di cui non sapevo ancora nulla, che dovevamo interrogare, mi disse che non aveva intenzione di andare in ferie ad Agosto e che quindi dovevo prepararmi.

Questo nuovo pentito l’avremmo dovuto interrogare in Procura e sarebbe stato ancora più facile ad agosto mantenere il riserbo. Il pentito era Leonardo Messina, colui che dopo le stragi raccontò le tante vicende sulla strategia eversiva del 1991/1992 (rivolto originariamente ai separatisti da Cosa nostra) e le successive evoluzioni su cui poi è nato il processo «Sistemi criminali» e successivamente il processo sulla trattativa e «’ndrangheta stragista», in cui Giuseppe Lombardo ha concluso in questi giorni la requisitoria.

Riprendendo queste stesse dichiarazioni che aveva cominciato a raccogliere in un primo interrogatorio Paolo Borsellino e che poi avrebbe dovuto sviluppare insieme a me. E io ho ripreso nell’indagine «Sistemi criminali» che è un po’ la madre delle indagini successive su questi terreni fino alla trattativa e di cui l’attuale processo a Reggio Calabria è una sorta di prosecuzione.

La domenica venni informato da un poliziotto della mia scorta che c’era stato l’attentato, mi trovavo nei pressi di una caserma dei carabinieri ed entrai per avere notizie: dalle edizioni straordinarie dei telegiornali vedemmo le immagini. Rientrai precipitosamente a sirene spiegate a Palermo.

Vidi il cadavere di Giovanni Falcone all’obitorio e mi colpì l’espressione apparentemente serena percependo persino un sorriso disegnato sul suo volto. Non ho visto invece il cadavere di Paolo Borsellino, un ufficiale dei carabinieri mi disse «Dottore forse è meglio che lei non lo veda, tenga il ricordo di come l’ha visto l’ultima volta».

Al contrario di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino non era dentro l’auto quando fu ucciso poichè l’autobomba lo prese in pieno e lo fece letteralmente a pezzi.

Chi ha visto il cadavere di Borsellino lo ha visto in condizioni tali, che ringrazio ancora quel capitano dei carabinieri che mi fermò. Mi è rimasta come ultima visione e ricordo di Borsellino il nostro ultimo incontro in Procura».

© Riproduzione vietata