Un altro naufragio: insieme alla barca naufragano sogni, speranze, attese...

Altri sogni infranti. Altre speranze disattese. Altri miraggi sbarrati per gli almeno 50 migranti dispersi – afgani, iracheni e iraniani – a seguito del naufragio di un’imbarcazione partita dalle coste turche e diretta verso l’Italia. Quei sogni, quelle speranze, quei miraggi sono naufragati, insieme alla barca, al largo dell’isola greca di Karpathos, nel Mar Egeo sudorientale, durante la notte. Una notte che, con il suo buio più tetro, ha rappresentato scoramento, smarrimento, perdita di orizzonti per i tanti uomini e donne che avevano nutrito fiducia in un possibile cambiamento, nell’attesa di un futuro migliore per se stessi e ancor più – forse – per i propri figli, lontano dalla miseria, dalla fame, dalla guerra dei posti che, pur mestamente e nostalgicamente, si accingevano ad abbandonare.
Ciò che rappresentava “La Merica” per i nostri avi diventa faro per tutti i migranti, i richiedenti asilo, i rifugiati che lambiscono le coste del Mare Nostrum.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
Così scrive Dante ai vv. 58-60 del XVII canto del Paradiso, il terzo del trittico dedicato al trisavolo Cacciaguida. Inizia la spiegazione della profezia sull’esilio del poeta, che dovrà lasciare Firenze per colpa della Curia papale romana. Dante dovrà abbandonare ogni cosa più amata e ciò costituisce la prima pena dell’esilio, quindi proverà come sia doloroso accettare il pane altrui, come sia gravoso mettersi al servizio di vari signori.
In questa terzina di grande intensità viene descritta l’angoscia di ogni esule, di chi è costretto a lasciare la propria patria e le cose più care, per andare a cercar fortuna in luoghi sconosciuti, trovando la compagnia di gente straniera, diffidente e ostile.
Siamo assuefatti ormai alle notizie degli sbarchi di migranti sulle nostre coste, alle morti che a volte accompagnano le traversate di mari che non conoscono alcuna pietà, alla condizione disumana dei campi profughi.
Con superficialità ascoltiamo la TV senza esserne nemmeno turbati, anzi a volte infastiditi, da questo “ulteriore” problema tra i tanti che accompagnano le nostre giornate. Morti e dispersi sono ridotti, per la cronaca, alla stregua di numeri, e i numeri, si sa, sono freddi, non danno emozioni, non inducono pietà.
Ma ci domandiamo cosa ci sia nel loro cuore? Quali angosce? Quali aspettative? Quali desideri?
Non dimentichiamo, appunto, che fino a qualche generazione fa eravamo noi nella loro condizione. Pensiamo ai bastimenti che partivano carichi di nostri parenti, diretti verso paesi lontanissimi per l’epoca. E ancor prima la grande ondata migratoria di fine Ottocento – inizi Novecento.
Viaggi che duravano settimane e mesi, verso terre di speranza, come Stati Uniti, Sudamerica, Australia, in cui la possibilità di un viaggio di ritorno era remota e quei saluti potevano essere gli ultimi tra persone che potevano non incontrarsi mai più.
Ancora oggi molti dei nostri giovani, anche se in condizioni diverse, laureati e con qualifiche professionali, sono costretti per mancanza di lavoro in patria a “provare come sa di sale lo pane altrui...”. Lasciano la loro terra, certamente non sui barconi della disperazione, ma in aereo, verso mete di un mondo globalizzato: ma, “globalizzazione” è un termine solo economico, che non vale per il cuore.
Chi parte per “scendere e ‘l salir per l’altrui scale” prova nell’animo gli stessi sentimenti e lo stesso dolore che ha provato Dante nel suo esilio e che ogni essere umano prova, quando è costretto a lasciare le proprie radici.
Il messaggio del Sommo Poeta, in questo senso, è universale e vale in ogni tempo, perché tutto cambia, tutto si evolve, ma l’uomo è e rimarrà sempre un essere che avrà bisogno di amicizia, di amore, del calore dei propri cari, dei profumi della propria terra. Nessuna globalità lo renderà insensibile a quelle emozioni che hanno accompagnato la nostra storia e che ci rendono quelli che siamo e saremo sempre.