Un anno senza Carletto Mazzone, simbolo del calcio sportivo cancellato da business, potentati e intrighi

Allenatore simbolo di un’epoca che non c’è più, del calcio romantico e verace, morto nelle stesse ore in cui ripartiva la Serie del business, di potentati e intrighi (chi ricorda più l'inchiesta sul calcioscommesse o le inchieste sulle plusvalenze e quel che fu definito il sistema Juventus o le manovre stipendi con cui si distorsero bilanci mentre migliaia di italiani morivano ogni giorno nel peggior dramma mondiale degli ultimi cento anni?)

Un anno senza Carletto Mazzone, simbolo del calcio sportivo cancellato da business, potentati e intrighi

Un anno fa, in un afoso pomeriggio di agosto, la notizia piombò su un’Italia pronta ad un nuovo giro di giostra pallonaro: la morte di Carlo Mazzone, l’addio allo storico allenatore di Serie A simbolo di un’epoca e un mondo cancellati dai moderni business, potentati e intrighi delle classi dominanti calcistiche.

Carletto, come era soprannominato con affetto e stima, era ormai da diversi anni fuori dal giro del gotha del calcio. Un calcio ormai sempre più lontano ed estraneo da un uomo verace e straordinario, interprete di un calcio romantico e appassionato. 

Mazzone del gotha del calcio probabilmente non è mai stato veramente componente. Per le generazioni che l’hanno conosciuto, nelle tante esperienze in panchina, basta nominare Carlo Mazzone perché si illuminino gli occhi e s’infiammi i cuori. Come non ricordare la sua corsa verso la curva avversaria mentre i suoi collaboratori, persone che potevano essere suoi figli se non nipoti, non riuscivano a stargli dietro.

L’anagrafe diceva il contrario ma il più giovane era lui, giovane nell’animo e nel cuore. Sempre verace e senza fronzoli, diretto, nelle sue dichiarazioni e nel suo esprimersi. Calcio come sudore e passione, sport e animo.

Oggi pare impossibile ma ci sono state generazioni calcistiche in cui non dominavano il business e gli artifizi contabili, le trame e gli interessi politico-economici. Generazioni che i più giovani chissà se hanno sentito anche solo nominare, allenatori entrati nella leggenda e che hanno scritto pagine memorabili. Carletto Mazzone non era per palmares tra i vincenti di quelle generazioni.

Ma lo è stato per qualcosa di più importante e forte, il calcio che era calcio, lo sport che era passione. Apparentemente burbero e dal cuore grande come pochi, romantico come solo i più grandi sanno essere. Un allenatore entrato nel cuore di milioni di persone, capace di diventare una figura familiare a cui esprimere tanto affetto.

Carletto Mazzone ci ha lasciati a poche ore dal fischio d’inizio del nuovo campionato di serie A. E vedendo quanto sia sempre più desolata la landa del calcio odierno, riprendendo l’espressione di un altro grande che non c’è più, il giornalista Oliviero Beha, appare un segno del destino. 

Un anno dopo il primo anniversario della morte di Carletto Mazzone è caduto nelle ore in cui la Serie A ha riaperto il circo. Ma il gotha sembra averlo dimenticato, rimosso, segno dei tempi nella landa desolata.

Definizione che Oliviero Beha, fatalità ha voluto pochi giorni prima della sua morte e ultima occasione in cui si espresse pubblicamente, utilizzò sette anni fa ma è ancora l’immagine che più sembra descrivere l’attuale situazione del mondo di Eupalla sotto un cielo sempre meno azzurro. Non lo appare più come tre estati fa, quella magica dell’Europeo vinto e di una Nazionale che stava facendo innamorare di nuovo gli italiani.

Ma come i sogni muoiono all’alba così quell’illusione è svanita repentina nella seconda qualificazione ai Campionati Mondiali fallita, in un Europeo dall’epilogo clamoroso per i campioni in carica. Tutto senza nessuna assunzione di responsabilità, senza nessuna riflessione vera collettiva, senza che il gotha si sia fermato un solo momento a riflettere su come lo sport è ormai sideralmente lontano dal loro calcio e sui loro sistemi di business e potere.

La «landa desolata» descritta da Beha era quella di un calcio che, undici anni dopo, non aveva ancora superato le scorie e gli effetti di Calciopoli, il grande scandalo che contese nella calda estate 2006 l’attenzione sportiva con il trionfo della Nazionale di Lippi. Di quel trionfo nulla era rimasto, sogno ormai lontano di una mezza estate. Mentre intrighi e trame, affari e manovre di Moggi e compagnia danzante continuavano a pesare sul calcio italiano.

Sette anni dopo lo sport è ancora poco più di un orpello e il campionato che sta iniziando arriva, ancora una volta, dopo una stagione segnata da processi sportivi e da situazioni tutt’altro che edificanti e sportive.

Una parentesi chiusa a livello giudiziario sportivo, almeno per quanto riguarda la principale protagonista ovvero la Juventus già al centro di Calciopoli, con l’ultimo patteggiamento in Italia e una sentenza europea che è poco più di un altro patteggiamento.

Ma resta l’ombra del coinvolgimento di altre società – parte di quello che è stato definito il “sistema Juventus” – con i possibili futuri strascichi e, soprattutto, interrogativi pesanti come macigni su quanto sia desolata la landa del mondo di Eupalla tricolore. Finanza, bilanci, artifici contabili, giocatori che affermano di rinunciare a stipendi ed invece gli verranno corrisposti dopo qualche mese – giusto il tempo di chiudere un bilancio – nei mesi più drammatici della storia italiana e mondiale da decenni.

Al di là di quanto stabilito nei tribunali sportivi questo è il fulcro di tutto, che andrebbe valutato e su cui si dovrebbe riflettere a livello sportivo ed etico: giovani calciatori (il futuro del nostro calcio, quel futuro che da decenni si invoca ma mai si punta realmente a costruirlo) considerati come voci di bilancio da adattare alle esigenze finanziarie e annunci di manovre rivelatesi diverse annunciati agli italiani mentre ogni giorno si piangevano migliaia e migliaia di morti.

All’alba dello scorso campionato piombò l’ennesimo scandalo calcioscommesse sulla Serie A, una bufera pronta a travolgere il circo pallonaro ed invece silenziata e imbrigliata in poche settimane. Con, ancora una volta, ennesima in pochi mesi, condanne che non sono neanche lontane parenti di una giustizia sportiva che si possa definire tale.

È calcio questo? È sport? E torna qui ancora una volta il grande Beha che dopo Calciopoli avvertì sul gattopardismo e l’incapacità di ogni seria riflessione su come stava procedendo la massima espressione del calcio italico. Diciotto anni dopo nulla pare cambiato. 

 

 

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