Una discarica sociale criminogena e classista

SECONDA PARTE/Antonella La Morgia (Voci di Dentro): il carcere è gabbia e discarica di coloro che la società scarta.

Una discarica sociale criminogena e classista
Detenuti, carcere dell’Ucciardone Palermo 1983 (ph Letizia Battaglia)

L’Italia è il paese della memoria dei pesci rossi e delle retoriche interessate, delle belle parole per ogni occasione e delle cerimonie di pavoni e pavoncini. Un marziano che scendesse sull’Italia e vedesse tutte le cerimonie e i proclami penserebbe di essere sbarcato in un paradiso, che la vecchia utopia rivoluzionaria che un giorno tutti gli uomini saranno di buon cuore e non ci sarà più bisogno di leggi sia realizzata.

La realtà reale, la verità vera, hanno la testa dura e alla fine emergono sempre. Si possono nascondere dietro cappe di propagande, frasi trite e ritrite, ma là restano e gridano.

L’Italia è il Paese degli eroi, questa bella parola con cui ci si gasa a chiacchiere e poi si rimane inerti (sono eroi, io sono medioman, k puzz fa?), e della Costituzione più bella del mondo, di quella Carta Costituzionale dai principi così importanti che tutti l’amiamo. A chiacchiere.

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Poi la realtà ci sbatte sul muso nella sua efferata violenza e ogni velo del tempio viene squarciato. Oltre settant’anni fa i padri e le madri costituenti sancirono una rotta ben precisa per il rispetto della legalità e del patto sociale.

Quel patto da sempre stiracchiato e strumentalizzato a seconda delle scuderie del momento. In mezzo, schiacciati, sempre e soltanto coloro che non hanno santi in paradiso, grandi organi di stampa benevoli e asserviti e pregiudizi e luoghi comuni à la carte. I reietti, gli emarginati, i senza voce, esistono anche nel XXI secolo. Coloro che la brava borghesia butterebbe al rogo se potesse. Per poi inginocchiarsi se compaiono colletti bianchi, ventiquattrore, paccate di potere e soldi.

Non hanno voce le 700 persone che la notte di San Silvestro sono state nuovamente rinchiuse in carcere, non hanno santi in paradiso e delle condizioni di persone come loro interessa meno di zero alla brava gente, alla vox populi, al materasso di piume della società.

Se non quando devono accendere roghi, gridare di buttare chiavi e di autoassolversi e risciacquarsi la coscienza. Quelle settecento persone erano state scarcerate per l’emergenza covid e il sovraffollamento degli istituti penitenziari italici. Nel paese in cui “buttate la chiave”, “in galera non ci va nessuno” e “ce ne sono pochi in carcere” si soffre un sovraffollamento e una inadeguatezza delle strutture drammatica. E non è certo colpa, nel disinteresse mediatico e sociale, di chi non va voce. Ma di coloro che ne hanno fin troppe e quotidianamente, negli osanna delle folle sempre pronti ad accucciarsi ai potenti e accanirsi vigliaccamente sui più deboli, scaricano tutto su chi non può difendersi, su chi voce non ne avrà mai ed è inerme ed indifeso di fronte all’alimentare quotidiano di discariche sociali.

La Costituzione italiana, la “costituzione più bella al mondo” e con un numero di defensor fidei che non basterebbe il Maracanà a contenerli tutti, stabilisce ben precisi percorsi e obiettivi di pene e detenzioni. Quei 700, o almeno sicuramente un gran numero, in questi anni hanno sperimentato e costruito quei percorsi, si sono ricostruiti una vita e il reinserimento nella società, l’alternativa ad una detenzione puramente punitiva l’hanno costruita.

Se c’è chi ha rispettato la Costituzione, chi l’ha difesa, chi l’ha concretamente attuata sono stati, almeno un gran numero, quelle persone. Mentre traccia non ce n’è di tutto questo tra chi ha lasciato passare invano questi ormai quasi tre anni, chi continua a volgere lo sguardo altrove di fronte al sovraffollamento e alla negazione di ogni umanità e diritto. Eppure i secondi continuano a sgovernare e determinare e i primi stanno subendo la colpa di vedere cancellata ogni speranza, distrutto ogni loro sforzo e vita.

La legge, quella legge in nome della quale sono stati rinchiusi, stabilirebbe in maniera ben precisa i percorsi verso un giudizio in tribunale così come la netta prevalenza di percorsi di riabilitazione e reinserimento di minori. Percorsi che esistono ma ben 500 sono oggi, nell’età in cui dovrebbero costruirsi la vita e la società e lo Stato dovrebbero accompagnarli nel creare alternative di vita, sono reclusi in carceri come il Beccaria di Milano.

Quelle alternative che il carcere oggi non costruisce, la recidiva tra coloro che non hanno avuto la possibilità di percorsi alternativi alla sola detenzione meramente punitiva è un dato drammatico che “parla da solo”. E in carceri minorili si può rimanere reclusi fino a 25 anni se in attesa di giudizio. Anche qui chi ha responsabilità, sulla gestione della giustizia e dell’amministrazione penitenziaria, e chi paga il conto è lapalissiano. Dietro quelle mura, nei fatti di Natale al Beccaria e nella quotidianità di tutti gli istituti, c’è il fallimento della società, il fallimento della civiltà. Una società che non garantisce a ragazzi minorenni, che avrebbero tutta la vita davanti, nulla se non distruggerli ogni possibile avvenire, non è tale. Le storie di questi ragazzi “evasi”, la narrazione mediatica quasi da caccia grossa nella giungla, dove si trovavano quando sono stati ritrovati sono la plastica dimostrazione di questo fallimento.

Quanto accaduto racconta «cosa c’era in quel carcere» e «spesso, quasi sempre, cosa c’è in ogni carcere» ovvero «solitudine, vuoto, negazione di diritti diversi da quell’integrità della libertà personale che la pena detentiva principalmente aggredisce, poi però portandosi dietro molte altre e afflittive privazioni, che investono affetti, occupazioni, direzioni e impegni, aspettative, desideri, interessi» è la riflessione pubblicata da Antonella La Morgia sul sito web di Voci di Dentro qui https://vocididentrojournal.blogspot.com/2022/12/fuga-dal-beccaria-quei-ragazzi-papillon.html

«Colpevoli di evasione siamo anche noi»  interroga le coscienze Antonella. «Lo siamo dal compito e dal dovere di occuparci dei carichi che se non sono residuali, da sempre fanno parte di quanto “scartiamo”, perché in fondo il carcere è questo (gabbia o discarica) del e nel nostro immaginario collettivo» e «stando così le cose, uscire da lì nuovi, recuperando se stessi, è solo questione di eroismo, la fortunata coincidenza di legami che si incontrano in un dentro che vuole isolare, alienare, confinare mente e corpo delle persone e un fuori che ci prova ad accogliere» ma «troppe poche volte ci riesce, per un’infinita serie di ostacoli».

«Si interroghino non già le persone che da anni e ogni giorno lo fanno: operatori, volontari, agenti, direttori – si legge in conclusione della riflessione pubblicata - ma oltrepassi i muri chi manca all’appello di questo sguardo di attenzione» a «questa fuga, i suicidi, le parole mai ascoltate dei garanti, degli studiosi, le voci che da quel dentro escono e pochi ascoltano» e lanciano alla società «un invito forte» che è «più che mai un grido d’allarme».