Una testimonianza dai campi di accoglienza. Parla Daniele Bombardi, coordinatore della Caritas a Sarajevo
L'INTERVISTA. Una testimonianza importante per evitare che la sofferenza di migliaia di persone inermi possa trasformarsi in una semplice notizia data nei telegiornali nazionali senza alcuna conseguenza: solo chi opera in prima linea vede ciò che sta accadendo non molto lontano da noi, dalla civile Europa le cui istituzioni ancora una volta tacciono voltando lo sguardo altrove, dove sofferenza e fame non si percepiscono.
Si rischia l’ennesimo disastro umanitario al confine tra la Bosnia e la Croazia, dove i migranti della rotta balcanica, circa mille persone, stanno trascorrendo queste terribili giornate invernali in mezzo all’altopiano di Lipa ricoperto di neve.
Una migrazione che da alcuni anni caratterizza questo territorio che rappresenta l'ultima tappa a un passo dalla meta finale, il nord Europa.
Abbiamo raggiunto al telefono Daniele Bombardi, coordinatore della Caritas italiana nei Balcani, impegnato insieme ad altre associazioni umanitarie nell’aiutare una umanità in fuga: africani, afghani, siriani, bengalesi in fuga da paesi dove vivere a volte diventa impossibile.
Una testimonianza importante per conoscere una realtà drammatica e dar voce alla sofferenza di migliaia di persone inermi. Una testimonianza necessaria affinché l'inferno vissuto da questi esseri umani non resti una semplice notizia data nei telegiornali nazionali senza alcuna conseguenza.
Solo chi opera in prima linea vede ciò che sta accadendo non molto lontano da noi e dalla civile Europa le cui istituzioni ancora una volta tacciono, voltando lo sguardo altrove dove sofferenza e fame non si percepiscono. Un flusso migratorio che non si è mai arrestato neanche durante la pandemia e che, in questi mesi invernali, comporta un maggior rischio di morte a causa delle temperature proibitive per chi non può nemmeno accedere ai campi di prima accoglienza.
Di quante persone stiamo parlando e in quali condizioni si trovano?
«In totale contiamo circa 8000 migranti, di cui 5000 nei posti letto presso i campi allestiti, ma i restanti in grossa difficoltà e assistiti come meglio riusciamo, ma senza una struttura stabile è molto difficile.»
Quando è esplosa la situazione nel territorio della Bosnia?
«A partire dal 2018 quando i numeri sono notevolmente aumentati dopo che l’Ungheria ha bloccato il confine e i migranti hanno quindi modificato il percorso provando ad entrare dalla Bosnia per poi giungere in Europa. Questo ha colto di sorpresa il governo della Bosnia che era privo di strutture di accoglienza e che neanche oggi sta attuando una adeguata politica di gestione del fenomeno migratorio, mancando qualsiasi tipo di progettazione.»
Chi si sta occupando della sopravvivenza di queste persone e cosa stanno facendo le istituzioni?
«Operano le associazioni di volontariato, noi come Caritas, la IPSIA ACLI. L’OIM, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, ha chiesto al governo strutture e luoghi per gestire direttamente l’emergenza, ma non è stato fatto nulla e i campi organizzati si trovano in strutture per lo più private, perché lo Stato non si è mai interessato per trovare una soluzione definitiva.
Era stata individuata una ex fabbrica con circa 2000 posti letto, situata in una zona molto vicina alla città. A seguito anche delle contestazioni degli abitanti il governo ha deciso di chiudere il campo e con la scusa della pandemia ha spostato gli ospiti altrove. Questo è accaduto nei mesi di marzo- aprile senza prevedere l’arrivo dell’inverno che qui è particolarmente duro.
Poi la politica non se ne è occupata fino a metà novembre quando si sono svolte le elezioni comunali, la nostra speranza era che poi si sarebbe affrontato il problema. Invece niente, la politica non sta lavorando ad alcuna soluzione.»
Quindi i migranti sono stati spostati fuori città in una zona lontana dal centro abitato, nell’altopiano di Lipa; ma anche da lì sono stati allontanati e c’è stato un incendio della struttura di accoglienza. Cosa è accaduto?
«L’OIM senza mezzi e in assoluta difficoltà ha abbandonato il campo per non essere complice della morte dei migranti, non potendo gestire quell’inferno: il governo bosniaco ha quindi disposto l’allontanamento dei rifugiati e il campo è stato incendiato, qualcuno dice dagli stessi ospiti, altri dicono da chi non voleva il campo. Ma l’unico risultato adesso è che ci sono circa mille persone in mezzo alla strada, senza riparo, nella neve, al freddo, tutti uomini adulti. Notizia di ieri è la scelta di riaprire un nuovo campo, mai tempi non saranno brevi.»
Riuscite ad assisterli in questa fase emergenziale e quali sono i vostri rapporti con le istituzioni?
«Noi come Caritas siamo presenti a Sarajevo con tre campi, la IPSIA ACLI gestisce il territorio di Bihac al confine con la Croazia e tutto è molto difficile; ancora peggio è assistere persone in condizioni di totale abbandono e senza strutture di supporto. Il governo bosniaco ci sta anche vietando l’assistenza diretta dei migranti in quanto, sostiene, non esiste più il campo d'accoglienza: il fatto è che non essendo capace di dare risposte, la politica non vuole la presenza di chi denuncia una persistente violazione dei diritti umani. Cerchiamo comunque di portare il nostro aiuto attraverso la Croce Rossa che può ancora effettuare assistenza. Il nostro intento resta quello di aiutare le persone in difficoltà e siamo pronti a collaborare con il governo.»
Perché secondo lei il governo e le istituzioni nel loro complesso non stanno intervenendo anche di fronte al rischio di una nuova catastrofe umanitaria e comunque si mostrano immobili nonostante un fenomeno migratorio in costante aumento?
«Il problema è da sempre sottovalutato e inoltre vi è una visione distorta della migrazione in questa parte del mondo. Chi arriva qui non vuole restare, non ci sono possibilità di lavoro e questo passaggio serve a chi arriva qui solo a giungere nel nord Europa, in Austria, in Italia, in Germania, non certo per restare in un paese che non potrebbe offrirgli nulla. Mi chiedo allora perché non aiutarli e rendere meno gravoso il loro temporaneo soggiorno; inoltre ci sono fondi europei già stanziati e la gestione non comporterebbe uno stanziamento di risorse statali. Anzi se ben gestita, la realtà dei campi di accoglienza potrebbe portare una nuova economia anche locale e magari creare posti di lavoro.»
Dove trovate i fondi per portare avanti le vostre attività in soccorso dei più deboli?
«Un grande supporto viene dalla CEI che finanzia gran parte del nostro lavoro, c’è poi la rete della Caritas e i contributi dei privati. A settembre abbiamo ricevuto una donazione speciale: Papa Francesco ha voluto fare una donazione personale che ci ha permesso di creare nuovi spazi nei campi di Sarajevo e Bihac e distribuire vestiario. Un gesto che ci ha riempito di orgoglio per l’importante riconoscimento alla nostra attività.»
Chiunque volesse sostenere gli interventi della Caritas per le popolazioni migranti in Bosnia Erzegovina e lungo la Rotta balcanica può donare on-line tramite il sito www.caritas.it, oppure, specificando nella causale “Europa/ Rotta Balcanica” può utilizzare i seguenti conti intestati a Caritas Italiana:
• conto corrente postale n. 347013
• Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma –Iban: IT24 C050 1803 2000 0001 3331 111
• Banca Intesa Sanpaolo, Fil. Accentrata Ter S, Roma – Iban: IT66 W030 6909 6061 0000 0012 474
• Banco Posta, viale Europa 175, Roma – Iban: IT91 P076 0103 2000 0000 0347 013
• UniCredit, via Taranto 49, Roma – Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119