Ingroia: «Provenzano garante della Trattativa Stato-mafia»

DEPISTAGGI DI STATO. Intervista ad Antonio Ingroia, il magistrato che avviò le inchieste sulla trattativa Stato-mafia e oggi avvocato della famiglia di Attilio Manca, presidente del movimento politico Azione Civile. Sulla morte di Manca: «non si può parlare di suicidio, lo capisce persino un bambino».

Ingroia: «Provenzano garante  della Trattativa Stato-mafia»
La signora Manca insieme all'avvocato Antonio Ingroia (foto di Patricia & Guido Di Gennaro)

«Lo Stato ha sempre utilizzato la criminalità organizzata. Il mandante esterno in questi omicidi di Stato c’è sempre. Poi c’è il contatto che dice a due picciotti: ‘andate ad ammazzare questo’. A Ilardo lo sparano sotto casa. L’ordine è arrivato dallo Stato. È successo per tutti gli omicidi eccellenti. Ilardo è uno degli omicidi eccellenti.» Parole dure, pronunciate da un uomo di Stato. Nei giorni scorsi WordNews ha pubblicato un'ampia intervista al colonnello dei carabinieri Michele Riccio, un investigatore di razza. Insieme alla sua fonte, Luigi Ilardo (un mafioso pentito, abbandonato e tradito dallo Stato) stava - nel 1995 - per mettere le mani sul latitante Provenzano. Undici anni prima dell'arresto show del 2006.

«Non hanno voluto arrestarlo», secondo Riccio. Quanti omicidi si potevano evitare? Se Provenzano fosse stato arrestato, ad esempio, si sarebbe potuta salvare la vita del famoso urologo Attilio Manca. Massacrato da “ignoti” a Viterbo. La sua morte violenta grida ancora vendetta. 

Per queste ragioni abbiamo voluto sentire l'ex PM Antonio Ingroia, oggi legale della famiglia Manca. 

Luigi Ilardo, la fonte del colonnello Riccio, offre su un piatto d’argento il latitante di Corleone. Cosa pensa della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso?

«Il mio pensiero è lo stesso delle conclusioni a cui giungemmo con Nino Di Matteo nel processo sulla mancata cattura di Provenzano: non è pensabile che investigatori come quelli del ROS dei Carabinieri, che si occupavano di quell’indagine, siano potuti incorrere in una imperdonabile dimenticanza, negligenza o caduta di professionalità. Fu una scelta che rientrava nella logica della trattativa Stato-mafia in pieno corso all’epoca, nella quale Bernardo Provenzano era il garante della Trattativa sul versante mafioso.

Lo Stato che l’aveva stipulata – nei vari accordi che erano stati presi – non poteva permettersi di arrestarlo perché era funzionale al mantenimento dell’osservanza degli accordi. Questo è quel che è accaduto, dopodiché nel processo i giudici non hanno ritenuto sufficientemente provato il grado di colpevolezza e le responsabilità penali ed arrivare ad una sentenza di condanna è altro discorso. Personalmente ritengo che i fatti dimostrano che questo è quanto accaduto».

Se il capo di Cosa nostra fosse stato catturato molti episodi non si sarebbero verificati tra cui quello dell’omicidio del medico Attilio Manca. Un suicidio o un omicidio di Stato?

«Secondo me verrebbe quasi da dire “elementare Watson”: tutti gli elementi conducono ad affermare che Attilio Manca è stato ucciso e che è stato, purtroppo, una delle tante vittime innocenti della Trattativa Stato-mafia e del fatto che tutti coloro che costituirono un ostacolo al completamento della trattativa (come Paolo Borsellino) o a mantenere il segreto di Stato sulla stessa, mettendo in pericolo la cintura di sicurezza mista di Stato e mafia che proteggeva per queste ragioni Provenzano, ne sono stati, potremmo dire, stritolati in maniera mortale. Il delitto Manca è quindi un delitto di Stato o, se vogliamo, di Stato-mafia. Del resto ha in comune con la strage di Via D’Amelio l’attuazione di un depistaggio di alto livello. Depistaggi di questo livello e raffinatezza si possono attuare solo quando dietro c’è lo Stato, che si mobilita per depistare soltanto per delitti di Stato».

Lei, insieme all’avvocato Repici, è il legale della famiglia Manca. Cosa è accaduto a Viterbo? Il processo ha svelato tutto o restano ancora delle anomalie?

«Ho già affermato e sono tuttora convinto – e lo ribadisco anche sono stato persino sottoposto a processo penale per averlo detto pubblicamente nell’esercizio delle mie funzioni difensive di parte civile – che c’è stato un depistaggio di Stato. Che è stato come minimo assecondato, e certamente non contrastato, dall’autorità giudiziaria che avrebbe dovuto impedire invece che avvenisse. In primo luogo la Procura di Viterbo e poi la Procura distrettuale antimafia di Roma, alla quale abbiamo fornito tutti gli elementi per smascherare il depistaggio ed invece ha archiviato-insabbiato quell’indagine. L’Italia è un Paese nel quale queste verità non solo non si possono accertare, tranne quando ci sono degli investigatori coraggiosi come non è ad oggi avvenuto per il caso Manca, ma non si possono neanche dire.

Io stesso mi sono poi ritrovato imputato per calunnia per aver detto queste cose durante l’udienza preliminare del processo. L’unico finora avviato dalla Procura di Viterbo sul caso Manca, a mio parere sulla pista depistante nel quale era imputata la presunta spacciatrice che avrebbe determinato la morte accidentale per overdose di Attilio Manca cedendogli la dose fatale – prima che venissimo brutalmente e incomprensibilmente estromessi. Incomprensibile, perché i familiari di Attilio Manca non possono partecipare al processo nel quale si discute della sua morte, conclusione alla quale giunse il giudice. Ma non solo, quando feci le mie considerazioni affermando che quell’imputata non era l’imputata giusta, frutto di un depistaggio che descrissi, venni addirittura incriminato dalla procura di Viterbo per calunnia contro gli investigatori e il dirigente di Polizia che aveva svolto le indagini. Dirigente che io ricordai essere non nuovo a fatti del genere: era già stato condannato per falso ideologico in atto pubblico in quanto funzionario di Polizia per aver falsamente attestato le bottiglie molotov utilizzate per giustificare il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova. Fu chiesto il mio rinvio a giudizio ma il giudice per l’udienza preliminare di Viterbo mi prosciolse con formula piena, in quanto avevo esercitato la mia funzione.

Però per le mie dichiarazioni, obiettivamente forti, durante una conferenza stampa con la signora Manca, sono stato successivamente citato in giudizio per danni dal pm di Viterbo e il tribunale e la corte d’appello di Perugia mi condannarono per diffamazione. Ci sarà su questo probabilmente  ricorso in Cassazione. Questo è la dimostrazione, quindi, di come non solo il diritto alla verità nel nostro Paese – quando sono verità difficili ed ingombranti – viene cancellato ma anche il diritto di critica viene violentemente, e in modo intimidatorio punito».   

Perché non si può parlare di suicidio nel caso di Attilio Manca?

«Perché non si può parlare di suicidio lo capisce persino un bambino, le dichiarazioni convergenti di tutti – parenti, familiari e anche colleghi medici che non possono essere accusati di dietrologia e complottismo – che Attilio Manca era un mancino puro e per questo non aveva la capacità di maneggiare la mano destra, tantomeno di fare qualsiasi operazione medica con la mano destra e quindi un’iniezione endovenosa con la quale trovare facilmente la vena dell’iniezione letale. Iniezione che fu inoculata nel braccio sinistro di Attilio Manca, fosse stata un’auto inoculazione avrebbe dovuto utilizzare proprio la mano destra, cosa del tutto innaturale ed impensabile. Chi lo ha fatto non ha riflettuto su questo. Cito solo un dato, tra i tanti da cui ciò emerge, che dimostra che è stata tutta una messinscena: Attilio Manca non era un tossico dipendente e nulla induce a ritenere che quella scena del delitto sia la scena di una morte per overdose. Attilio Manca fu ritrovato con il setto nasale spaccato, la versione ufficiale – per cercare di rendere la dinamica compatibile con una morte casuale e non di un delitto – fu che sarebbe crollato sul letto colpendo con il naso il telecomando del televisore e quest’urto avrebbe determinato la deviazione del setto nasale».

È un omicidio di mafia o lo si può collegare agli Apparati dello Stato?

«Esprimo su questo più una mia opinione frutto dell’esperienza trentennale su indagini di mafia: non ho mai visto un delitto di mafia in questi termini. Se delitto fu, e per tutte le ragioni già ricordate delitto è stato, non è stato di mafia. Ai mafiosi interessava che Bernardo Provenzano venisse protetto ma, paradossalmente, chi aveva più interesse a far tacere Attilio Manca – che probabilmente aveva iniziato a capire, a fare domande indiscrete e si era insospettito – e l’abbia ucciso così non sia stata la mafia ma apparati deviati dello Stato. Ovvero chi aveva avuto l’incarico, a sua volta, di incaricare Attilio Manca e quindi si era assunto la responsabilità – nei confronti della mafia e degli apparati deviati dello Stato - che tutto filasse liscio, nel momento in cui questo non stava più accadendo costoro hanno così agito. Mi limito a ricordare che sono state rinvenute in bagno nell’abitazione di Attilio Manca a Viterbo le impronte digitali del cugino. Personaggio anche indagato in relazione all’omicidio, la sua posizione venne archiviata, accusato di essere borderline nelle dichiarazioni di alcuni pentiti che hanno affermato potesse essere cerniera tra il mondo della mafia e il mondo degli apparati deviati dello Stato. La versione da lui fornita su quelle impronte digitali è stata che era stato ospite di Attilio Manca molti mesi prima del delitto, in occasione di un piccolo intervento chirurgico a Viterbo. Circostanza singolare perché raramente un’impronta digitale su una mattonella permane per mesi e mesi.

Quindi, senza accusare direttamente nessuno, ma se volessimo fare delle ipotesi, se qualcuno avesse voluto agli occhi di Cosa Nostra e dei servizi acquisire benemerenze e proporsi per risolvere un problema emerso durante la latitanza di Bernardo Provenzano e si fosse rivolto ad Attilio Manca e la situazione gli fosse poi sfuggita di mano – perché Attilio Manca al di là delle rassicurazioni avesse cominciato a fare domande o minacciato di rivolgersi alle autorità perché c’era qualcosa che non lo convinceva – chi si era assunto questa responsabilità di fronte alla mafia e ai servizi segreti, per non rischiare di essere ucciso a sua volta di fronte ad eventuali denunce di Attilio Manca, ha attuato il delitto per farlo tacere appoggiandosi probabilmente più agli uomini degli apparati anziché agli uomini di Cosa Nostra».

 Lei ha richiesto la riesumazione del cadavere. Perché? Quali elementi sono emersi?

«Può riemergere innanzitutto, come noi parti civili riteniamo, che la relazione autoptica non è stata affidabile ed eseguita, come minimo, in modo superficiale. Se non parte anch’essa del depistaggio messo in atto sin dai primi giorni. Potrebbe evidenziare ciò che non è mai stato evidenziato: alcuni strani segni attorno alle caviglie e alle mani, che potrebbe essere stato legato ed immobilizzato o comunque aver subito atti violenti. Atti del tutto incompatibili con l’autoinoculazione della dose che avrebbe determinato la sua morte. Se fosse stata overdose accidentale o suicidio certi segni, che sembrano vedersi nelle foto, sarebbero incompatibili con dinamiche che non prevedono la presenza di terzi che avrebbero esercitato atti violenti contro di lui».  

 

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