Stato e mafie: parla Ravidà, ex ufficiale della DIA

L’INTERVISTA. Abbiamo raccolto il pensiero dell’ex ufficiale della DIA, Mario Ravidà, presente nell’aula bunker di Reggio Calabria, durante la devastante requisitoria del PM Giuseppe Lombardo, relativa al processo sulla ‘Ndrangheta stragista. «Ancora si stanno pagando dei debiti che sono stati fatti negli anni Novanta con Cosa nostra».

Stato e mafie: parla Ravidà, ex ufficiale della DIA
Mario Ravidà, ex ufficiale DIA

«Questo processo assume un’importanza direi storica, per quanto riguarda la lotta alla mafia, alla ‘ndrangheta e alle mafie in genere. Si vanno ad analizzare e ad indicare le collusioni tra Stato, in senso lato, mafia e alta massoneria, con infiltrazioni politiche».

 

Abbiamo raccolto il pensiero dell’ex ufficiale della DIA, Mario Ravidà, presente nell’aula bunker di Reggio Calabria, durante la devastante requisitoria del PM Giuseppe Lombardo, relativa al processo sulla ‘Ndrangheta stragista.

«Le parole del dott. Lombardo mi fanno venire in mente tante cose. L’unica cosa che mi colpisce e mi fa male è pensare che vittime innocenti, che credevano effettivamente in uno Stato e nella difesa dei cittadini onesti, sono morti, forse, anche per mano dello Stato. E questo mi fa veramente male. Il tradimento più alto. Noi lavoravamo per questo Stato, abbiamo lavorato per difendere lo Stato democratico. Nel momento in cui subiamo le conseguenze dallo stesso Stato diventa drammatico».   

 

Ravidà ha una esperienza quarantennale alle spalle. In prima persona ha vissuto i momenti più drammatici della Repubblica. Nel 2015, Ravidà, ha dato alle stampe un suo manoscritto, Carne da macello (AltroMondo editore), un libro scritto – come si legge nella sinossi - per onorare la memoria di magistrati, uomini politici e appartenenti alle forze dell'ordine; caduti per qualcosa in cui credevano nel nome di un ideale di legalità e giustizia.

«Una cronistoria personale di quello che ho vissuto. Per caso mi sono trovato a vivere i momenti più drammatici di questa Repubblica: ad iniziare dal sequestro Moro, dove stavo facendo un corso di polizia giudiziaria a Roma e, quindi, ho partecipato a quelle che erano le operazioni per il tentativo di cattura delle Br, cosa non riuscita.

Successivamente sono stato trasferito alla Digos di Napoli, sezione antiterrorismo, dove ho vissuto il sequestro Cirillo in prima persona, con i suoi retroscena, in particolare di un collaboratore che ci rivelò che dietro il sequestro, in realtà, c’era un progetto della Democrazia Cristiana e un accordo per la liberazione per una somma di un miliardo e 450 milioni. Quello che non c’è stato per Moro.

A Catania, al reparto mobile, ho fatto parte della Criminalpol, quindi ho conosciuto direttamente il fenomeno mafioso ai massimi livelli, per quanto riguarda la Sicilia orientale.

Con la formazione della DIA, nel 2003, ho completato il mio percorso professionale. Ho vissuto le stragi, anche se non direttamente, più che altro quella di Borsellino, dove abbiamo partecipato alle indagini.

 

La famosa relazione scomparsa, dopo il sopralluogo che lei fece con un suo collega della Criminalpol, il giorno dopo la strage, nel palazzo di proprietà dei fratelli Graziano, legati al clan Madonia.

«Scomparsa per diciotto anni e poi, per caso, dopo averne parlato con un giornalista, è uscita fuori».

 

Poi c’è la questione Ilardo, il collaboratore che stava dando un colpo mortale a Cosa nostra. È importante ricordare il colonnello Riccio, una figura fondamentale, infangato e diffamato nel corso degli anni.  

«Il problema è stato questo. Basti vedere quando Riccio è stato arrestato, per cosa è stato arrestato. Riccio è stato arrestato per un premio dagli esteri per l’operazione di servizio che lui stava facendo. E ne erano perfettamente a conoscenza tutti i suoi superiori. Chiaramente hanno lavorato in maniera non conforme a quelle che erano le regole di una operatività legale, però con risultati enormi».

 

Cosa aveva scoperto Riccio?

«Aveva Ilardo. Sarebbe stato devastante per questo Stato democratico se fosse stato in vita e poteva parlare. Era a conoscenza di tutti i fatti più nascosti che non hanno avuto, sino ad ora, luce».

 

Possiamo entrare nel merito?

«Basta citare gli omicidi di Piazza, del collega Agostino e della moglie, del piccolo Di Matteo.

Centinaia di fatti: gli attentati in Italia degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Loro (i mafiosi, nda) andavano a prendere l’esplosivo nelle caserme dei militari, insieme a un personaggio che si chiamava Ghisena, calabrese, legato ai servizi segreti e alla massoneria. Questo esplosivo veniva usato per gli attentati in giro per l’Italia. Parliamo di collegamenti tra mafia, ‘ndrangheta e servizi deviati. Ilardo avrebbe fatto luce su questi fatti».

 

Senza dimenticare la famosa operazione Mezzojuso e la mancata cattura di Binnu Provenzano.

«L’operazione Mezzojuso è stata emblematica. Si è puntato dall’inizio, da quando c’era De Gennaro, all’arresto di Provenzano. L’obiettivo principale era quello. In attesa di questa operazione abbiamo fatto un mare di operazioni, abbiamo arrestato latitanti importanti di primo piano, abbiamo fatto un’operazione a Catania e abbiamo azzerato Cosa nostra. Su indicazioni di Ilardo abbiamo arrestato 50 persone».

 

Poi cosa succede?

«Riccio viene inspiegabilmente, una volta andato via De Gennaro dai vertici della Dia, destituito all’Arma e, quindi, a Mori. Proprio in quel momento si determinò l’appuntamento con Provenzano. Sebbene ci fossero state tutte le condizioni, Riccio non è stato messo nelle condizioni di poter finalizzare l’operazione. Si sono limitati a fare qualche foto sul posto, invece di agire e arrestare Provenzano e, forse, tutti i vertici di Cosa nostra. Avremmo azzerato Cosa nostra».

 

Ed entrambi, Ilardo e il colonnello Riccio, faranno una brutta fine.

«Ilardo muore dopo le sue dichiarazioni. Ritorna a Catania senza protezione, sebbene avesse dato queste anticipazioni davanti al fior fiore di Procuratori. Si doveva proteggere in altro modo, lo Stato doveva proteggerlo».

 

E Riccio?

«Viene eliminato giudiziariamente. Nel momento in cui sta facendo le denunce a varie Procure: Catania, Caltanissetta, Palermo, per la storia di Ilardo. E proprio in quei momenti viene arrestato, a dieci anni dai fatti che gli contestano. Una storia strana, non riesco ancora a comprendere le esigenze cautelari per un colonnello dei carabinieri pluridecorato. Quali prove poteva inquinare dieci anni dopo i fatti contestati».

 

Non è solo mafia. Ci troviamo di fronte a quelle «menti raffinatissime» di cui parlava Falcone?

«Ci sono diversi elementi che possono portare a questa conclusione. Sono convinto di una cosa: c’è stato un momento storico in Italia dove diverse decisioni giudiziarie portano a pensare che ci sia stata una concordanza tra varie strutture. Riccio viene arrestato dai magistrati di Genova. Per quanto riguarda l’omicidio di Ilardo, ci sono state delle fughe di notizie. Ci sono stati dei ritardi da parte dei funzionari della DIA.

Perché la DIA caccia Riccio nel momento in cui stava dando dei risultati eccezionali? Come ha confermato il direttore della DIA, durante il processo Trattativa Stato-mafia, nessuno aveva mai dato questi risultati. Queste sono domande che dovremmo farci un po’ tutti».

 

I soggetti che lei ha incontrato, durante la sua attività professionale, sono approdati all’interno delle Istituzioni?

«Sì, qualcuno ha fatto da consulente in Commissione parlamentare antimafia».

 

Se la sente di fare il nome?

«Sì, il dott. Pappalardo che conferma, al processo contro Mori e Obinnu, di essere stato uno degli artefici della cacciata di Riccio dalla DIA. Sebbene ammette che, forse, mai nessuno come Riccio aveva portato quei risultati. La domanda da farsi è perché allora viene rimandato nell'Arma? È lo stesso funzionario che prima dell'arresto di Riccio vuole incontrare me e un altro mio collega, insieme lavoravamo con il colonnello, e ci intima di non frequentare più Riccio, sebbene avevamo in corso l'indagine Chiara luce contro Cosa nostra catanese, proprio per merito di Ilardo che ci aveva fatto identificare il responsabile del clan Santapaola che in quel momento reggeva la cosca.

 

Sono domande a cui non ho mai trovato una risposta logica. Chiaramente non potevamo, proprio per questi motivi, non frequentare più Riccio. Era troppo importante tale rapporto per finalizzare l'operazione, come poi accadde con più di 25 arresti che azzerarono il clan.

Il nostro Rapporto con il Colonnello continuò contravvenendo a quanto ci veniva disposto. Per tale motivo il mio collega fu anche convocato a Roma presso la direzione della DIA e da un altro alto Dirigente, anche lui siciliano, Pippo Micalizio, ora deceduto, che minacciò il mio collega di farci uscire dalla DIA se avessimo continuato tale rapporto.

 

Devo aggiungere che Pappalardo, sebbene fosse già avvenuta la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, non ne era al corrente. Quando lo informammo di ciò, rimase sorpreso ed aggiunse: “Mori non me lo aveva detto”. Presumo, da quanto affermò, che Pappalardo venne convinto da Mori ad allontanare Riccio dalla DIA. Forse proprio per controllarlo ed impedire la cattura del Provenzano. Come affermato da Riccio, se fosse rimasto alla DIA, si sarebbe sicuramente finalizzata anche la cattura di Provenzano con il nostro ausilio e come era già accaduto con gli altri latitanti catturati. Queste sono cose che, effettivamente, lasciano pensare. Sono le cose strane che sono successe.

 

Come nell’omicidio Ilardo, dove è stato aperto un fascicolo per connessioni istituzionali. A distanza di cinque anni dall’omicidio ricevo una notizia da parte di un mio confidente che mi dice chi erano gli autori, i mezzi usati per commettere il delitto. La mia relazione finisce in un cassetto, dopo le mie proteste questo documento finisce in Procura. Si deve sentire il mio confidente, dopo dodici anni, e si arrestano i personaggi che avevo segnalato. Cose strane e nessuno chiede nulla sui ritardi, sulle omissioni».

 

Oggi come siamo messi in Italia per quanto riguarda la lotta alle mafie?

«È un momento strano. Abbiamo visto tutti quello che è successo con il ministro Bonafede e il mancato incarico a Di Matteo. Perché non mettere le persone giuste al posto giusto? È una volontà di Stato o una incapacità?»

 

Che giudizio si è fatto del ministro Bonafede?

«Il Movimento 5stelle era nato per cambiare l’Italia ma non sono questi i modi per cambiarla. Il decreto ultimo che riguarda gli appalti pubblici ha solo aumentato la mancanza di controllo per le enormi somme che saranno stanziate per gli appalti pubblici. Il dubbio, il sospetto e la paura è che possono banchettare, per quanto riguarda la corruzione, senza nessun controllo. Questo è un’altra cosa gravissima».

 

La trattativa Stato-mafie è terminata?

«Ancora si stanno pagando dei debiti che sono stati fatti negli anni Novanta con Cosa nostra».

 

Se ne può uscire da questa situazione?

«Se ne può uscire nel momento in cui un Governo nasce per cambiare totalmente le cose. Si dovrebbero attenzionare in modo pressante le mafie, la corruzione e tanto altro. Ma c’è una volontà di fare questo?».        

 

 

 

 

 

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