Poesia in forma di rosa

SPECIALE PIER PAOLO PASOLINI. IL MASSACRO DI UN POETA. Terza parte. Bologna, 5 marzo 1922 - Idroscalo di Ostia (massacro), 2 novembre 1975. Continua il nostro lungo "viaggio" per ricordare il poeta MASSACRATO (in vita e in morte) dal potere costituito. Lo faremo attraverso i suoi scritti e le sue profezie. Resta ancora una domanda che gravita intorno alla sua morte: chi ha ucciso Pasolini?

Poesia in forma di rosa
Pier Paolo Pasolini

Ho sbagliato tutto.

Sbagliava, spaurito al microfono,

con la prepotente incertezza del brutto,

 

del soave poeta, quel mio omonimo,

che ancora ha il mio nome.

Si chiamava Egoismo, Passione.

 

Sbagliava, con la sua balbettante bravura,

rispondendo a domande di amici o fascisti,

Maciste magretto della letteratura.

 

Interlocutori di Teramo o Salerno,

di Conselice, o Frosinone o Genova,

quello là, che aveva tanta ragione,

 

sbagliava tutto.

 

Sceso giù da Parigi

– una primavera uguale in tutta Europa,

mestruo di fango e sole febbrile,

 

o che sui campi (ruggini con viola

di prugna velato, e ovali verdi, con in fondo

l’ombra della foresta romanza...

 

Watteau, Renoir – salnitri

sotto lo strato di verde, barbarico)

il sole di quella primavera

spargesse prepotente dolore,

 

o su questi campi: ai piedi di pale

d’altare, rosso apenninico e casupole

di sottoproletariato latino –

 

... io ho sbagliato tutto.

Ah, sistema di segni

escogitato ridendo, con Leonetti e Calvino,

 

nella solita sosta, nel Nord.

Segni per sordomuti, con ideografie

una volta per sempre internazionali.

 

Il povero Denka nel fondo del Sudan,

con gli altri poveri selvaggi

(centoventi dialetti), regga sicuro

 

sulla spalla la lancia come uno sci,

alto, sublime verme nudo,

nonno o nipote,

 

tra quel disegno mai disegnato

(se non dai fanatici razionalisti

roussoiani, in Europa)

 

di sicomori e di mogani

(che io amo come i più bei monumenti

cristiani: sarà il sole, la pace,

 

l’orrore dell’Africa intorno)

gonfi e asimmetrici sul verde,

sul verde non francese, sul verde

non latino,

 

– sul nuovo verde del mondo,

da millenni incarnato nella foresta.

State tranquilli, Denka,

e voi delle centoventi altre tribù

 

parlanti suoni di ceppi diversi,

 

perchè qui con Leonetti e Calvino

sistemiamo i sistemi di segni,

e buonanotte ai dialetti.

 

Ho sbagliato tutto. Fiumicino,

riapparso di tra nuvole di fango,

è ancora più vecchio di me.

 

I resti del vecchio Pasolini

sui profili dell’Agro... tuguri

e ammassi di grattacieli...

 

È una rosa carnale di dolore,

con cinque rose incarnate,

cancri di rosa nella rosa

 

prima: in principio era il Dolore.

Ed eccolo, Uno e Cinquino.

La prima rosa seriore significa

 

(ah, una puntura di morfina! aiuto!):

 

Hai sbagliato tutto, brutto, soave!

L’idea di aver sbagliato! Io!

Capite? Io! Lo smacco, lo scacco...

 

È finita: bestemmiare, suicidarsi,

il sole di fiume di Fiumicino

vuol dire che sono pieno di sabbia

 

accecante, di limo sbriciolato.

Dentro il tassì i petali del cancro,

verso la riaffiorata

 

Roma, col vecchio Pasolini macro

di sè, sdato, degradato.

E, dietro l’errore nella questione linguistica,

 

ecco, petalo incarnato su petalo,

nella Rosa Cinquina, il Dolore Due:

lo « sbaglio di tutta una vita ».

 

Basta staccare un petalo e lo vedi.

Rosso dove doveva esser bianco,

o bianco dove doveva esser giallo, come

 

volete: e questo per tutta una vita,

che, per fatalità, consente UNA

SOLA VIA, UNA FORMA SOLA.

 

Come un fiume, che – nel meraviglioso

stupefacente suo essere

quel fiume – contiene il fatale

non essere alcun altro fiume.

 

Si dice, nella vita van perse molte occasioni:

ma... la Vita ha un’occasione SOLA.

Io l’ho perduta tutta.

 

Come può, tutto ciò,

non ripercuotersi nel sesso, castrando

il figlio fino all’ultima lacrima?

 

E così ecco la Terza Corona del Cancro.

Una discesa di barbari alloglotti

(il tassì rade argini, l’erba

 

tagliente e cupa, dal cuore delle notti

– misteriose e palustri, di nascenza –

abbandonata a questo sole micidiale),

 

una discesa medioevale, di Goti o Celti.

Questo sole che dà emicrania a adolescenti

moderni, a universitari, a donne

 

di ceti medi, con rossetti e patenti...

intossica anche il barbaro... Ah,

egli nel gelo dei praticelli fiorenti

 

riposerà, assorto, forse, in qualche

lavoro manuale, non indegno,

mai, dell’uomo. Su lui, tacerà,

 

oltre le divisioni dei maggesi

– pagane, con Priapo, cristiane

con la croce – nel comune latino

 

la campana, che mai nei millenni suonò

verso le tre del pomeriggio.

È prima della primavera il risveglio

del sesso: sarà il gelo o il sudore

 

a risvegliare nei panni ancora invernali,

di maglia, la carne, come di cane o cavallo,

che pare, della maglia, aver la stessa arsura

 

molle come frutto e secca come fango,

sarà il freddo che serpeggia sull’erba

troppo verde sugli argini,

 

o il caldo del primo sole bianco,

in cui la campana del Comune tace,

le bestie pascolano come sognando...

 

E la donna, la cui nobiltà

si manifesta nell’ipocrisia

di fingersi soltanto remissiva,

 

– chiamando obbedienza la sua debolezza –

è anche lei perduta in un lavoro manuale,

di femmina, lei, tra le femmine...

 

E non canta: perchè mai nei millenni

donna cantò alle tre del pomeriggio.

 

Il mestruo nel sole non ha odore.

Le bestie pascolano come sognando...

 

Quel Terzo Dolore consiste

non nel patire la terribile voglia

ma nel trarne solo ossessione.

 

E, da qui, il Quarto Dolore,

per cui succube degli impeti di morte

che mi salgono dal ventre, batterei

il capo, muto, contro i vetri

 

del tassì che percorre

l’orribile autostrada dove è chiaro

che sono senza amore, mentre, barbaro

o miseramente borghese, il mondo è pieno,

pieno d’amore... Di secolo in secolo

 

il sole dà emicranie e erezioni – il padre

orina, dominando la voglia per la notte,

nel fossatello di un’antica divisione

 

di campi, dovuta a pre–Italici ed Italici,

in questo stesso cerchio dell’Appennino,

io, da questo sole, maglia di lana

 

e primo sudore nel gelo,

io vado constatando, coi pugni sul ventre,

la mia mancanza di amore, fino all’ultima lacrima.

 

Il Quinto Dolore è il meno esprimibile

(ora, poi, che a Parigi nei giornali

storpiano il mio nome,

 

e con Calvino e Leonetti, Ordinari

di Modernità nelle cattedre del Nord,

si prospetta un’era antropologica

 

che dissacra i dialetti!)

ora, poi, è addirittura ridicolo,

fuori dalle sue lacrime,

 

nella comprensione della sua ragione:

la delusione della storia!

Che ci fa giungere alla morte

senza essere vissuti,

 

e, per questo, restare sulla vita

a contemplarla, come un rottame,

uno stupendo possesso che non ci appartiene.

 

Ridicolo dolore di prigioniero,

di sciancato, che vede tutto concesso agli altri

in un trionfo di felicità senza fine

 

semplice come la luce del sole con cui si confonde.

 

Il Quinto Dolore è sapere

che miliardi di viventi

una dolce mattina, si desteranno,

come in ogni mattina della loro vita,

 

nel semplice sole dell’Europa futura,

i suoi gelsi, le sue primule,

– o in quello profondo dell’India

nel puzzo sublime del colera che aleggia

 

su corpicini nudi come spiriti,

– o in quello spudorato dell’Africa

sempre più moderna

sul verde della morte che sarà cornice

al furioso dono della vita,

 

– o in questo di Fiumicino, sole di fiume

che fa dell’odore del fango una festa

di misera immortalità latina...

 

Miliardi di viventi,

una dolce mattina si desteranno,

al semplice trionfo delle mille mattine della vita,

 

con la maglia riarsa... con l’umido

del primo sudore... Felici essi –

felici! Essi soltanto felici!

 

Essi soltanto possessori del sole!

Lo stesso sole del barbaro

che nel Medioevo discese,

 

e, dalle gole dei monti, dalle ombre

della neve, si accampò,

sull’erba nera e folta,

cattiva e felice degli argini d’aprile.

 

Solo chi non è nato, vive!

Vive perchè vivrà, e tutto sarà suo,

è suo, fu suo!

 

Si apre come un’aurora

Roma, dietro le spirali del Tevere,

gonfio di alberi splendidi come fiori,

 

biancheggiante città che attende i non nati,

forma incerta come un incendio

nell’incendio di una Nuova Preistoria.

Pier Paolo Pasolini

 

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