«Con determinati ambienti non si può convivere o tanto meno trattare»

L’INTERVISTA AL MAGISTRATO NINO DI MATTEO/Seconda parte. «La politica dovrebbe anche avere un occhio particolarmente attento a verificare che determinate scelte non finiscano, anche inconsapevolmente, per favorire Cosa nostra o le mafie in generale e realizzarne gli obiettivi. Da cittadino auspico che, prima o poi, ci si renda conto che la lotta al sistema criminale-mafioso, inteso nell’accezione più ampia, dovrebbe sempre rappresentare uno dei punti nodali dell’azione di un governo, di qualsiasi colore. Anche quando non spara la mafia condiziona le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini». Sulla Trattativa Stato-mafia: «Mentre c’era chi moriva, chi rischiava di morire, c’era chi faceva parte delle Istituzioni e trattava con Cosa nostra. I fatti sono ormai dimostrati.»

«Con determinati ambienti non si può convivere o tanto meno trattare»
Il magistrato Nino Di Matteo

di Paolo De Chiara e Alessandra Ruffini

 

Roma (CSM). Continua il nostro ragionamento con il Consigliere Nino Di Matteo. Proprio oggi ricade il 39° anniversario della morte del segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre. Aveva sfidato la mafia apertamente e senza retorica. Il 30 aprile 1982 verrà colpito, insieme a Rosario Di Salvo, con una bestiale violenza. Decine di colpi per abbattere il padre della legge che ha introdotto il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni ai mafiosi. In questi ultimi tempi, anche la legge Rognoni-La Torre, è al centro di un dibattitto vergognoso. Gli attacchi diretti alle impalcature messe in piedi per contrastare le mafie non trovano una conclusione nel Paese impregnato di cultura mafiosa.

Nella prima parte («Non abbiamo bisogno di una magistratura conformista») abbiamo affrontato le tematiche e le problematiche legate alla magistratura e agli scandali che stanno facendo emergere situazioni molto pericolose. «Ben vengano le critiche – ha affermato Di Matteo -, ben vengano le operazioni verità sulle patologie della magistratura. Ma questo non può travolgere il concetto e la necessità di una magistratura indipendente e, soprattutto, autorevole nei confronti dei cittadini. Sono i cittadini che devono sentire i magistrati come baluardo delle loro libertà

In questa seconda parte toccheremo anche la Trattativa Stato-mafia (reale, non presunta). Un argomento che ha messo a nudo – con una sentenza di primo grado - i rapporti intensi, pericolosi e squallidi tra personaggi istituzionali e mafiosi. C’è ancora qualcuno (l’elenco è molto lungo) che vorrebbe lasciare questo pezzo di storia nel dimenticatoio.    

Nel maggio del 2019 lei viene estromesso dal pool stragi della Procura nazionale antimafia. Palamara esultò dopo il suo allontanamento. Tutto nasce da una sua intervista dove affronta temi noti, come la strage di Capaci, il ritrovamento di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti e di un guanto con DNA femminile, della scomparsa del diario di Giovanni Falcone da un computer del ministero della Giustizia e dell’ipotesi che alcuni appartenenti a Gladio (organizzazione paramilitare) abbiano avuto un ruolo nella strage. A prescindere dal suo reintegro, arrivato nell’ottobre del 2020, perché certi temi ancora non si possono sfiorare in questo Paese, come diceva Pasolini, orribilmente sporco?        

«Dopo quasi due anni da quella esclusione, nonostante le mie osservazioni che all’epoca presentai al CSM e proprio in funzione della revoca di quel provvedimento di esclusione, fatta recentemente dal Procuratore Cafiero de Raho, non ho ottenuto una risposta a quelle mie osservazioni nelle quali sostenevo che quel provvedimento fosse ingiusto nei suoi presupposti formali e sostanziali. Questo è un dato di fatto che mi lascia perplesso

Rifarebbe quella intervista?

«Per quanto riguarda la necessità di approfondire certi temi quella intervista la rifarei. Partendo dal dato che non rivelavo nulla che non fosse depositato in atti processuali ostensibili, nulla di segreto. Credo che l’opinione pubblica abbia non soltanto il diritto ma, oserei dire, il dovere di essere informata sui processi che sono stati celebrati e che non vengono raccontati dalla grande stampa. L’opinione pubblica deve essere informata e chi ha un ruolo all’interno dello Stato, della magistratura e delle forze di polizia, ha il dovere di non fermarsi.

Spesso determinate verità processuali su fatti molto gravi sono venute fuori anche a distanza di moltissimi anni. È di pochi anni fa una sentenza definitiva che ha condannato all’ergastolo alcuni organizzatori ed esecutori della strage della Loggia a Brescia del 1974. A questi risultati si è pervenuti di recente perché c’è stato qualcuno, e tra questi voglio citare un valentissimo e coraggioso ufficiale dei carabinieri che si chiama Massimo Giraudo, che ha continuato a indagare con la Procura di Brescia, anche nei rapporti tra esponenti dell’eversione nera e di gruppi della destra eversiva ed esponenti dei servizi di sicurezza. L’errore più grande sarebbe considerarle definitivamente chiuse ed archiviate quelle pagine delle stragi che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e sulle quali c’è ancora tanto da scoprire.

E l’informazione deve fare la sua parte, raccontando quello che si può raccontare e che è già emerso. Il muro del silenzio giova ai criminali. L’oblio è il pericolo che grava sulla nostra democrazia.

Il pericolo più grande è che la memoria si trasformi in uno sterile esercizio retorico, magari in una emozione che ricordi la vittima o le vittime del reato. Non può essere sufficiente l’esercizio della pura importanza della sfera emozionale. Fare memoria degli accadimenti richiede qualcosa di più. Non può essere sterile commemorazione basata soltanto sull’emozione e sul ricordo delle vittime.»

Perché, secondo lei, questi temi non vengono raccontati dalla grande stampa? Gli organi di informazione sono legati a quel potere di cui parlava prima?

«Anche per questa risposta mi sentirei, in tutta coscienza, di fare un distinguo. Ci sono dei silenzi che sono complici, silenzi di coloro i quali hanno un interesse contrario alla possibile emersione di certi fatti e di certe collusioni. Ci sono, però, dei silenzi che pur non essendo complici sono comunque colpevoli e sono i silenzi di chi pensa che queste storie non interessino più l’opinione pubblica. Quando l’opinione pubblica viene informata bene, con dei contributi fondati sulla conoscenza e sul ragionamento, si dimostra molto interessata. Non credo che noi abbiamo una opinione pubblica pregiudizialmente indifferente rispetto a certi temi. Forse è comodo farlo credere.»                  

Si parla poco del processo sulla Trattativa Stato-mafia, una sentenza di primo grado ha inflitto condanne a mafiosi e ad appartenenti alle istituzioni. In quella sentenza Marcello Dell'Utri, fondatore del partito politico Forza Italia, è stato condannato – in primo grado - a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Il legame tra politica e mafia è così imprescindibile da non potersi rescindere?

«Nel DNA delle mafie, in particolare Cosa nostra, la ricerca del rapporto con la politica è stata sempre una caratteristica fondante. I mafiosi sanno che senza il contatto con il potere, in generale, la loro organizzazione sarebbe facilmente debellabile con una ordinaria attività di repressione.

Rispetto al periodo antecedente alle stragi non credo che sia venuta meno la volontà dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra di coltivare rapporti con i politici. Sono cambiate le strategie e sono cambiate, soprattutto in una funzione di cautela, rispetto alla maggiore incisività delle indagini dovute al fenomeno del pentitismo e all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Oggi, da questo punto di vista, anche i mafiosi hanno capito che, per preservare il rapporto con il politico colluso, devono evitarlo di esporlo.

Si avvalgono di mediatori insospettabili che possano, eventualmente, giustificare sia il contatto con il mafioso sia il contatto con il politico. Credo che anche la maggiore consapevolezza che determinate vicende processuali hanno diffuso sul fenomeno possa indurre la politica ad essere più attenta nei rapporti. Credo e spero ci sia una maggiore consapevolezza nella politica perché con determinati ambienti non si può convivere o tanto meno trattare.

Accettare il dialogo con questi ambienti rappresenta un rafforzamento forte e molto significativo dal punto di vista delle organizzazioni mafiose. Una volta creato il rapporto l’organizzazione mafiosa tenderà a preservarlo e a conservarlo all’infinito, pena anche una eventuale azione violenta nei confronti del politico.

La politica dovrebbe anche avere un occhio particolarmente attento a verificare che determinate scelte non finiscano, anche inconsapevolmente, per favorire Cosa nostra o le mafie in generale e realizzarne gli obiettivi. Da cittadino auspico che, prima o poi, ci si renda conto che la lotta al sistema criminale-mafioso, inteso nell’accezione più ampia, dovrebbe sempre rappresentare uno dei punti nodali dell’azione di un governo, di qualsiasi colore. Anche quando non spara la mafia condiziona le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini, come il diritto alla sicurezza, alla libertà di iniziativa economica, alla salute, i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione.»                    

Il 20 aprile 2018 lo Stato, in primo grado, ha condannato Leoluca Bagarella (28 anni), Antonino Cinà, Marcello Dell’Utri (già condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno), Mario Mori, Antonio Subranni (12 anni), Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino (8 anni). In questa Repubblica fondata sulle trattative stato-mafie (Unità d’Italia, Portella della Ginestra, sequestro Cirillo, ecc.) un presidente del consiglio (tralasciando il prescritto Andreotti) del governo italiano – utilizzo le sue parole – “nello stesso momento in cui era presidente del consiglio (stiamo parlando di Silvio Berlusconi, nda) - continuava a pagare, come già aveva fatto dagli anni Settanta, cospicue somme di denaro a Cosa nostra”. In questo contesto in cui lo Stato si è inginocchiato davanti a Cosa nostra, dove si sono registrate omertà istituzionali e comportamenti disdicevoli da parte di diversi presidenti della Repubblica che hanno mentito, come si può immaginare una vera “lotta” alle mafie?

«Guardi, al di là delle responsabilità penali dei singoli imputati, è in corso l’appello, il grande merito di quel processo è quello di avere fatto emergere dei fatti che credo siano, ormai, consacrati nero su bianco. Mentre c’era chi moriva come Borsellino e gli agenti della scorta ma anche le cosiddette vittime innocenti delle stragi del ’93, mentre c’era chi rischiava di morire, come centinaia di carabinieri che si sono salvati il 23 gennaio del 1994 allo stadio Olimpico soltanto per un cattivo funzionamento del congegno esplosivo, c’era chi faceva parte delle Istituzioni e trattava con Cosa nostra. I fatti sono ormai dimostrati. Quelle 5.552 pagine di sentenza, con la loro ricostruzione analitica, organica, omogenea, contestuale, capace di collegare fatti e situazioni apparentemente diversi, hanno segnato un caposaldo di tutela della libertà e della democrazia. Oggi tutti abbiamo il dovere di ricordare quanto la magistratura ha fatto per il nostro Paese e si è esposta per contrastare fenomeni che la restante parte delle Istituzioni ha ignorato o, in qualche caso, fatto finta di ignorare. O, in altri casi ancora più gravi, alimentato e protetto.»             

2 parte/continua

 

 

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LEGGI LA PRIMA PARTE: «Di Matteo: «Non abbiamo bisogno di una magistratura conformista»

 

TERZA ED ULTIMA PARTE: lunedì 3 maggio 2021

INTERVISTA ESCLUSIVA AL DOTTOR NINO DI MATTEO realizzata da Paolo De Chiara e Alessandra Ruffini

 

 

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