Ergastolo ostativo: «Quella sentenza sancisce un principio che realizza uno dei principali obiettivi della mafia stragista»

L’INTERVISTA AL MAGISTRATO NINO DI MATTEO/Terza ed ultima parte. «Mi è stato detto dal ministro, nell’invitarmi ad accettare un altro incarico, che non ci sarebbero stati dinieghi o mancati gradimenti che potevano bloccare la nomina. Dovrebbe essere l’ex ministro Bonafede ad avere la sensibilità istituzionale di spiegare chi avesse opposto dinieghi o dichiarato i mancati gradimenti. Non credo che lo abbia mai fatto.»

Ergastolo ostativo: «Quella sentenza sancisce un principio che realizza uno dei principali obiettivi della mafia stragista»

di Paolo De Chiara e Alessandra Ruffini

 

Roma (CSM). Con questa terza parte chiudiamo l’intervista con il magistrato siciliano Nino Di Matteo. Per motivi tecnici (legati ad una intensa attività di hackeraggio) siamo stati costretti a posticiparla di qualche giorno. Dopo aver affrontato il tema della magistratura italiana ed alcuni episodi legati alla Trattativa Stato-mafia, in questa ultima parte, abbiamo toccato il ruolo e l’impegno delle Istituzioni nel contrasto alle organizzazioni mafiose, senza dimenticare il passo indietro (ingiustificato e ingiustificabile) fatto dall’ex ministro Bonafede sulla questione della mancata nomina al DAP.

Dopo le rivolte carcerarie il Governo ha disposto alcune scarcerazioni anziché alzare il livello di sicurezza. Una resa da parte dello Stato?

«Il ritorno in libertà di molti mafiosi ha sicuramente non solo potuto provocare il rischio che questi mafiosi, in quel momento di libertà o agli arresti domiciliari, abbiano ricucito la tela dei loro rapporti di tipo criminale con l’esterno ma abbiano potuto recuperare, attraverso il ritorno in libertà anche per poco tempo, quel prestigio e quella autorevolezza mafiosa che si alimenta del mito della impunità. È stato, a mio avviso, un brutto segnale.

I detenuti, anche lo stragista più feroce, hanno diritto ad essere tutelati nell’integrità della loro

salute. Uno Stato, però, dovrebbe avere la piena consapevolezza di doversi attrezzare per far sì che questo diritto alla salute del detenuto venga tutelato al massimo, nella maniera più efficace, all’interno di strutture penitenziarie. Questo non è avvenuto e credo che quella sia stata una pagina poco edificante che ha dimostrato anche una scarsa consapevolezza del fatto che il sistema mafioso si alimenta, anche inconsapevolmente, con segnali. Quelle scarcerazioni disposte proprio dopo le rivolte avevano e, a mio avviso, conservano ancora un molto preoccupante sapore di resa.»               

 

Mancata nomina al Dap (l’ex ministro della giustizia Bonafede ancora non ha chiarito il suo comportamento relativo alle scelte fatte in quei mesi e alle pressioni ricevute), rivolte carcerarie, mafiosi rilasciati con la scusa dell’emergenza Covid, incostituzionalità del carcere ostativo, attacchi per indebolire la legge Rognoni-La Torre sulle misure di prevenzione. Tutto questo rientra in un quadro unitario o sono episodi gravissimi senza alcun legame tra di loro?

«Come ho ripetuto in più sedi anche istituzionali e, in particolare, quando sono stato udito dalla Commissione parlamentare antimafia, a me è stata fatta una proposta che nel giro di 24 ore, quando avevo accettato, è stata revocata. Mi è stato detto dal ministro, nell’invitarmi ad accettare un altro incarico, che non ci sarebbero stati dinieghi o mancati gradimenti che potevano bloccare la nomina.

Dovrebbe essere l’ex ministro Bonafede ad avere la sensibilità istituzionale di spiegare chi avesse opposto dinieghi o dichiarato i mancati gradimenti. Non credo che lo abbia mai fatto.»

 

Lei parlava di resa da parte dello Stato. Oggi esiste ancora una Trattativa Stato-mafia?

«Se avessi elementi in tal senso non potrei riferirli in una intervista. L’unica cosa che posso dire è che mi preoccupa il fatto che, rispetto alle richieste della Trattativa Stato-mafia dei primi anni Novanta, alcune oggettivamente sembrano essersi realizzate o sembrano in via di realizzazione.»              

Tornando alla mancata nomina al Dap cosa le ha dato più fastidio: la ricostruzione della vicenda o l’occasione persa da parte del Governo di attuare un contrasto reale alla mafia?

«La cosa che mi ha lasciato l’amaro in bocca è quella di essere stato destinatario di una chiarissima proposta e poi, nel momento in cui ero andato per accettarla, di constatare come il ministro avesse fatto marcia indietro. Tutto questo mi ha dato fastidio perché non sono stato io a cercare il ministro, non sono stato io a propormi. Un magistrato non deve mai cercare la politica per ottenere degli incarichi. Non ho cercato nessuno in quella occasione ma sono stato cercato. Questo è il profilo di amarezza unito a quell’ulteriore profilo di alcuni giudizi che hanno voluto far passare quella vicenda e quella interlocuzione come un malinteso.»   

 

Il magistrato Luca Tescaroli, qualche giorno fa, ha dichiarato: “Dopo quasi un quarantennio i sequestri e le confische di prevenzione sono divenute un presidio irrinunciabile, soprattutto oggi in una pandemia che ha generato un collasso dell’economia, terreno ideale per consentire l’ampliamento dell’infiltrazione mafiosa, l’appropriazione delle erogazioni pubbliche, il rischio dell’ingerenza nella gestione della salute. Tuttavia, in molti ne invocano l’incostituzionalità e si registra una deriva ipergarantista in seno alla magistratura, sempre più proiettata ad ancorare le manifestazioni di pericolosità sociale alle sentenze di condanna e alle contestazioni mosse nei procedimenti penali”. Lei condivide il pensiero del suo collega?

«Condivido in pieno il pensiero di Luca Tescaroli. Il suo è il giudizio di chi, dal 1992, conosce bene il fenomeno mafioso, la mentalità mafiosa, l’importanza dell’aggressione ai beni e al patrimonio dei mafiosi e conosce, purtroppo, l’antico vizio nel quale rischiamo di cadere sempre in Italia.

 

Quale?

«Cessata l’emergenza del sangue sulle strade degli attentati, della visibilità della violenza del fenomeno mafioso, si tende a tornare indietro rispetto agli enormi passi avanti che sono stati fatti anche sul sangue di tante persone. Non possiamo dimenticarci che quella normativa sulla confisca dei beni e sulle misure di prevenzione patrimoniali nasce sul sangue di Pio La Torre, sul sangue del generale Dalla Chiesa. Non possiamo dimenticare che la normativa che ha riguardato il sistema penitenziario, l’articolo 41 bis, l’articolo 4 bis e l’ergastolo ostativo, è frutto della visione di Giovanni Falcone. In gran parte venne perfezionata dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. È vero che non dobbiamo vivere sempre in una cultura repressiva emergenziale ma dimenticare quello che è accaduto e dimenticare quello che è il presupposto di alcune norme, come quelle sul sequestro e la confisca dei beni o come quella sull’ergastolo ostativo, rischia di non far comprendere il futuro. E di avviarci verso un futuro in cui le mafie possano nuovamente riespandere il loro potere.»       

 

Da quasi 30 anni lei vive sotto scorta. Durante un’intervista ha detto di non riuscire neanche a fare una passeggiata a Palermo. In questi anni è nata “Scorta civica”, un movimento spontaneo di cittadini che la seguono nei suoi spostamenti. Questo affetto, questa vicinanza civica, ripaga in parte dalla frustrazione per uno Stato che, troppo spesso, non si pone al fianco di chi fa il proprio lavoro?

«Sono convinto che il magistrato non debba cercare o, tantomeno, inseguire il consenso della gente. Però non posso nascondere che in certi momenti, anche i più difficili, le cose che mi hanno fatto più piacere sono state le manifestazioni, anche le più semplici, come una stretta di mano da parte di persone sconosciute. La cosa più gratificante non è il riconoscimento di un merito, ma la consapevolezza che, nonostante tutto, ci sono tanti semplici cittadini che continuano a vedere nella magistratura un punto di riferimento. Possiamo sbagliare, possiamo non calcolare bene la possibilità di giungere a determinati risultati processuali, ma non possiamo tradire le aspettative dei cittadini. In certi momenti la vicinanza delle persone è un momento per ricordare l'essenza del nostro ruolo.»

 

L’uccisione di Paolo Borsellino è legata alla Trattativa. Una strage di mafia con un peso decisivo da parte di alcuni rappresentati dello Stato. Pochi minuti dopo il massacro “qualcuno”, già presente nel luogo dell’eccidio, si preoccuperà di prelevare la borsa del magistrato dalla macchina in fiamme. L’Agenda Rossa è diventata “arma di ricatto” come sostiene Salvatore Borsellino?

«Ho ripetuto in più sedi istituzionali, anche e soprattutto in Commissione parlamentare antimafia, che il vero depistaggio parte un minuto dopo rispetto allo scoppio dell’esplosione di via D’Amelio e parte con la sottrazione dell’Agenda Rossa. Rimango convinto, sulla base di tutto quello che ho vissuto come investigatore e per quello che ho letto nelle sentenze successive, che l’Agenda Rossa sia stata trafugata dagli uomini delle Istituzioni. È da lì che bisognerebbe sempre ripartire e continuare a fare di tutto per capire chi abbia sottratto quella Agenda Rossa.»

 

Come si può spiegare quel furto?

«Si può spiegare soltanto con la paura che Paolo Borsellino avesse annotato qualcosa di cui era venuto a conoscenza e con la necessità di non far scoprire agli investigatori e ai magistrati che cosa avesse scoperto. Quale fattore, soprattutto nelle ultime settimane della sua vita, lo rendeva così preoccupato e così, per certi versi, angosciato.»       

 

Il tritolo era pronto anche per lei. Diversi piani sono stati realizzati per la sua eliminazione fisica. Molti ancora ricordano le minacce dal carcere di Totò Riina nei suoi confronti. La mafia ha dimenticato o attende il momento opportuno? Si sente tutelato da questo Stato?

«Non mi piace parlare di me stesso e della mia sicurezza. Dal 2013 fino ad oggi, nonostante in questo momento sia collocato fuori ruolo presso il CSM, gli organismi competenti mi hanno garantito il massimo livello di protezione.»

 

Pochissimi sono i detenuti nelle carceri condannati per corruzione: i colletti bianchi restano quasi sempre impuniti e questo determina un salvacondotto che favorisce le infiltrazioni della criminalità organizzata all’interno delle istituzioni e della pubblica amministrazione. È necessario modificare le leggi che puniscono i comportamenti scorretti di amministratori e dirigenti infedeli o basterebbe applicare la normativa vigente?

«Ho sempre creduto e sostenuto che lotta alla mafia e alla corruzione debbano camminare su piani distinti ma, in qualche modo, non distanti. Siccome il potere mafioso si nutre, quando è necessario, anche di metodi corruttivi non si può efficacemente contrastare un fenomeno se non si contrasta anche l’altro. Ancora sono veramente pochi i casi di definitiva condanna per fatti corruttivi che comportino poi la reale esecuzione di una pena detentiva. Però, rispetto a qualche anno fa, sono state approvate alcune leggi, come la “spazzacorrotti”. Sono stati fatti dei significativi passi in avanti che ancora non sono sufficienti. È chiaro che la lotta alla corruzione non si gioca soltanto sul piano dell’indagine giudiziaria e poliziesca ma si gioca, soprattutto, sul piano della prevenzione, sul piano del cambiamento di cultura politica. Sul piano giudiziario si gioca anche una celebrazione effettivamente rapida dei processi.»

    

Le mafie sono state istituzionalizzate con l’Unità d’Italia. I primi segnali risalgono ancora prima dell’ingresso di Garibaldi in Sicilia e, poi, in Campania. La questione è secolare. È immaginabile una loro fine?

«Non solo è immaginabile ma è anche l’obiettivo che dobbiamo tenere presente se vogliamo veramente progredire. Però credo molto che l’affermazione che fece Giovanni Falcone (“la mafia è un fenomeno umano come tale ha avuto un inizio e avrà una fine”) sia condivisibile. Dobbiamo avere quella consapevolezza che ancora manca e cioè che la fine si potrà intravedere soltanto quando l’azione antimafia non sarà affidata esclusivamente alla magistratura e alle forze di polizia ma entrerà nel DNA dell’agire politico dei governi nazionali, delle Istituzioni europee e sovranazionali in generale. Le mafie hanno avuto una grandissima capacità di adattare la loro condotta alla evoluzione dei tempi e anche alla entità e tipologia del contrasto. Se l’entità e la tipologia del contrasto diventa massiccia in Italia le mafie tenderanno a spostare altrove alcuni centri di interesse economico. Se non ci sarà, quindi, un adeguamento delle normative e delle professionalità, anche a livello sovranazionale, noi rischiamo di non arrivare mai a quel momento auspicato da Giovanni Falcone.»      

 

L’ergastolo ostativo è stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta, se ne dovrà occupare il Parlamento tra qui a un anno. Un ammorbidimento dell'ergastolo ostativo rischia di vanificare lo strumento dei pentiti e di indebolire la lotta alla mafia?

«Di fatto quella sentenza sancisce un principio che realizza uno dei principali obiettivi della mafia stragista. La fine dell’ergastolo inteso come fine pena mai e l’apertura di spiragli di libertà anche ai mafiosi, autori delle più efferate stragi, che non hanno collaborato con la giustizia. Credo, purtroppo, che molte delle teste pensanti delle organizzazioni mafiose, in questo momento, si sentano vicini alla realizzazione di un obiettivo importante. Sostanzialmente sta venendo meno quella differenza, quella forbice trattamentale, tra i mafiosi che collaborano e i cosiddetti irriducibili che, sicuramente, ha costituito da decenni una delle spinte fondamentali che ha indotto molti mafiosi a collaborare con la giustizia. Questa sentenza sull’ergastolo ostativo segna un passo indietro nella efficacia del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose.»

3 parte/fine

 

 

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