«Il Protocollo non tutela i lavoratori»

Secondo Bellavita, coordinatore nazionale Usb: «questo accordo autorizza le aziende a continuare a lavorare. Non ci sono provvedimenti drastici. Tutti si aspettavano la sospensione delle attività produttive, per almeno due settimane, per poter rispettare l’hashtag ipocrita del Governo».

«Il Protocollo non tutela i lavoratori»
Sergio Bellavita, coordinatore nazionale Usb

«È una vergogna». Non usa mezze misure il coordinatore nazionale dell’Unione sindacale di base (USB), settore industria, Sergio Bellavita, per descrivere il documento siglato dalle parti sociali con il Governo. Al centro della discussione c’è sempre la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Ma non solo. «Il Protocollo non interviene a creare le condizioni perché ci sia davvero il rispetto di quelli che sono, ormai, i protocolli per la sicurezza in questa fase. Ovvero: non uscire di casa, la distanza minima di un metro, evitare assembramenti in luoghi comuni. In realtà autorizza le imprese a continuare a lavorare, anche in alcuni modi che sono assolutamente discutibili».

 

Facciamo qualche esempio.

«Sulla questione della distanza viene introdotto il principio della deroga. A tutti i cittadini italiani viene detto di stare, almeno, a un metro di distanza ma ai lavoratori e alle lavoratrici nelle imprese si può derogare questo principio, salvo il fatto che devono indossare strumenti di protezione individuali, che come tutti sappiamo non esistono. La mascherina non serve a proteggere dalle infezioni, serve a ridurre il rischio di infettare gli altri. Ma, ovviamente, per poter lavorare in sicurezza bisognerebbe essere vestiti adeguatamente, come chi opera nelle sale di rianimazione. Il principio della deroga sul metro di distanza è veramente molto pesante ed è fatto ad hoc per le aziende che non hanno questa condizione, come ad esempio la Fiat, che non a caso ha chiuso tre stabilimenti proprio perché non era in grado di garantire il metro di distanza. Questo accordo la legittima a riaprire».

 

E la chiusura non è arrivata.

«Tutti si aspettavano, ovviamente, la sospensione delle attività produttive, per almeno due settimane, per poter rispettare l’hashtag ipocrita (#iorestoacasa, nda) del Governo, che non vale per tutti. Capisco coloro che devono curare le persone, la sanità, le farmacie e coloro che producono gli alimenti. Ovviamente non possono fermarsi, altrimenti la situazione diventa grave. Ma non capisco perché bisogna produrre le auto, mentre ci sono le concessionarie chiuse. In una fase in cui, a scacchiera, tutta l’Europa, addirittura il pianeta, è interessato all’emergenza. Francamente non si capisce la ratio di questa cosa. Non ci sono provvedimenti drastici. Una parte di imprese che non hanno fatto nulla, penso soprattutto alle piccole e alle piccolissime, si ritrovano adesso a dover rispettare questo decalogo. Le medie e grandi imprese erano già ben oltre le misure che Governo e sindacati hanno deciso».

 

Stiamo parlando di aziende che non producono beni di prima necessità?

«Assolutamente, oltretutto molte aziende hanno chiuso da tempo o stanno per chiudere. La Ducati di Bologna ha deciso la chiusura; la Brembo che fa ricambi ha deciso di chiudere. A Brescia la Lonati, che è una grande multinazionale di produzione di macchine per i calzifici, ha chiuso. Ha chiuso la Beretta, che produce armi. Con questo Protocollo si legittima a riaprire».

 

Di quanti lavoratori stiamo parlando?

«Qualche milione di lavoratori».

Chi controlla, all’interno delle aziende, l’attuazione e il rispetto del decalogo?

«Tutto è demandato, questo è l’altro punto di negatività dell’accordo, al rapporto tra la Rsu (rappresentanti sindacali di fabbrica, nda) e la direzione aziendale. Nella maggior parte delle imprese italiane non esiste la Rsu. La maggior parte delle imprese italiane sono di dimensione tale per cui non c’è una rappresentanza sindacale e, quindi, i lavoratori autonomamente dovrebbero battere i pugni sul tavolo e pretendere delle misure senza avere una rappresentanza sindacale».

 

Le Rsu, o il semplice lavoratore, sono adeguatamente formati per “battere i pugni sul tavolo”?

«No, assolutamente. Ma chi è preparato? Non è preparato nessuno, tranne quelli di mestiere che si occupano di malattie infettive. Il modello cinese è riuscito ad abbattere il numero di contagi bloccando tutto, sospendendo tutte le attività, non mettendo in campo delle cose così contraddittorie. Qual è la ratio nel chiudere i parchi pubblici e di impedire di fare anche una passeggiata, rimanendo dieci, venti, trenta metri di distanza da un’altra persona nei parchi grandi e, invece, obbligare la gente ad andare a lavorare. È di questo che stiamo parlando, di obbligo ad andare a lavorare. Per le aziende che sono aperte o vai a lavorare o sei malato. Oppure ti concedono le ferie, se le hai e se l’azienda te le concede. Stiamo parlando di un obbligo».

 

In questi giorni, in diverse aziende, le sigle sindacali hanno proclamato lo sciopero. Qual è la posizione del suo sindacato?

«Noi abbiamo proclamato da subito, a livello nazionale, un primo pacchetto di 32 ore in attesa delle decisioni del Governo. L’idea è quella di proseguire, non pensando ad una adesione di massa, ma consegnando ai lavoratori e lavoratrici la possibilità, se lo ritengono opportuno, di auto tutelarsi, visto che il Governo non ci ha pensato. In Emilia Romagna abbiamo proclamato due settimane di sciopero a oltranza».

 

Il Governo, in queste ore, sta affrontando la questione?

«No».

 

Cosa state chiedendo in questa fase?

«A livello aziendale stiamo spingendo per far cessare le attività».

 

E come stanno rispondendo alle vostre richieste?

«Adesso lo vedremo. Lunedì abbiamo la riapertura, abbiamo già inviato una serie di richieste. Vediamo se le aziende ci convocano. Il problema è che alcune grandi imprese erano andate persino oltre rispetto ai contenuti di quell’accordo, per cui si sentono legittimate a fare peggio. Ci sono aziende che hanno messo i lavoratori in libertà con la retribuzione piena e adesso, invece, sono legittimate a lavorare».

 

Era meglio non farlo quel Protocollo?

«Bisognava farlo diverso. Piuttosto che far quello sarebbe stato meglio non firmarlo, o meglio stabilire un decalogo minimo per le imprese che non avevano messo in campo nessuna procedura. Ma battere i pugni per una sospensione di due settimane, almeno fino al 25 marzo. Sospendere tutte le attività, per sanificare, per fare in modo che le aziende si attrezzassero in maniera adeguata, imporre una turnazione dei lavoratori che consente di ridurre il numero di coloro che, in contemporanea, stanno dentro gli stabilimenti. Questo riduce il rischio. Prevedere una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Molte aziende lo hanno fatto autonomamente. Sarebbe stato meglio fare un accordo diverso e non andare al di sotto di quello che molti luoghi di lavoro avevano già conquistato».                         

 

Lei, che ha il polso della situazione, si è fatto un’idea sulla “ratio” utilizzata per certe decisioni?

«La mia non è una bella opinione».

 

Possiamo conoscerla?

«Il mio giudizio è che il Governo abbia deciso per evitare un problema economico più ampio di quello che sarà già, inevitabilmente. Ben oltre il mezzo punto di Pil. Ci sono delle zone franche in questo Paese dalla prevenzione del coronavirus. Le fabbriche sono diventate una zona franca. Nelle fabbriche non valgono gli stessi principi di profilassi, di igiene e di sicurezza rispetto al coronavirus, che esistono nel resto del Paese. O è un rischio serio e drammatico e, quindi, si deve bloccare tutto, oppure non è così».

 

Possiamo dire che gli interessi economici vengono prima della salute dei lavoratori?

«In questo caso sì, è del tutto evidente».   

 

 

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