Ritratti/IN RICORDO DI FRANCIS COX, L’OSPITE DESIDERATO
Era nato a Londra nel 1916. E come se il fato avesse voluto indicarne – già nel prologo – rotte per nulla rassicuranti, “vide la luce” (forse un romanzo d’appendice?) l’ultimo giorno dell’anno. Quasi a definirne la “sospensione” innaturale che alberga nelle aree di confine; o a separare, precariamente, più mondi.

La prima volta rischiai di non incontrarlo. La sua passeggiata si era protratta oltre l’ordinaria temporalità. Usciva al mattino per le sue “escursioni cerebrali” fatte di pause dissacranti e generosi appostamenti. Osservava – con curiosità smisurata e bambinesca – il cielo e la collina, le rotte del ramarro e la pigrizia del sole nei giorni di maggio. Si trascinava lento per i sentieri ripidi misurando gli angoli del capo affinchè il parolare dei passeri venisse a lui sul treno di brezze celate.
Poi riprendeva il cammino leggero per cespi di spine su latitudini inconsapevoli. Era primavera, probabilmente. Lo testimoniano le foto di quel giorno, rubate forse presagendo il prologo di una conoscenza a venire. O, per ludico atteggiamento, nelle meridiane tracciate in quell’agora di pietra che sembrava invitare alla sosta – al ripensamento forse? - gli occasionali visitatori.
Francis Cox, ovvero Francis, approdato – novello Ulisse – su quest’isola verulana che fu degli Ernici un tempo. Quel giorno lo vidi risalire il viottolo-quasi-confidenziale e mentre le distanze rubavano spazio e tempo all’occhio, cominciai a conoscerlo, a intuirne lo spirito, a decifrarne le pieghe del volto o la leggerezza delle mani. Un vecchio dagli spigoli lividi – facevo finanche difficoltà ad immaginare la sua età quasi fosse stato, per lui, innaturale e anacronistico il conteggio dei giorni e degli anni – silenzioso, confinato, eppure sorpreso per quella visita inattesa, estranea. Nelle stanze precarie dalle volte in legno l’odore saggio del passato; quell’umore acre di favole riposte, di voci trascorse, di presenze mai ripudiate.
In quelle stanze che s’aprivano al sogno (e al segno) Francis ammassava le sue conoscenze millesimali, la decadenza dell’ombra pomeridiana, le pretese accecanti della luce grassa. Archiviando e catalogando i secondi che gonfiano l’ora, senza celare alcun commento, catturando le stravaganze del cadmio o le resistenze del verde. E lo faceva con la pittura, con il linguaggio scarno che distribuisce confessioni e semi di sogno, ipotesi di essenze e gesti. In quelle stanze Francis ammassava tele e disegni, immagini epifaniche, riflessioni, mutamenti di rotta, territori del proprio incedere.
Una sorta di universalità empirica supportata da infiniti micro mondi, ognuno dei quali preservava – intatto – il senso, più o meno sfuggente, dell’identità e della storia di questo artista. Come dire, un invaso dilazionato ed esteso in cui quella identità e quella storia reclamavano il ruolo di comune denominatore, pulsante, avido, vivo. Nel silenzio evidente della pietra, che faceva di quella casa – della sua casa – il crocevia secolare di infiniti intendimenti, Francis Cox, ovvero Francis, cominciò a far scorrere le sequenze del suo incedere…
Era nato a Londra nel 1916. E come se il fato avesse voluto indicarne – già nel prologo – rotte per nulla rassicuranti, “vide la luce” (forse un romanzo d’appendice?) l’ultimo giorno dell’anno. Quasi a definirne la “sospensione” innaturale che alberga nelle aree di confine; o a separare, precariamente, più mondi. Più vite. Ecco, forse Francis ha vissuto una temporalità segmentata, fatta di approdi e fughe repentine, di osservazioni oziose e di abbandoni necessari. Come spiegare altrimenti – nell’uomo – quel “girovagare” generoso per meridiani sconosciuti? Come leggere – nell’artista – le deviazioni conflittuali narrate sulla campitura? Anche l’infanzia appare segnata da una ragnatela di inevitabili e incessanti trasferimenti. A metà degli anni ’30, quando giunse a Parigi, aveva già provato il senso ineluttabile di una insoddisfazione latente, epidermica, intima.
Non erano bastate le rotte indiane o gli umori gelidi della grande isola a placarne l’animo. Parigi è il fuoco incessante per il giovin pittore e per coloro che l’avevano eletta patria di un’arte rinnovata e rinnovabile. Parigi è una casa comune dove ascoltare e sperimentare. Dove “navigare” in diretta all’interno di una storia – quella dell’arte contemporanea – tutta ancora da scrivere o intuire. Per Francis Parigi è soprattutto Cèzanne e Braque. In primo luogo Cèzanne. “…Durante un lungo periodo di pittura scura” scriverà in seguito Francis “il colore veniva usato limitatamente ad un vestito brillante o ad un tramonto in mezzo a marroni armonizzati. C’era bisogno della rivoluzione impressionistica, culminata con Cèzanne, per porre fine a ciò…”. E poi Braque. “Coon Carneval”, straordinario dipinto realizzato da Francis durante il soggiorno parigino, pur non essendo il replay concordato del lessico di Braque, a quello sembra ricondurre, per forme e sillogismi cromatici. Una intera generazione vive, protagonista, il sillabario di una nuova scrittura.
Ma la guerra – “che in oppressioni e morte ci diede” – sembra soffocare quegli occhi disabituati alle tenebre, quelle mani disposte a narrare il senso di una nuova poetica. Quando i primi segnali della “nuova ferocia” approdano in Europa, Francis è sorpreso, lacerato, ferito. Abbandona il suo rifugio sui Pirenei e intraprende un viaggio che sarà una sorta di catartica espiazione. Attraversa la Spagna e il Portogallo per giungere, stremato e gravemente malato, in Sudafrica. Ma l’Arte è anche una sorta di collante umorale, un “territorio dell’accoglienza”, l’epicentro di dialoghi mai interrotti o rifiutati.
A città del capo Francis è l’uomo venuto da Parigi, l’artista stravagante che porta con sé la sostanza e il divenire di un nuovo “presidio” linguistico. Saranno pertanto i nuovi amici, gli artisti sudafricani, a fare di Francis l’ospite desiderato. Rientrato in Inghilterra al termine della guerra la sua pittura appare consolidata sul piano di una proficua e necessaria evoluzione. “Le tre Grazie del 1947 rappresenta proprio” secondo il critico Claudio Crescentini, “il fil rouge compositivo (…) tra post-cubismo analitico e libera figurazione surrealista”. Una stagione questa che pare concludersi con un’opera, “Odysseus” (1950) nella quale marcati e indolenti appaiono i repéres alle formulazioni di Max Ernst. Ancora una pittura on the road quella londinese, con soggetti recuperati dalla codificazione quotidiana del vissuto, eppure onirica, visionaria, degenerante.
Ma lo spirito girovago di Francis sembra riaffermare il suo primato oltre ogni plausibile peace. Ecco allora l’artista rientrare a Parigi nel 1952 attratto forse da una ricordanza fatta di impeti e suoni non più riafferrati; custoditi forse in quella sacca della memoria trascinata per mari e per terre. Ma non basta il ricordo a ripristinare le coordinate e a riprendere la rotta. A Parigi espone al Salon d’Automne, alla Gallerie Charpentier, all’Haute-Pavé. Ma Parigi non è più il volano del mondo: dove sono i compagni di un tempo? Dove, i poeti e gli scrittori? Ora la casa di Francis è un vecchio bateau ancorato nel fiume di Parigi. Vi trascorre dieci anni. “Il fiume diviene il piano ideale per lo studio dei toni e delle simbiosi millenarie tra i grigi e i viola, tra il colore e il non colore (…) Francis ama soprattutto osservare-meditare-assorbire gli aspetti non solo prioritari della vita umana. Un’ora, un anno…” .
Nasce allora l’idea di codificare uno schema capace di attribuire ai toni – alle luci e alle ombre – una valenza empirica, addirittura matematica. Francis teorizza la sua Chromatic Keyboard affidando alle sovrapposizioni intime del colore la “regola” del suo nuovo commento pittorico. Francia, Corsica e infine l’Italia. Giunge a Veroli a metà degli anni ’70, sfinito da una vita combattuta ai margini, lontano dai compromessi, stanco e malato. Ma nella terra di Ciociaria, tra i declivi assolati e i suoni oziosi di vicoli secolari, Francis sembra colmare definitivamente quella sorta di innamoramento per i viaggi che ne aveva sostenuto e accompagnato l’incedere. Immagini di singolare quotidianità “edificate” nel segno complesso e rigoroso di ogni conoscenza trascorsa.
“…Ho perso qualche anno a collezionare materiale per le composizioni” scrisse alla fine “ed era veramente stancante correre nei ripidi vicoli del paese per cogliere la processione da nuovi e diversi angoli, spesso ingannato dai bambini che non sapevano quale strada prendeva la processione. Il problema qui era diversa da quello di un paesaggio, un ritratto o una natura morta: ogni cosa era in movimento, ma i colori erano costanti nel loro movimento, canalizzati nelle strade e nei vicoli…”. Per lungo tempo, nella seconda metà degli anni ’80, ho trascorso molti pomeriggi in compagnia di Francis e di Deborah, sua moglie, regalandomi abitudini e racconti così lontani dal mio incedere. Poi, il 29 maggio del 1992 Francis morì.