Faber, la voce degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi, dell’indignazione e della denuncia dell’ipocrita borghesia mafiosa e di classe

I video della cantata collettiva a Vasto nell’anniversario della morte di De André.

Faber, la voce degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi, dell’indignazione e della denuncia dell’ipocrita borghesia mafiosa e di classe

Fabrizio De André ci ha lasciato l’11 gennaio 1999.

Sono passati venticinque anni e continuano a fiorire omaggi, ricordi, il suo pensiero e le sue canzoni. Faber è vivo, le sue canzoni ancora oggi entrano nel cuore di milioni di persone di ogni età, sono conosciute e cantate da ragazze e ragazzi giovanissimi.

 

Il giorno dell’anniversario della morte in tutta Italia in decine di località ci si incontra per cantare, in maniera spontanea e auto-organizzata, le canzoni di De André. Quest’anno per la terza volta consecutiva anche a Vasto.

Una giovanissima coppia cullata dalla musica, un ragazzo giovanissimo rapito dalle note, professionisti affermati e persone ricche di tante primavere carichi d’entusiasmo. Tutti uniti nel cantare, conoscendole a memoria, le poesie in musica di Fabrizio De André.

 

Venticinque anni fa Faber, come lo soprannominò l’amico Paolo Villaggio, concluse la sua vita terrena. Sono passati cinque lustri ma Fabrizio De André non è mai scomparso, è più vivo e attuale che mai.  Le sue canzoni sono canzoni di oggi, le sue poesie viaggiano di bocca in bocca e non hanno bisogno di nessun giornale – parafrasando suoi celebri versi – e uniscono generazioni, vite, passioni. Gli amati da Faber, da lui raccontati in tantissime canzoni, sono quasi familiari, ancora oggi, e rivivono nelle milioni di persone che continuano a cantarle, a commuoversi, a lasciarsi rapire e cullare da note vibranti e potenti.

 

Il pomeriggio dell’11 gennaio sotto i portici di Piazza Rossetti spostandosi per la pioggia dall’iniziale location di Porta Catena, anche a Vasto si è ripetuta la tradizione della cantata collettiva in onore di Fabrizio Dé Andre.

Da bambino volevo guarire i ciliegi – Tributo a Fabrizio De André”, un omaggio collettivo, nella maniera più autentica possibile, che da venticinque anni unisce decine di località in tutta Italia, la terza volta che avviene anche a Vasto.

Un coro non di “vibrante protesta”, riprendendo un verso della “Domenica delle Salme”, ma di musica, canto, passione, di commozione e gratitudine per uno dei più grandi poeti della musica italiana. Faber ha segnato un’epoca ma, allo stesso tempo, supera ogni epoca. In un’intervista disse che era stato calcolato ci volessero oltre otto ore solo per cantare tutte le sue canzoni dedicate al più nobile dei sentimenti. 

 

 Faber ha cantato la voce di chi crede nella Pace e vuol opporsi alle guerre - tema quanto mai attuale – e dei senza voce che soffrono fino a cercare le morte nelle carceri – tema drammatico in un Paese che vede ogni anno decine e decine di suicidi nelle carceri – fino all’umanità più profonda di coloro che vengono emarginati, scartati, disprezzati dalla società. 

 

Faber, come lo soprannominò l’amico Paolo Villaggio, è da sempre considerato il migliore e più sensibile cantore degli ultimi, degli emarginati, degli impoveriti della società. E questa è una verità innegabile. Ma c’è una parte di verità sempre più nascosta e taciuta dai più: Fabrizio non si accontentava di raccontare che gli ultimi esistono e denunciava apertamente il perché.

 

L’emarginazione e l’impoverimento sociale non sono figli di un fato sconosciuto, di avversità ineluttabili. La radice prima di tutte le ingiustizie sociali è la prepotenza, l’ipocrisia, il dominio sociale. Viviamo ancora oggi, ancor di più di vent’anni fa, in una società in cui domina la ricerca del profitto ad ogni costo, dell’omologazione sociale utilizzata come strumento di dominio, di super ricchi che con violenza e prepotenza si impadroniscono di tutto. E per farlo costruiscono distrazioni di massa, sviano l’attenzione facendo credere che la minaccia sociale sia altrove, impongono modelli culturali ipocriti e moralisti per i quali i prepotenti possono tutto. Nascondendo il marcio con retoriche altisonanti e nobili richiami.

 

Don Raffaè è una canzone che non celebra un boss della camorra ma punta il dito su uno Stato che alla fine cede, fa affari e si allea con i peggiori potentati, dove vince l’ipocrisia di chi sfila di giorno e poi di notte realizza tutt’altro. Sono decenni che vediamo sfilate, cerimonie, omaggi, promesse elettorali, discorsi contro le mafie, le ingiustizie, la criminalità, la corruzione.

 

Ma la storia vera, quella che depistaggi, trame e intrallazzi cercano di nascondere, ci racconta ben altro. L’Italia del post terremoto in Irpinia e dello spiccare il volo della camorra negli appalti per poi, a partire dalla riunione tra camorristi, massoni, imprenditori e politici a Villa Ricca, prosperare sulle ecomafie.

 

Non è nulla di diverso dalla trattativa stato-mafia dei primi anni Novanta e delle tante altre trattative.  

 

Fabrizio De André raccontò in un’intervista che la canzone Don Raffaè è nata nel 1989. «La classe dirigente politica era intortata con quella economica», disse, «ed entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali». Una classe dirigente che viveva, e continua tuttora, ad esercitare la “politica” considerando i cittadini pacchi di voti per il potere, sui favori agli amici e agli amici degli amici. Favori per la ricerca di un lavoro o dell’agognata pensione, delle cure per un proprio caro o per avere un servizio pubblico.

 

La prepotenza, la violenza, l’avere come unico obiettivo della vita l’arricchimento e il dominio si scaricano su chi non ce la fa, su chi non è assimilabile alla cultura dominante, sui più poveri ed emarginati. Mentre la democrazia diventa una lotta tra clan per il dominio, in mano a potentati e cerchie sempre più ristrette, un’oligarchia. Anche qui le canzoni di De André sono illuminanti, a partire dalla Domenica delle Salme. «Una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più», trasformata in oligarchia.  Nelle canzoni di Fabrizio De André vengono irrisi, svelati, messi in piazza vizi e ipocrisie della borghesia. Gli stessi di allora e di oggi, gli stessi che condannano pubblicamente una ragazza che non rispetta certi “canoni morali” e poi di notte alimentano lo sfruttamento della prostituzione.

 

Un tema quanto mai attuale: sono oltre vent’anni che l’Italia è in vetta alla classifica mondiale per il turismo sessuale (anche pedofilo) e nei suoi confini la tratta della schiavitù sessuale è un mercato sempre in attivo.

 

Le mafie nigeriane e dell’est europeo, saldamente alleate con le organizzazioni criminali tradizionali, non a caso hanno trovato nello sfruttamento della prostituzione l’occasione per radicarsi e arricchirsi. L’emergenza umanitaria ucraina, come abbiamo ripetutamente documentato e denunciato nel silenzio di tanti, troppi, in Italia, ne è una delle più squallide e drammatiche conferme.

 

Nella relazione della Procura Nazionale Antimafia del 2017 c’è scritto che è necessario superare il concetto classico di ecomafia, non esistono criminali isolati che infettano un tessuto sociale “sano” ma di “deviazioni dal solco della legalità per puro e vile scopo utilitaristico”. I colletti bianchi, le multinazionali, gli imprenditori e una classe politica connivente e interessata, hanno costruito una vasta rete di economia illegale, sporca, che sfrutta e devasta l’ambiente e ogni possibile settore della vita pubblica. La borghesia sa essere criminale e mafiosa. Questa denuncia sociale è al centro di libri e studi di Umberto Santino sul “paradigma della complessità”: la mafia è un’organizzazione e un sistema di rapporti, intreccio tra crimine, accumulazione, potere, codice culturale e consenso sociale. Un’elaborazione che lo storico siciliano, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione Peppino Impastato, ha ripreso da Mario Mineo (esponente del gruppo de Il Manifesto di Palermo) – che analizzò e denunciò la borghesia capitalistico-mafiosa nata negli anni cinquanta – e dall’economista Leopoldo Franchetti in un’inchiesta del 1876.

 

Negli anni successivi all’Unità d’Italia Franchetti analizzò i “facinorosi della classe media” diventati “una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”.

 

Un sistema sociale che realizzava una vera e propria “industria della violenza” nella quale il capo mafia era il braccio armato al servizio dell’accumulazione del dominio e della subalternità di quei facinorosi, ovvero la borghesia dell’epoca. Subito dopo l’Unità d’Italia l’inchiesta di Franchetti svelò che la mafia non era una sorta di cancro estraneo ad una certa società, era invece la garanzia dello status quo, del privilegio e dell’arricchimento di alcuni.

Mentre i contadini, gli operai e i più poveri venivano sfruttati, repressi e anche assassinati.