Il carcere nega l’umanità della donna

VOCI DI DENTRO/ Una testimonianza che ha la forza di un macigno sullo stomaco, che spezza il fiato. E deve far riflettere profondamente.

Il carcere nega l’umanità della donna

Umanità. Calpestata, violata, negata. In queste settimane Voci Di Dentro ci ha accompagnato in un viaggio nelle carceri e con quest’umanità. Che reclama umanità, che avrebbe diritto ad umanità. A non veder negati i diritti fondamentali della persona, di essere – riprendendo la riflessione di Loriana Di Taranto nel nostro ultimo precedente articolo – considerate prima di tutto persone. Ma nel non-luogo che sono le carceri italiane, nel buco nero delle coscienze, nella discarica sociale (come l’abbiamo raccontata con Voci Di Dentro in un’intervista mesi fa) dell’emarginazione dietro le sbarre tutto questo non avviene.

In queste settimane Francesco Lo Piccolo, Loriana Di Taranto e Sefora Spinzo ci hanno raccontato, e condiviso con noi riflessioni, sul disagio in carcere, sulla negazione di cure fondamentali. Ci hanno raccontato vite tragicamente spezzate come quella di Eros Priore. È emersa la violenza istituzionale contro le donne, il perpetuarsi di logiche e imposizioni patriarcali. Ad una donna è doppiamente negata l’umanità in carcere.

Ne è testimonianza e dimostrazione una collaboratrice di Voci Di Dentro, una ragazza che non in questo viaggio abbiamo incontrato. Riportiamo pressoché integralmente le sue parole, è una testimonianza forte, importante, di cui la ringraziamo. Forte come un macigno sullo stomaco, che arriva dritta al cuore e spezza il fiato. Ed impone di riflettere profondamente e spezzare i pregiudizi e le «facili parole», fin troppo diffuse, di chi conosce poco o niente e male il mondo carcerario.

«Ho 34 anni, mamma di due bambini, moglie di un grande uomo. Durante il lockdown con altre detenute abbiamo cucito mascherine di stoffa e di altri materiali. Da lì è iniziata una collaborazione, abbiamo fatto mascherine anche per due comuni. Come sono uscita dal carcere ho contattato Francesco e ho chiesto se era possibile partecipare a Voci Di Dentro perché volevo continuare la collaborazione. Lavoro a tempo pieno e riesco a dedicare a Voci di Dentro solo il mio giorno libero.

In carcere non ero moglie, non ero donna, non ero niente, non ero nessuno. In carcere i primi periodi ero la “ragazza dei cessi”: essendo l’ultima arrivata mi toccava pulire i bagni anche sporchi di feci. In carcere o impari a sopravvivere o sei uno zombie e puoi andare avanti se ti impasticchi, se prendi le gocce, tre volte al giorno non bastano. Io mi sono ribellata a questo come mi sono ribellata al fatto di essere sottomessa dalle detenute più anziane. C’è questa filosofia, questo modo, questo crash test per vedere se sei veramente capace di sopravvivere. Un po’ come nella giungla. La cosa più brutta è che per ottenere qualsiasi cosa devi lottare, spesso ti dicono no anche se non hanno neanche letto la domandina. A me è stato rigettato tutto parecchie volte fin quando non parli con uno o un altro, non rompi le scatole a quell’altro, non preghi in ginocchio perché vuoi fare una telefonata extra perché tuo figlio o tua figlia ha la febbre. Sono tutte cose che ho vissuto personalmente. Come ho vissuto personalmente il giorno in cui mio marito mi ha detto “nostro figlio ha avuto un attacco epilettico” in cui le mie urla e le mie lacrime davano fastidio. Mi è stato detto “mamma mia, quanto urli, mi fai esplodere il timpano”. Mio figlio, il fatto che stesse male, non contava niente, come se non avesse avuto nessun tipo di valore. Io non ero nessuno  e quindi automaticamente non ero né mamma né moglie».