Il magistrato Ardita sul 41 bis

INTERVISTA/ 1^ parte. Sebastiano Ardita, membro del CSM, magistrato impegnato contro le mafie.

Il magistrato Ardita sul 41 bis
Sebastiano Ardita (profilo fb)

L’amministrazione della giustizia e la lotta alle mafie sono stati fronti caldissimi in questi mesi. E, come troppo spesso accade in Italia, si sono creati polveroni e bufere mediatiche che non hanno aiutato a comprendere e informare correttamente su quanto accaduto.

Si è creata una confusione alimentata dalla scarsa conoscenza di fatti e dinamiche da parte di «opinionisti» più o meno improvvisati o da voluti messaggi che sono stati fatti passare da altri interessati, per motivi politici o di fedeltà a padroni e padrini. Agnese Borsellino ha definito l’Italia un paese inamovibile «finché resterà un Paese di ricattati e ricattatori». E ricatti, contiguità, complicità ideologiche o di interesse appaiono dietro gli attacchi alla magistratura antimafia da parte di certi personaggi dalla dubbia credibilità o la cui disinvolta frequentazione di ambienti mafiosi e corrotti è acclarata e di settori politici dalle posizioni sconcertanti.

L’Italia è il paese della semplicità difficile a farsi, in cui i fatti vengono rimossi (per convenienza e malafede) in nome di presunti opinioni, in cui la linearità non sembra appartenere alla sfera pubblica mediatica, sociale e politica. Cercare di far affermare la linearità e semplicità dei fatti puri e semplici, restituire loro l’importanza e il peso che dovrebbero avere, è un atto rivoluzionario parafrasando Orwell.

Perché quest’atto rivoluzionario possa avvenire è necessario partire da chi vive concretamente certe dinamiche, da chi i fatti li conosce perché li documenta e s’impegna ogni giorno per cercare di cambiare il corso della società e migliorarlo. Non esiste altra strada.

Sebastiano Ardita è magistrato da quasi trent’anni, il suo impegno è iniziato come sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania per poi approdare alla Direzione Distrettuale Antimafia e per molti anni è stato direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il DAP.

Ardita è stato Procuratore aggiunto della Procura di Messina per poi essere nominato, nello stesso incarico, a Catania. Prima di essere eletto al Consiglio Superiore della Magistratura si è occupato, tra i suoi ultimi atti, di due delle più importanti operazioni contro i colletti bianchi catanesi. Quattro sono i libri che ha pubblicato negli ultimi nove anni: «Ricatto allo Stato – il 41bis, le stragi mafiose, la trattativa fra Cosa Nostra e le Istituzioni», «Catania bene – storia di un modello mafioso che è diventato dominante», «Giustizialisti – così la politica lega le mani alla magistratura» insieme a Pier Camillo Davigo e «Cosa Nostra S.p.A. – il patto economico tra criminalità organizzata e colletti bianchi». È quindi una voce importante ed autorevole per fare chiarezza e realizzare quell’atto rivoluzionario di verità e chiarezza a cui si è fatto riferimento.   

41bis, un tema dibattuto anche con motivazioni strumentali e improprie da parte di molti. Facciamo prima di tutto chiarezza, cosa stabilisce il 41bis, come è nato, perché è applicato ai mafiosi e quale la sua importanza?

«Il 41bis nacque dalla mente di Giovanni Falcone, divenne legge dopo l'eccidio di Capaci, ma sarebbe stato applicato solo dopo la strage di via D’Amelio in cui rimasero vittima Paolo Borsellino e la scorta. È la norma che - attraverso forme di isolamento con l’ambiente esterno - mira ad impedire che dal carcere i capi mafia continuino a comandare o ad interagire con le organizzazioni. Prima che esistesse, in sostanza, era possibile continuare a dirigere dal carcere i gruppi mafiosi; dopo la sua entrata in vigore le organizzazioni, divenute acefale, hanno subito certamente un indebolimento».

Ha titolato un suo libro, riferendosi proprio al 41bis, «Ricatto allo Stato». Dovrebbero essere vicende di conoscenza pubblica ma purtroppo sappiamo che sulle mafie indifferenza e silenzio sono molto presenti. Ci può raccontare il tema di quel libro e perché «ricatto allo Stato»?

«La reazione di cosa nostra al 41bis si concretizzò con le bombe di Roma, Firenze e Milano. Altre stragi in cui persero la vita semplici cittadini, strumenti di pressione che sostenevano obiettivi di ricatto. Quando lo Stato iniziò a fare sul serio finì tutto ed è iniziata una lenta strategia di inabissamento dell’organizzazione e di rimozione della memoria delle stragi finalizzata, tra le altre cose, a far sì che non sia più ritenuta scandalosa l’attenuazione delle misure di contrasto alla mafia. Qualcuno aderendo a questo progetto, ed altri magari del tutto in buona fede, si sono occupati di sostenere una attenuazione del regime 41bis ed il terreno sarebbe stato pronto ad accogliere queste innovazioni. È  quello che accade in questi giorni». 

Anche negli ultimi anni ci sono state istanze per la cancellazione del 41bis ai mafiosi e di reati come il «concorso esterno», quel ricatto secondo Lei potrebbe essere ancora in atto?

«Io non mi permetto di dire, non disponendo di elementi né di prove, che dietro alcune iniziative degli ultimi anni fino alle recenti rivolte carcerarie si sono concretizzati ricatti. Mi limito a registrare quale sia l’interesse di cosa nostra, quale la sua strategia degli ultimi anni, e mi preoccupo. E trovo altrettanto imprudente, se non altro, attaccare chi cerca di capire quali possano essere state le strategie concrete e gli interessi delle organizzazioni mafiose nelle vicende che riguardano il penitenziario. Non è più il tempo di censure preventive nei confronti di chi vuole scoprire fatti, né degli ostacoli alla ricerca della verità».

Si è creata molta confusione nelle scorse settimane su come si è potuti arrivare alle scarcerazioni dei boss tra decreto «cura italia», circolare del Dap e qualcuno ha anche tirato in ballo la vecchia «sfolla carceri» del 2010. Dal suo ruolo e per la sua conoscenza della realtà carceraria e della repressione delle mafie cosa è accaduto?

«E’ un discorso lungo. Il cura Italia escludeva i mafiosi dal beneficio, ma il presupposto della sua emissione era svuotare un po’ le carceri per il pericolo Covid. Questo pericolo di maggior diffusione del virus nelle carceri era però infondato come sarebbe stato agevole verificare guardando i dati statistici.  Ma per un effetto domino - amplificato da una improvvida circolare che imponeva a tutti gli istituti penitenziari di comunicare i nominativi dei detenuti con patologie a rischio Covid - ha finito per trasferirsi sui mafiosi. In ogni caso l’uscita dal carcere dei mafiosi è da imputare ad una debolezza del sistema penitenziario ascrivibile a scelte sbagliate di gestione negli ultimi anni».

Alcuni suoi colleghi come Catello Maresca e autorevoli giornalisti hanno definito queste scarcerazioni la cancellazione di 30 anni di lotte alle mafie e posto l'attenzione sui rischi che si correranno con la loro ritrovata libertà, per quanto limitata. Il suo autorevole parere su questo?

«Hanno ragione ad affermarlo. Ed il danno alla prevenzione ed al filtro delle comunicazioni con l’esterno, specie con riguardo ai 41bis, può ritenersi irreversibile».