8 MARZO SI’ … E POI?

Proprio ora che, in Italia come in Europa, molte donne hanno saputo conquistare ruoli e cariche, politiche ed istituzionali, apicali, tra l'altro in modo quasi sincronico, come se avessero da tempo un appuntamento con la storia, la quotidianità riflette invece, sempre più spesso, l'immagine di un (altro) universo femmine prostrato dalle necessità, leso nella propria dignità, e, purtroppo, sempre più frequentemente, tinto di rosso, proprio come il sangue delle donne vittime della violenza maschile.

8 MARZO SI’ … E POI?

Ripulito di quella patina gioiosa e festante che gli conferisce anche solo il giallo delle mimose con cui lo si colora in omaggio alle donne, mai come quest'anno l'8 marzo sembra riflettere tutte le contraddizioni ed i paradossi del nostro tempo e dimostrare, ancora una volta, quanto quell'uguaglianza sostanziale che troneggia quale principio cardine in molte Carte fondamentali, ed in primis nella nostra Costituzione, ad oggi, per tanta parte, non sia altro ancora che una mera aspirazione.

Per approfonddimenti: 

Tanti Auguri cara e bella Costituzione

Proprio ora che, in Italia come in Europa, molte donne hanno saputo conquistare ruoli e cariche, politiche ed istituzionali, apicali, tra l'altro in modo quasi sincronico, come se avessero da tempo un appuntamento con la storia, la quotidianità riflette invece, sempre più spesso, l'immagine di un (altro) universo femmine prostrato dalle necessità, leso nella propria dignità, e, purtroppo, sempre più frequentemente, tinto di rosso, proprio come il sangue delle donne vittime della violenza maschile.

Sarebbe certo ipocrita negare quanto renda tutte quante noi orgogliose la presenza di donne in scranni per il passato appannaggio assoluto del mondo maschile. Anzi, proprio questa colorazione femminile di spazi un tempo occupati quasi esclusivamente da uomini pare cancellare definitivamente ogni traccia di quell'ormai risalente immagine della donna che, in casa come nella società, per il passato, e comunque per moltissimi anni, l’ha relegata a ruoli marginali.

Elly Schlein, Giorgia Meloni, Roberta Metsola, Ursula von der Leyen: sono questi i nomi delle donne che, dalla segreteria del maggiore partito d’opposizione italiano alla presidenza della commissione europea, riflettono, a livello politico, la rivoluzione “in rosa” che va consumandosi nelle più importanti sedi decisionali. Ad esse, peraltro, per quel che concerne più da vicino il nostro Paese, possono certamente sommarsi i nomi di Silvana Sciarra, attuale Presidente della Corte costituzionale, ma anche quello di Margherita Cassano, che, scalando l’ordine magistratuale, un tempo addirittura inibito alle donne, è oggi primo Presidente della Corte di Cassazione. E, partendo di qui, sarebbe certo possibile fare menzione di tante altre donne che, in ambiti assolutamente diversi, hanno comunque consentito di declinare al femminile conquiste importanti. Si pensi, ad esempio, per limitare l’attenzione al solo ambito sportivo, alla ginnasta Sofia Raffaeli, capace di vincere la bellezza di cinque ori e un bronzo mondiali, dopo le quattro medaglie nella rassegna continentale; alle nuotatrici Benedetta Pilato, Simona Quadarella e Margherita Panziera, stelle ormai di prima grandezza nella disciplina del nuoto; ovvero ad Irma Testa, campionessa europea e argento mondiale, che guida l’ambiziosa pattuglia rosa del pugilato.

A quelli appena menzionati, tuttavia, la cronaca oppone tutta una serie di altri nomi: Simona Michelangeli, Rosa Alfieri, Viviana Michelucci, Sonia Solinas, Giulia Pivetta, Elena Del Pozzo, Nadia Zanatta, Alessandra Matteuzzi, Giuseppina Fumarola, Ilaria Maiorano, Paola Larocca, e Cinzia Luison. Forse meno noti dei primi, sono questi i nomi che la cronaca, questa volta non più politica o sportiva ma nera, indica come propri di alcune delle tante donne (complessivamente, cinquantotto) che, nel solo 2022, hanno trovato la morte per mano di un uomo. Il più delle volte, quello stesso uomo che diceva loro di amarle, e con loro condivideva la quotidianità.

A esse peraltro si sommano, senza purtroppo essere nominabili, in quanto confuse in una sorta di nebulosa che ne disperde la specificità dei tratti oltre che l’identità, tutte quelle donne che, nonostante i sacrifici fatti, l’impegno profuso e le energie spese, ancora oggi non riescono, specie in campo lavorativo, a tagliare gli stessi traguardi dei propri colleghi, in quanto ancora vittime di un sistema che le discrimina nelle mansioni così come nel trattamento retributivo, e, spesso, addirittura, ancora le espunge dal circuito produttivo in ragione degli ulteriori ruoli che le stesse rivestono in famiglia, quali mogli e quali madri. E qui i dati consegnatici dagli Istituti preposti alle rilevazioni sono impietosi.

Secondo il Rapporto di Save The Children sono l’anno passato, infatti, in Italia, il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni è risultata non occupata ed il 39,2% con due o più figli minori ha sottoscritto un contratto di lavoro part-time. Innumerevoli, poi, le donne con figli che sono state costrette a rassegnare le proprie dimissioni.

Il tutto, senza ignorare quanto avviene nel più vasto contesto internazionale, in cui la fame, la povertà ma soprattutto i molti focolai di guerra portano tutti noi, attraverso i media, ad incrociare il volto, e con esso la storia, di moltissime altre donne che, sotto una pioggia di bombe, fanno da scudo ai loro bambini, ovvero piangono i loro figli uccisi dalla guerra, ovvero ancora scappano per mettere in salvo l’infanzia ma lasciano il cuore nelle trincee accanto ai mariti. E spesso, allontanatisi da tali inferni, ne vivono altri, effetto di scelte politiche, che, irrigidite in un rimpallo continuo di responsabilità tra le diverse istituzioni coinvolte, spesso mancano di ogni senso di umanità, ignorando cosa siano i “diritti umani”.

Ed allora, mentre gli esempi fatti allargano la forbice che separa questi diversi mondi femminili, ad imporsi a tutti è solo un interrogativo: 8 marzo sì … e poi?

E poi, da domani, quali scelte, quali politiche, quali azioni saranno messe effettivamente in campo per colmare un gap assolutamente discriminatorio in punto di diritto ed inaccettabile in termini di umanità?

Certo, i problemi sono tanti, di diversa natura, e di differente portata. E non esiste alcuna formula magica in grado risolverli tutti quanti insieme ed all’istante.

È vero anche però che l’approccio agli stessi, o meglio una corretta scelta di metodo, prima ancora che di merito, è determinante nell’incanalare il dibattitto verso la ricerca di soluzioni a carattere strutturale.

Ma, proprio sotto tale profilo, la storia recente del nostro Paese consegna a chi sappia interpretarlo un dato che non sembra scorretto definire “sconcertante” e “sconfortante”. Lo strumento principe cui, infatti, all’interno dell’ordinamento, si è affidata la soluzione della “questione femminile” è quello penale.

Si pensi alla legge sul femminicidio (l. n. 119/2013), ma anche il più recente “codice rosso” (l. n. 69/2019), e, più in generale, a tutta la congerie degli altri provvedimenti adottati a tutela delle donne contro le diverse forme di violenza perpetrate a loro danno. All’esigenza di tutela e salvaguardia dei diritti e della libertà delle donne il legislatore italiano, insomma, ha ad oggi opposto una risposta di tipo essenzialmente repressivo e punitivo, che interviene, pertanto, ex post, a sanzionare tutte le condotte violative o comunque offensive di quegli stessi diritti e di quelle stesse libertà.

“Fu vera gloria”?

So di suscitare il dissenso di molte, specie delle femministe più accese, che, proprio in occasione dell’approvazione di tali provvedimenti, li hanno salutati come un significativo passo in avanti nella tutela della vita e dei diritti delle donne.

Tuttavia, il loro varo non sembra possa dirsi una “vittoria” di cui gloriarsi. Certamente, non è espressione di perizia giuridica.

Ugualmente, non è segno di una società civile.

Il ricorso diretto ed indiscriminato allo strumento penale, infatti, dimentica il concetto di pena come extrema ratio di tutela.

La necessità del suo utilizzo, invece, dimostrando il grado di “civiltà” di un Paese, evidenzia, in questo caso, il tratto di strada (per la verità, abbastanza lungo) ancora da percorrere ai fini di un’effettiva implementazione a livello sociale di quell’esigenza di rispetto e di tutela della donna, rispondente anzitutto ad un imperativo morale.

Soprattutto, però, nel suo complesso, l’approccio de quo, che pure sanziona severamente le violenze di ogni genere consumate a danno delle donne, manca completamente di centrare (e soprattutto di rimuovere) i fattori su cui queste stesse violenze si radicano e si perpetrano. E tali fattori sono anzitutto e soprattutto economici e sociali, ma anche culturali.

La mancanza di un adeguato titolo di studio, ed in primis della possibilità economica di conseguirlo, l’assenza di un lavoro ovvero di una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità dell’attività svolta, la carenza, in molti casi, di una rete sociale utile a consentire alla donna di conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari, e, di qui, la condizione di sostanziale subordinazione economica in cui questa vive: è questa la cornice entro cui, il più delle volte, attecchiscono e si alimentano le più diverse vessazioni ai danni della partner. Senza che, per quelle stesse ragioni, questa abbia la possibilità ed il coraggio di sottrarvisi.

Ecco allora che, per questa via, la questione femminile si atteggia primariamente e sostanzialmente come una problematica che, prima ancora di essere riparata per mezzo del ricorso alla repressione penale, deve essere ex ante affrontata attraverso l’attivazione, puntuale e continua, di politiche sociali di concreto sostegno alla donna madre lavoratrice. Ciò che occorre, insomma, è rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” che ne condizionano in negativo l’esistenza, e che di fatto impediscono loro l’effettiva partecipazione “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, e consentire con ciò il soddisfacimento di quegli obiettivi di uguaglianza sostanziale che, sommata a quella formale, completa la portata del principio egualitario, dando ad esso pienezza di contenuto.

Oggi come ieri, insomma, è l’inveramento di questo principio a rappresentare la vera grande sfida posta dalla questione femminile.

Certamente, in questa prospettiva, non è mancata in questi anni l’approvazione di talune importanti leggi che, dalla scuola al mondo del lavoro, hanno tentato di colmare i gap più marcati.

È però esperienza comune la loro non sempre brillante attuazione, così come sono ben noti i “tagli” che, interessando molte delle misure adottate in questa prospettiva, hanno di fatto infine confutato gli obiettivi originariamente perseguiti.

Ed invece, ridare centralità a queste politiche, soprattutto rimpinguando (anziché contraendo) i fondi ad esse destinate, è la sola ricetta che, se davvero rispettata, pare poter offrire risposte concrete ad un’esigenza effettiva ed incanalare la soluzione delle problematiche connesse alla condizione della donna oggi in una prospettiva strutturale.

Al contrario, considerarle espressive di certe formule ormai stantie, ad esse preferendo altro tipo di battaglie, come quelle che oggi si combattono circa l’uso del maschile ovvero del femminile nell’attribuzione di titoli, qualifiche e/o cariche, significa fondamentalmente non centrare l’obiettivo. E non perché l’uso di un certo linguaggio calibrato sul femminile non rappresenti un traguardo importante, ma perché esso si colloca alla fine di un percorso che, lungi dal potersi dire esaurito, è, ad oggi, ancora assai lungo, ma soprattutto molto tortuoso.

Franca Meola, avvocato e ricercatrice presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"