Alessio Lega e l’eterna attualità delle canzoni di De André

Intervista al cantautore Alessio Lega sul disco uscito di recente in cui, insieme a Guido Baldoni, ha riproposto alcune canzoni di Fabrizio De André.

Alessio Lega e l’eterna attualità delle canzoni di De André
la copertina del disco di Guido Baldoni e Alessio Lega dedicato alle canzoni di De André

«Alessio è un cantautore: racconta storie attraverso le canzoni e ha, a livello culturale e umano, grande formazione, è una persona dal mio punto di vista importante per questo paese e per la sua cultura», così Ascanio Celestini ha descritto il cantautore Alessio Lega che, nella sua ormai lunga vita musicale, intreccia da sempre l’impegno sociale e culturale più vario, dal sostegno a nobili cause sociali accanto a operai, movimenti sociali e solidali all’attenzione verso la storia di chi non ha mai piegato la testa e ha sempre creduto di poter cambiare questo mondo dal punto di vista degli sfruttati, dei deboli e di chi ha subìto le peggiori oppressioni e ingiustizie.  

Profondamente libertario e di animo anarchico, capace di riscoprire e reinterpretare magnificamente grandi cantautori impegnati, Alessio Lega, con il maestro fisarmonicista Guido Baldoni, ha dedicato un disco a Fabrizio De André. In quest’intervista abbiamo cercato di raccontare con lui questo disco con le canzoni di De André, il lavoro musicale da cui è nato e la visione della società a cui si ispira.  

Come è nato questo progetto? De André è probabilmente il cantante italiano di cui sono più diffusi i tentativi (più o meno riusciti) di omaggi, cover e altro, basati quasi sempre solo sull’aspetto musicale. Voi che invece avete con lui una comunanza libertaria come state vivendo quest’esperienza?

«Ci interessano più che l’ideologia dell’autore quella del testo, quando mi avvicino ad una canzone mi concentro più sul suo contenuto.  Non vi è dubbio che De André è stato fondamentale anche come enorme canale di scambio: degli autori noti è sicuramente il più politicizzato o comunque il più famoso tra i politicizzati, l’eccellenza assoluta dei suoi capolavori ha favorito un certo scambio tra i livelli musicali e politici, crocevia con la sua porosità (sul valore letterario, sullo sperimentalismo, è stato il più sperimentale dei classici e il più classico degli sperimentali) da persona sicuramente molto curiosa e capace di lavorare con altri. Da questo deriva il valore musicale e la sua capacità di rinnovarsi che gli vengono riconosciuti universalmente, sempre assolutamente riconoscibile e allo stesso tempo sempre diverso, dischi in alcuni casi anche invecchiati come arrangiamenti ma sempre ben costruiti e complessi sul piano della costruzione. Tutto questo permette di avere diversi piani su cui prenderlo, nel nostro lavoro che punta decisamente verso la sobrietà – solo voce e fisarmonica, un minimo sotto cui è impossibile andare – si è avuto così un bel modo di lavorare e trarre ispirazione anche su un piano di complessità, sia nella costruzione che nell’elaborazione».

Pochi giorni fa è arrivato al cinema il film sul concerto ritrovato di De André e la PFM, occasione nella quale è riemersa la ritrosia di Faber a farsi vedere in pubblico e ancor di più ad essere ripreso in video. De André era a disagio nel mondo borghese di provenienza anche della sua famiglia, si trovava benissimo solo nei vecchi vicoli di Genova, nel mondo degli invisibili e degli emarginati. Un’attenzione verso gli ultimi che ha riversato anche nelle sue canzoni, in quella ricerca da rabdomante di parole e note. Nella scelta delle canzoni per i capitoli del disco come le avete scelte e come questo mondo amato da Faber ha influito?

«Penso che non si esibisse nei concerti in pubblico per il banale motivo che era una persona molto timida, una timidezza particolare dovuta probabilmente all’ambiente borghese di provenienza da cui veniva la paura di potersi sentire ridicolo. Mentre anche in ambienti alto borghesi per esempio scrivere è accettato esibirsi, e quindi farsi pagare, appare quasi da questuante, una cosa da saltimbanco. Man mano che si è sviluppato il giro dei concerti e le richieste sono piovute è arrivato il momento di doversi esibire, certamente non stando a suo agio come si vede anche nel concerto ritrovato e proiettato al cinema nei giorni scorsi, dove è seduto ed avvolto in una nuvola di fumo, quasi nascosto. In quel concerto infatti si vede molto di più la PFM che aveva un approccio radicalmente diverso e più rock. Probabilmente per emergere davanti al pubblico è stato molto importante per Fabrizio De André trovare dei musicisti che avevano questo approccio ma che avessero allo stesso tempo un lavoro musicale tipico del gusto prog. Il nostro rapporto è completamente diverso, noi (faccio riferimento a me e Guido che con me ha realizzato questo disco) pensiamo che le canzoni di De André sono canzoni popolari, nel senso più alto del termine, malgrado il fatto che l’autore amava rivestirle ogni volta che poteva di un lavoro musicale estremamente complesso. Sono i canti di un cantastorie, nei suoi dischi sono straordinariamente ben fatte le storie e quindi si tengono benissimo e non si perde il senso della narrazione. Oggi si rischia rifacendo quegli arrangiamenti, anche con gran bravura ma senza la forza dell’autore che le interpreta, di perdere il senso narrativo e di banalizzarle. L’illuminazione nel mio caso è stato quando ho sentito dire a Matteo Salvini, che evidentemente ha poco in comune da un punto di vista ideologico con De André, che è il suo cantautore preferito: al di là degli aspetti direttamente musicali non si può affermare che il tuo preferito è chi canta esattamente l’opposto di quello che pensi. Questo mi ha portato a pensare che oggi affermare che De André ti piace porti ad avere consenso e così la stessa eredità di De André lo sconta con un affievolimento dei contenuti. Il nostro piccolo sforzo è stato quello di togliere tutti gli orpelli per tornare le storie ad esserlo, per questo siamo partiti dal rapporto da sempre dei blues man o dei cantastorie: il rapporto tra un uomo e uno strumento, nel nostro caso specifico visto il tipo di canzoni abbiamo tolto la chitarra (ovvero lo strumento più scontato) e usare un altro strumento di origine popolare cioè la fisarmonica. Riportando ad un solo strumento partiture molto più complesse grazie alla bravura e alla competenza di Guido. Tutto questo ci ha permesso di arrivare ad una sintesi che ha restituito il cantastorie, il poeta, il musicista e forse anche il ribelle».

L’album si apre con la canzone Il bombarolo che nella diversità della narrazione ha una comunanza con il capolavoro di Francesco Guccini La Locomotiva ovvero di correre il rischio di essere equivocata.  Un rischio che non sembra essersi realizzato ed entrambe pare sono passate nel senso comune per l’aspetto ribelle ad una società borghese, conformista, ipocrita evidenziandone le contraddizioni e il marcio che vi alberga. Nel bombarolo De André ha cercato di raccontare la sua ribellione e lontananza da quel mondo?

«Le due canzoni partono sicuramente da una prospettiva diversa: La Locomotiva di Guccini è il racconto rivisto da un cantastorie di un avvenimento storico reale mentre il bombarolo è una vicenda di pura invenzione all’interno di un disco fortemente metaforico, Storia di un impiegato. Sicuramente il bombarolo rappresenta un fallimento, non solo perché la bomba esplode in un chiosco di giornali e non dove era previsto, ma soprattutto come processo di ribellione. Un processo che fin quando rimane individuale abortisce, solo nel momento in cui l’autore si accorge di essere in una prigione che non può cambiare con un atto come quello del bombarolo ma solo con un accordo con gli altri prigionieri. Quella storia De André, profondamente anarchico, la scrisse con Bentivoglio che al contrario era marxista e fa incrociare gli influssi di entrambi e non può assolutamente essere considerata un inno ad atti di terrorismo, una parola che non mi piace anche perché in Italia lo Stato non è mai stato definito tale neanche quando suoi pezzi lo sono stati. Considerazione che nulla vuole togliere ovviamente a vicende controverse anche nei movimenti cosiddetti rivoluzionari. Al contrario la canzone sicuramente è un inno alla ribellione, ma senza dare nessuna indicazione sul come, che finisce malissimo e fallisce perché va a colpire un innocente».

Nel disco tra i tantissimi personaggi della discografia di De André ne avete dovuto scegliere solo alcuni. Ci puoi raccontare qualcosa di loro?

«Il disco è diviso in capitoli: i ribelli, i banditi, le principesse, i viaggiatori, gli uomini e gli dei. Una scelta effettuata perché volevamo riconoscere a De André la tendenza a strutturare gli stessi dischi come dei romanzi o dei racconti coerenti e quindi volevamo che le canzoni si legassero in un discorso. Nella nostra idea i ribelli sono coloro che, appunto, si ribellano individualmente come Piero che è un ribelle molto nobile alla logica della guerra pagandola con la vita. I banditi sono coloro che si ribellano da un punto di vista collettivo, come i ragazzi del maggio o il bombarolo nel momento in cui si è riconosciuto prigioniero insieme agli altri nella canzone Nella mia ora di libertà. Le principesse sono le figure femminili sottoposte ad una società patriarcale e ad una condizione subalterna a cui si ribellano: Bocca di Rosa si ribella praticando la sessualità a suo modo, Princesa si ribella al sesso in cui si sente chiusa. I banditi sono i ragazzi del 77 in una canzone sicuramente ambigua che non prende esplicitamente posizione – Coda di Lupo – e per l’altissimo senso metaforico, una narrazione come in un sogno. Gli uomini rappresentano il passaggio attraverso la sofferenza umana da cui potrebbero nascere forme di solidarietà. Gli dei sono un omaggio a quello che è il suo disco più bello, la Buona Novella ispirata ai vangeli apocrifi con una visione di un Cristo a cui è tolto ogni ruolo di deo e promosso al ruolo di uomo, i viaggiatori sono un accenno agli zingari e ai marinai, a chi viaggia per mestiere o per una sorta di maledizione o di indole a cui non può sottrarsi. Gli zingari, senza farne un mito, sono sicuramente tra i gruppi più odiati universalmente e sicuramente in Italia occupano ancora uno degli scalini più bassi della società».

Sull’odio cavalcato a livello sociale e che ha fatto le fortune anche politiche di alcuni, va sempre ricordato che gli stessi che lo cavalcano si spartiscono potere, affari e pacchetti di voti con clan come i Casamonica e i Di Silvio. Una scelta sociale nella quale, come sempre, sono i più poveri quelli che danno fastidio, da colpire mentre i ricchi e potenti (anche mafiosi) sono utili ed alleati. De André ha raccontato la società in cui è vissuto, i ribelli e gli emarginati. Oltre vent’anni dopo la sua morte e con la società che ha subìto forti cambiamenti quegli stessi personaggi, quelle contraddizioni e quelle ingiustizie potrebbero essere ancora raccontate partendo dalla visione e dalla poetica musicale di Fabrizio De André?

«La risposta non può che essere affermativa, è il motivo per cui abbiamo fatto questo disco: ovviamente non possiamo chiedere ad una persona morta da oltre vent’anni di prendere posizione rispetto all’attualità ma in misura diversa possiamo ragionare sugli elementi di continuità che esistono così come ancora oggi abbiamo i barattieri descritti da Dante (da cui ci separano secoli) nella Divina Commedia. Nei lustri che ci separano dalla morte di De André la società è molto cambiata, soprattutto nelle relazioni umane e nella loro velocità: in quegli anni per esempio nessuno avrebbe detto in maniera esplicita, al massimo avrebbe sussurrato a pochi, di essere razzista. Nondimeno una serie di temi legati agli emarginati, agli invisibili e ai discriminati – la sua vicinanza a loro ancora ci illumina - rimangono assolutamente contemporanei così come alcuni valori restano eterni come la solidarietà, la ribellione all’arroganza e all’egoismo. Magari togliendogli un po’ di polvere non tanto per il tempo passato ma della celebrazione fine a se stessa».