«Questo Paese è inamovibile finché resterà un Paese di ricattati e ricattatori»

TERZA PARTE. Prosegue la nostra intervista a Sandra Amurri sulle nomine al Dap, Nino Di Matteo sul parallelismo storico con il pool antimafia di Palermo e sulle conversazioni intercettate di Luca Palamara.

«Questo Paese è inamovibile finché resterà un Paese di ricattati e ricattatori»
Sandra Amurri: fonte: profilo facebook

«La storia si ripete sempre due volte» è una delle frasi più conosciute di MarxGramsci, un secolo fa, ammonì che «la storia insegna ma non ha scolari». Le vicende italiane, gli intrighi, le trame e gli intrecci  indicibili, sembrano apparire la perfetta realizzazione delle frasi profetiche che abbiamo riportato. Non è compito nostro giudicare se, completando la frase di Marx, la prima volta è una tragedia e la seconda una farsa: cerchiamo solo di documentare, approfondire e raccontare i fatti.

I terremoti che stanno investendo la giustizia in Italia, dall’amministrazione penitenziaria a quello che è stanno definito «sistema Palamara», sono tra i più importanti fatti di questi mesi su cui è doveroso svolgere questo compito.

Prosegue la nostra intervista a Sandra Amurri, esperta giornalista, oggi inviata de Il Fatto Quotidiano. Nei primi due articoli pubblicati abbiamo ricostruito quanto accaduto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e sulla nomina mancata a Nino Di Matteo, eventi che riportano alla mente le decisioni del Csm e le polemiche mediatiche contro Giovanni Falcone. Proseguendo la nostra conversazione con Sandra Amurri, non potevamo che ripartire da questi parallelismi storici.   

È  possibile un parallelo storico dai tempi di Falcone a oltre dieci anni contro De Magistris, Ingroia e altri pochi magistrati indipendenti? Il Csm che oggi si scopre essere più sensibile ad influenze politiche e di potere che ad altro è lo stesso ambiente che cercò di fermare le loro inchieste scomode?

«Certo, hanno pagato tutti perché questo è un Paese che non vuole la verità. Possiamo citare una delle ultime interviste di Agnese Borsellino, prima della sua morte, in cui mi disse «questo Paese è inamovibile finché resterà un Paese di ricattati e ricattatori»: potrà apparire un paradosso ma l’abbino a quella che mi disse Antonietta Bagarella (la moglie di Totò Riina), non in tono di sfida ma perché voleva offrirmi uno strumento, «lei con il tempo capirà che non siamo i peggiori». Una frase che mi è tornata in mente in tante occasioni: la lotta alla mafia la si porta prevalentemente arrestando e condannando i latitanti, ma deve essere condotta spezzando quel patto enorme, forte, indissolubile che c’è tra la mafia e parti delle istituzioni e del potere politico-economico.

Quando Bagarella mi disse quella frase intendeva che i mafiosi in qualche maniera pagano e sappiamo chi sono, gli altri no ed esercitano il potere da uomini liberi. Abbiamo visto nei processi per la trattativa e sulle stragi una sfilza di non ricordo, non so, su uomini che è impossibile non ricordare: come può uno come Mancino affermare che non sapeva chi fosse Paolo Borsellino. Oltre il piano giudiziario c’è un piano civile. Abbiamo visto persone che sono state stretti collaboratori di Falcone e Borsellino che hanno ricordato dopo vent’anni episodi cruciali. Dopo le stragi sono fiorite le carriere di molti e le carriere si fanno perché si tace.      

Parlando di carriere non si può che pensare a quel che sta emergendo dalla pubblicazione delle conversazioni di Palamara, quale la dimensione di quello che è stato definito anche «sistema Palamara»?

Palamara era sicuramente l’apice, colui che teneva le fila e coordinava tutti – dalle chat che vediamo praticamente non faceva altro perché tra le partite, sistemare questo o quello e altro non so quanto tempo gli rimanesse o dedicasse per esempio alla famiglia, che pure ha – ma non è questo il punto. Diverse sono le domande che mi sorgono leggendo quelle chat ma una è questa: noi cittadini quale certezza abbiamo dopo aver appreso tutto questo che quelle nomine pilotate e decise a tavolino non hanno influito sulle inchieste? Quale affidabilità può dare un pm che accusa ed è stato definito da un altro magistrato «squilibrata»?   

Sempre nella trasmissione di Giletti è emerso che Basentini aveva portato, come se fossimo in una corsa di cavalli, il procuratore di Locri, colui che aveva chiesto l’arresto di Mimmo Lucano. Venne invece nominato Francesco Curcio – magistrato di grande valore – Palamara rispondendo alla direttrice del dipartimento generale del Dap alla domanda su chi fosse Basentini scrisse «è uno dei nostri». Cugino di Speranza e messo lì grazie a colui che diventerà il vicecapo di gabinetto del Ministro, Leonardo Pucci, che ha questo rapporto con Basentini perché è stato giudice del lavoro a Potenza e alcune cronache raccontano che sarebbe stato suo testimone di nozze e che Bonafede sarebbe stato padrino di battesimo del figlio. Circostanza che ha avuto una smentita, ma quel che sembrava un nome cacciato dal cappello di un prestigiatore appare invece avere una logica. Questo è quello che accade. Il procuratore di Locri Luigi D’Alessio, che ha chiesto l’arresto di Mimmo Lucano, e sappiamo come è finita quella vicenda, è stato anche il magistrato dell’inchiesta sull’assassinio di Elisa Claps, la giovanissima ragazza di Potenza scomparsa e ritrovata dopo molti anni sotto il tetto della chiesa principale di Potenza».

All'inizio di giugno il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del TAR della Calabria che tredici mesi fa aveva annullato il provvedimento con cui il ministero dell'interno, allora guidato da Matteo Salvini, aveva escluso Riace dal circuito degli Sprar e definito il «modello Riace» di Domenico Lucano «assolutamente encomiabile negli intenti e anche negli esiti del processo di integrazione» come «traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti». Nell'aprile dell'anno scorso, disponendo il rinvio a giudizio di Mimmo Lucano rigettando però ben 7 delle ipotesi di reato, il gip del Tribunale di Locri Amelia Monteleone ha affermato che buona parte dell'indagine era basata su congetture, errori procedurali e inesattezze: le ipotesi della Procura sono così «vaghe e generiche» da rendere il capo d'imputazione «inidoneo a rappresentare una contestazione» e sulle intercettazioni gli inquirenti «sembrano incorsi in un errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell'assunto accusatorio».

Tornando alle logiche che dominavano al CSM proseguendo nell'intervista ...

«Di Matteo non è iscritto a nessuna corrente, questo significa essere libero e non rientrare in quelle logiche spartitorie. In quel sistema le correnti c’erano tutti, Sirignano della procura nazionale antimafia puntava sul cavallo Gigliotti, membro laico del Csm in quota 5 Stelle, perché diventasse vice presidente al posto di Ermini. Quindi non è vero che nella logica spartitoria il movimento 5 stelle era fuori, in un’altra chat Palamara scrive «lì è Di Battista quello che fa le nomine».

Il movimento 5 stelle è entrato a piè pari nel potere e fa le spartizioni come tutti come dimostrano le nomine per le società partecipate: all’Eni è stato rinominato Descalzi, dopo tutta la battaglia che avevano portato avanti contro di lui. Quella che molti avevano visto come un’opportunità per rendere questo sistema non più inamovibile è diventato parte del sistema stesso. Per questo nessuno ha detto mezza parola, compreso Di Battista, davanti alla vicenda Di Matteo in sua difesa. Anche la questione che se si dimette un ministro cade il governo non sta scritto da nessuna parte. Se non in una logica ricattatoria: se fate dimettere il nostro ministro noi vi togliamo la fiducia. Che poi, era tutto da vedere se sarebbero andati a casa».     

Un punto di chiarezza sugli Affari Generali, il ruolo non era libero e alcuni riportano che non sia più lo stesso dei tempi di Falcone. Può chiarirci questi aspetti?

«Bonafede ha poi affermato che voleva Di Matteo vicino a lui e nel ruolo che fu di Falcone. A me francamente appare una motivazione quantomeno ridicola. Giovanni Falcone ricoprì quel ruolo agli Affari Penali in attesa di poter andare alla superprocura, non ancora istituita in quel momento. È ovvio che quell’ufficio con Falcone aveva un certo ruolo e poi l’ha perso negli anni ma nel discorso di Bonafede siamo sempre alla questione delle bandierine e delle icone. Non basta citare il nome di Falcone per essere legittimato, la memoria di Falcone e Borsellino la si può citare solo se si prova a vivere secondo i loro valori, altrimenti è meglio non nominarli.

Il ruolo non era libero ma era occupato dalla Donati,  e Bonafede disse a Di Matteo che avrebbe convinto la Donati a lasciarlo con la «moral suasion». Invece ci aveva già provato e la Donati aveva già risposto che non pensava minimamente di andarsene: per poterla rimuovere lui Bonafede avrebbe dovuto strapagarla. Di Matteo aveva rifiutato gli Affari Generali, non era certo una persona che avesse bisogno di una poltrona, avrebbe accettato solo un incarico dove avrebbe potuto dare il suo contributo e non un incarico qualunque. Non dovremmo essere in una sorta di mercato dove scegliere tra mele e pere, eppure stiamo praticamente in questi termini».