ANTEPRIMA DI UN ATTENTATO?
«A 29 anni dalla strage di Capaci ho quasi la certezza che questa maledetta trattativa tra le parti peggiori dello Stato italiano e la mafia, sia ancora in corso.»

19 luglio 1989, in un piccolo campo di calcio a 700 metri dal nuovo carcere di Vasto (Ch), atterra un elicottero proveniente dal centro della Polizia di Stato di Pratica di Mare vicino Roma. Da quell’elicottero scende il giudice Giovanni Falcone che, trasferito su un’auto blindata, entra subito nel carcere di Vasto.
Giovanni Falcone in gran segreto da Palermo arriva nella cittadina adriatica per interrogare il cugino di Totuccio Contorno, Gaetano Grado.
Gaetano Grado detto “Tanino” uomo d’onore della famiglia dell’”Acqua Santa”, sodale di suo cugino Totuccio Contorno e di Stefano Bontade, terzo di cinque figli, arrestato il 26 maggio sempre del 1989 nella sua villa di San Nicola l’Arena a Palermo. Lo stesso Gaetano Grado dichiara subito dopo l’arresto agli inquirenti: “fatemi solo un favore, non portatemi all’Ucciardone perché là mi ammazzano come un cane rabbioso”.
Viene accontentato ed inviato nella “casa lavoro con sezione circondariale di Vasto”, dove rimase per anni, per poi essere trasferito nel super carcere dell’Aquila. Un uomo d’onore molto rispettato dai suoi “picciotti”, in contrapposizione con i “corleonesi” e alleato con gli ‘ndranghetisti, dopo 10 anni(1999) si pentirà per poi collaborare con il PM Michele Prestipino.
Il 18 luglio del 1989 alla direzione del carcere di Vasto, arriva una telefonata anonima, con una palese intimidazione: “domani serviremo un caffè con l’esplosivo”.
Memori del tentato attentato alla villa all’Addaura meno di un mese prima (21 giugno 1989), al giudice Falcone viene innalzato il livello di sicurezza, e nonostante la comunicazione del Direttore del carcere allo stesso Falcone, l’incontro con Gaetano Grado avviene comunque per non più di mezz’ora.
Alle 6 del mattino del 19 luglio 1989 una pattuglia della GdF in perlustrazione attorno al carcere, nota un’auto sospetta vicino ad un casolare. La stessa auto alla vista dei militari si dilegua velocemente. I “finanzieri” entrano nel casolare, ed in una nicchia rinvengono una busta di plastica con una vera e propria “santabarbara”. Duecentocinque cartucce per carabine di precisione, undici cartucce calibro 12 caricate “a lupara”, cartucce “dum dum” con proiettili esplosivi, una pistola lanciarazzi tipo “veri” da un pollice con due razzi segnalatori appartenenti ad un’altra pistola che però non fu mai trovata, in sostanza tutto il necessario per un eventuale assalto o atto terroristico.
Tali quantità di armi ed esplosivo fanno sicuramente riflettere, se poi ci si aggiunge l’esplosivo rinvenuto alla villa di Falcone all’Addaura un mese prima, le minacce telefoniche alla direzione del carcere di Vasto il giorno prima, tutto ciò non può che far pensare ad un nuovo e forse mal organizzato o non riuscito attentato al giudice Falcone.
L’ANSA otto giorni dopo (27 luglio 1989), fa sette lanci dove descrive in sequenza quello che potrebbe apparire come l’anteprima di un attentato, che fino a quel momento nessuno aveva divulgato.
Il giudice Falcone alla richiesta dei giornalisti di un commento, probabilmente memore delle polemiche di un mese prima sulle “menti raffinatissime”, replica con un semplice: “superfluo ogni commento”.
Quello che si racconta in questi lanci di agenzia, può far pensare ad un attentato almeno per la qualità e la quantità delle armi da guerra rinvenute, ma pubblicamente gli inquirenti ai giornalisti dell’agenzia ANSA, non danno altri spunti per arricchire la certezza che quei fatti, riconducano all’ipotesi di uccidere il giudice Falcone con tre anni di anticipo.
Meno di un mese prima Giovanni Falcone fu coinvolto in un attentato non riuscito nella sua villa all’Addaura, insieme alla collega svizzera Carla Del Ponte e un altro collega elvetico. Quell’attentato fu sventato dagli agenti di Polizia Nino Agostino ucciso neppure 17 giorni dopo (5 agosto 1989) ed Emanuele Piazza ammazzato l’anno successivo (16 marzo 1990).
Fa specie che oltre l’agenzia ANSA e un piccolo trafiletto de La Stampa di Torino, sul web non si trovi notizia di questo inquietante accadimento, e che nella storiografia dell’antimafia nessuno abbia mai fatto riferimento a questa ipotesi di attentato nei pressi del carcere di Vasto al Dott. Falcone.
L’unico giornalista che ha citato l’articolo de “La Stampa” fu Alessio Di Florio (https://www.peacelink.it/abruzzo/a/46828.html), riportando la foto dello stesso articolo, ma senza avere i particolari che oggi ho raccontato in questo documento.
Non so quale possa essere la verità e quali possano essere le ipotesi, ma trovo francamente strano che di questa notizia uscita in un momento molto delicato della vita di Giovanni Falcone, nessuno ne parli, benché meno nulla si è saputo sulla eventualità di una chiusura delle indagini o su cosa poi la GdF o altre forze di Polizia, hanno scoperto relativamente all’auto che frettolosamente si allontanò dal casolare, e soprattutto se quelle armi fossero davvero per un attentato mancato quel giorno, magari solo da riprogrammare alla successiva visita del giudice Falcone sempre nel carcere di Vasto.
Tre anni dopo, il 23 maggio del 1992 alle 17 e 58 minuti, Giovanni Falcone sua moglie Francesca Morvillo e 3 dei 4 uomini della sua scorta morirono in un clamoroso attentato, dove furono usati 15 quintali di esplosivo(fonti Polizia di Stato), disintegrando un tratto di autostrada.
Nei mesi successivi si cercò di verificare da dove fosse arrivato tutto quell’esplosivo, ipotizzando il furto in qualche deposito di armi. A Chieti viene incaricato un poliziotto con esperienza sulla lotta al terrorismo e alla “banda della Magliana” nel servizio svolto nella Questura di Roma.
A questo poliziotto viene dato il compito di fare ispezioni in tutta la Provincia di Chieti, ed in modo particolare in una fabbrica. All’uscita della stessa, dopo aver sequestrato una fattura che sarebbe dovuta arrivare alla Procura di Vasto, viene fermato dai carabinieri. La fattura viene sequestrata a sua volta dai militari, e della stessa fattura da quel giorno si perderà ogni traccia.
Le “menti raffinatissime” probabilmente erano in servizio permanente effettivo anche in Abruzzo, ed in modo particolare in quel territorio vastese, luogo da sempre di rifugio di latitanti, o addirittura residenti come il figlio di Riina, parte integrante per anni del tessuto sociale di Casalbordino e Vasto.
A 29 anni dalla strage di Capaci ho quasi la certezza che questa maledetta trattativa tra le parti peggiori dello Stato italiano e la mafia, sia ancora in corso. Un esempio per tutti, questa battaglia per eliminare l’ergastolo ostativo, fulcro delle richieste sul “papello” di Riina al generale Mori e al colonnello De Donno, interlocutori ancora non si sa a nome di quale “Stato”, con la criminalità organizzata.
Massimiliano Di Pillo