Coronavirus: parla lo psicologo Mignacca

Per lo specialista: «Uno dei primi grandi problemi della società attuale, soprattutto quella occidentale, è la paura del contagio, che fino ad oggi si sintomatizzava nella paura del diverso, dell'estraneo al gruppo, dell’emigrante. Manca la consapevolezza del pericolo nonostante i chiari avvertimenti. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno di rimozione collettiva. I veri effetti della reclusione li vedremo solo quando l’emergenza finirà».

Coronavirus: parla lo psicologo Mignacca
Image by mohamed Hassan from Pixabay

Inutile andare per il sottile: i veri effetti della reclusione forzata che si vive al tempo del Coronavirus li vedremo solo quando l’emergenza finirà. Il centro del problema è la cosiddetta reazione di gruppo che è scientificamente provato, ha dei connotati assai diversi da quelli individuali. La cosiddetta coscienza di un gruppo non risponde ai pensieri ne alle volontà dei singoli appartenenti ad esso, ma si conforma come una mente a se stante, con un pensiero e con sentimenti precisi.

 

La diffusione del coronavirus modificherà in senso stabile i comportamenti del gruppo sociale con una ricaduta su ogni individuo. Ognuno infatti, dovrà scontare la sua “fetta” del trauma collettivo che stiamo vivendo. Uno dei primi grandi problemi della società attuale, soprattutto quella occidentale, è la paura del contagio, che fino ad oggi si sintomatizzava nella paura del diverso, del estraneo al gruppo, dell’emigrante. Il problema principale, più discusso e controverso, fino ad ora, in Italia era la gestione dei flussi migratori.

Gli emigranti sembravano coloro che dovevano attentare ad una presunta purezza nazionale, alle caratteristiche che rendono gli italiani tali. Un falso problema, ma a livello d’opinione pubblica, in vaste aree della popolazione, il centro del dibattito era la necessità di mantenersi puri. Il “diverso da se” è sempre un concentrato di stereotipi omogenei e la sua caratteristica principale è quella di invadere un presunto suolo nazionale.

 

Sembra quasi che sotto ci sia una paura di essere invasi, contagiati, appunto, resi diversi da quello che si è. Detto che l’Italia stenta ad essere una realtà omogenea e ha sempre stentato ad esserlo, l’unità del tricolore, negli ultimi 2 anni è stata costruita sul pericolo di essere contaminati dagli altri. Questo è il tipico segno di civiltà che hanno raggiunto l’apogeo e che tendono all’autodistruzione in una lenta ed indecorosa crisi di gruppo, ma è inutile dire che il coronavirus ha letteralmente accelerato i tempi.

Il virus venuto da fuori, ha degli aspetti collusivi con quelle paure di gruppo anche troppo manifeste nella nostra epoca. Il contagio di se. La malattia che rode dentro. Il dolore dell’essere soffocati. Le strutture ospedaliere che non riescono a coprire la pandemia. Non c’è scampo. La paura genera diffidenza e terrore.

Una esposizione prolungata a queste circostanze modifica direttamente il comportamento. In particolare si può parlare di effetto traumatico da Coronavirus. Quando parliamo di un trauma, soprattutto collettivo, parliamo di una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai e con la quale dovremo fare i conti in continuazione. Si presenterà sotto forma di piccoli gesti, una strisciante eterofobia, una incapacità strutturale alla relazione ed alle regole che la normano.

 

Nel momento in cui si è contagiati dalla semplice idea di poter essere contagiati, si è malati, ma tale condizione non è sopportabile. È chiaro che tale posizione crea automaticamente una condizione reattiva che si configurerà attraverso l’azione dei cosiddetti meccanismi di difesa, una sorta di globuli bianchi che però spesso, al fine di proteggere l’individuo, creano comportamenti e situazioni deleterie. Non serve un medium per prevedere comportamenti tesi a proiettare il male sugli altri o a rimuoverlo alimentando comportamenti narcisistici.

Questi comportamenti li notiamo già all’interno della popolazione. Il meccanismo di difesa non ha mai una valenza buona o una cattiva. Il meccanismo di difesa non ha un etica, ma nella sua necessaria azione di difendere la cosiddetta integrità dell’IO, struttura risposte comportamentali adattive. L’Io è per definizione la capacità di consapevolezza di se stessi delle proprie azioni e delle ripercussioni che esse hanno intorno a noi. Quando l’ IO è “scisso”, a seconda del livello di scissione, si verifica quello stato di malattia, più o meno grave, che determina il disagio mentale. Più è scisso l’Io, più si è malati. tendiamo a descrivere la scissione dell’IO come se alcune parti di esso non gli  appartenessero più, ma venissero allontanate dalla coscienza perché legate a contenuti così deleteri che potrebbero portare a vissuti estremi.

Uno dei motivi che crea la scissione dell’IO è il trauma.

 

Gli aspetti legati al Coronavirus oggi sembrano essere vissuti come un trauma.  Si sta formando una sintomatologia specifica derivante dal trauma che scinde parte della consapevolezza: innanzitutto lo stato innaturale semi detentivo che sta rinchiudendo a casa milioni di persone è uno degli aspetti principali. Tale stato contenitivo scatena una serie di comportamenti reattivi deleteri appunto come la necessità di fare sport all’aperto. È l’inizio della scissione.

 

Le proprie azioni diventano necessarie ed impellenti, fondamentali ed esplicabili solo attraverso la violazione di uno stato di contagio. Manca la consapevolezza del pericolo nonostante i chiari avvertimenti. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno di rimozione collettiva. In questo caso stiamo parlando di una sintomatologia, cioè di una serie di manifestazioni comportamentali adattive che però sono il frutto di una mancata consapevolezza delle proprie azioni e delle ripercussioni.

 

La necessità, il bisogno non appare ma traspare, la reale forma del disagio, la cosiddetta malattia è in profondità ed assume le forme che corrispondono alla natura traumatica momentanea. Il contagio è interno, la sensazione di spersonalizzazione diventa azione deviante.

La configurazione adattiva del meccanismo di difesa si sintomatizza in altre forme, come quello proiettivo, che si configura come una sorta di ipocondria da contagio, ma che è il frutto della sensazione inconsapevole di essere già contagiato.

La malattia è all’esterno, la malattia è l’altro, le misure adattive diventano quindi una incapacità relazionale stabile, estrema diffidenza sino a scendere in condotte sociopatiche nel caso in cui l’IO abbia un alto grado di scissione. Questo comportamento si svilupperà maggiormente nei momenti successivi all’esaurimento della pandemia.

 

Comportamenti scaturiti dal mondo interiore del trauma, nelle sue forme collettive sono estremamente insidiosi perché si normalizzano, diventano prassi e condivisi fino ad arrivare a pratiche estreme inumane come quelle che avvengono di solito in guerra. Il livello di coscienza e consapevolezza si abbassa ed una pratica agghiacciante come la pulizia etnica a ad esempio. Non serve arrivare alla seconda guerra mondiale per notare come situazioni estreme determinano comportamenti aberranti. Quello che successe nell’ex Jugoslavia è ancora sotto gli occhi di tutti ed estremamente recente.

 

La necessità di protezione dell’individuo quando è parte del gruppo, determina comportamenti introflessivi.

Il marcato pseudo nazionalismo ne è uno.

L’Italia canta l’Inno di Mameli quando vince la nazionale di calcio. In questo periodo i pochi simboli comuni che questa nazione condivide, sono continuamente abusati, come se appunto in gruppo si possa avere una cornice di senso allo sforzo.

Se però ci riflettiamo, questo è distonico. Da un lato si invita alla divisione e dall’altro all’unità su una base comune che non è mai esistita se non in rari momenti.

L’uso e l’abuso del simbolismo però crea reazioni avverse. Detto che la maggior parte degli italiani non sa esattamente il significato dell’Inno Nazionale e che a stento sa che c’è una ampia parte che fa riferimento all’aquila austriaca, al cosacco, al sangue polacco ed al cuore di Ferruccio, viene da chiedersi se un abuso prolungato, lì dove non c’è mai stata una corretta e completa informazione, non possa scatenare comportamenti deleteri.

 

Come ricordava James Hillman, alcune parole hanno un valore assoluto perché in nome di esse ci si immola.

Per la Libertà sono morte milioni di persone, come per la Pace che ha mietuto più vittime della guerra. Anche l’uguaglianza, la bandiera ne hanno condannati innumerevoli: un simbolo è un veicolo potente per scatenare istinti distruttivi e auto distruttivi e l’abuso ne fomenta i connotati negativi.

 

Quando si parla di italiani non si può che essere ricordata la frase attribuita a Massimo D’Azeglio secondo cui fatta l’Italia occorreva fare gli italiani. Una profonda consapevolezza che vale per ogni gruppo sociale determinato da condizioni storiche, sociali e geografiche.

C’è quindi un pericolo reale che colluderebbe con atteggiamenti di gruppo profondi manifesti nella nostra società e mai sopiti totalmente. Non dobbiamo pensare che certe paure siano solamente italiane: mai come in questo periodo sono state prodotte tante opere e manufatti ispirati alle pandemie che distruggono il mondo. Dai blockbusters hollywoodiani ai libri, opere d’arte e produzioni artistiche. La civiltà umana finisce divorata da se stessa, intendendo quella occidentale. Questo è l’immaginario comune ed ora c’è il Coronavirus.

 

Ecco perché spesso per descrivere questo periodo si usa il termine “guerra”. Ovvero si assolutizza il pensiero. Va però fatto notare che questa non è una guerra, ma una pandemia. Durante la guerra non si sta a casa a scartare i pacchetti di Nutella Biscuits. In guerra gli scaffali dei supermercati non sono pieni. In guerra spesso non c’è la casa ne il supermercato.  Non serve uno psicologo per dire che siamo ad un punto di svolta, un nuovo 11 settembre 2001, un altro 1 settembre 1939, un altro 26 aprile 1986 soprattutto perché siamo chiaramente impreparati.

 

Una società eternamente adolescente paga lo scotto della sua eterna gioventù.

Certe cose andrebbero chieste ai nostri nonni, ai nostri bisnonni, alla loro memoria ed alle loro consapevolezze.

 

Fabrizio Mignacca, psicologo psicoterapeuta