In Europa ci sono porti dove non controllano i traffici e paradisi fiscali per le mafie
PRIMA PARTE/Intervista ad Amalia De Simone, giornalista d’inchiesta di Corriere.it e autrice di Mafieuropa
Le mafie sono pronte ad approfittare della crisi economica e dei fondi pubblici che arriveranno, è un allarme che da alcune settimane sta arrivando da fonti autorevoli. Nel dibattito si è inserita anche l’Europa nello scontro che vede contrapposti Italia e Spagna a Germania e Olanda. Ad eccezione degli interventi di Nicola Gratteri c’è un dato che non è stato considerato: le mafie sono presenti in tutta Europa, investono, riciclano e traffico in vari Stati. Droga, speculazioni, di rifiuti, tanti sono i settori economici in cui sono presenti. Favorite da blandi interventi delle autorità e legislazioni fin troppo morbide. Abbiamo intervistato, per cercare di approfondire e comprendere cosa accade oltre le Alpi, Amalia De Simone, giornalista d’inchiesta del Corriere della Sera e autrice di Mafieuropa, libro d’inchiesta pubblicato nel febbraio scorso
Nella presentazione di Mafieuropa si sostiene l’Europa è diventata come istituzione un mezzo per le mafie e che i clan accedono ai finanziamenti comunitari. Come avviene tutto questo e cosa l’Europa potrebbe fare per stopparlo?
«Sono pratiche che in Italia abbiamo sperimentato con l’arrivo dei fondi per l’agricoltura, per le imprese o in altri casi. La mafia si è sempre infiltrata in questi meccanismi, le mafie si muovono seguendo i soldi e trova opportunità togliendo fondi all’economia legale e quindi ossigeno ad un Paese. Quando un’impresa mafiosa riesca ad ottenere finanziamenti o ad approfittarsi di agevolazioni viene tolta un’opportunità agli onesti e si crea concorrenza sleale. Oggi le imprese mafiose non si riesce a rintracciarle, trovano svariati modalità per camuffarsi grazie a meccanismi finanziari, scatole cinesi, prestanomi, fior fiore di commercialisti, avvocati, professionisti di varia natura che sono al loro servizio. Non ci sono possibilità per impedire ad un’azienda apparentemente pulita e limpida di accedere a fondi europei. Come le mafie hanno approfittato di questi meccanismi in passato si sono attrezzate per farlo anche adesso. Non sono un tecnico e quindi elaborare soluzioni ma penso che bisognerebbe fornire a chi ha esperienza in questo settore una serie di parametri per poter individuare le aziende anche solo sospettate di avere legami con i clan. In un’intervista giorni fa il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho mi ha detto che non si dovranno creare nuove fonti di burocrazia più forte, in questo momento la burocrazia rischia di ucciderci ed è necessario che sia tutto molto snello, ma allestire una serie di controlli tecnici per bloccare coloro che sono sospettati di avere legami con le mafie».
Nelle tue inchieste hai documentato come i clan italiani sfruttano corrieri di nazionalità albanesi per trasportare droga dal porto di Rotterdam, perché questo porto è così fondamentale per il narcotraffico?
«In tutti i grandi porti i controlli sono difficili per l’alto numero dei movimenti, diverse indagini della polizia olandese ha poi dimostrato un altissimo livello di corruzione. Esiste poi un’altra questione sottolineata da Cafiero De Raho e dal capo della polizia olandese che ho intervistato nelle mie inchieste: ci sono casi in cui prevale la scelta di lasciare libera l’economia piuttosto che effettuare un controllo in più, fermare per un controllo un container viene considerato una perdita di denaro e quindi si decide di non farlo. Probabilmente anche qui c’è un problema di assenza legislativa. Rotterdam è tra i porti europei più grandi ma situazioni simili ci sono per esempio nel porto di Anversa, in alcuni porti spagnoli, nel porto di Amburgo che è uno snodo fondamentale. Porti dove transitano non solo droghe ma anche armi ed altri beni di provenienza illecita da parte delle mafie. In questi porti il livello di corruzione è così diffuso che si creano alleanze tra clan di diversa provenienza, non solo italiani, ma anche contrasti. In Olanda ci sono state faide con una serie di persone ammazzate. In Italia abbiamo un’altra forma mentis nel contrasto che lo rende più efficace e si possono citare i porti di Reggio Calabria, Salerno e Genova».
In un’altra inchiesta perché hai definito Londra un paradiso per i business mafiosi?
«Londra è una capitale finanziaria a livello mondiale, in Inghilterra c’è la possibilità di aprire una società in maniera molto semplice come ho dimostrato nella mia inchiesta, basta una sterlina e la registrazione grazie ad un’utenza telefonica. Esistono organizzazioni che assistono nello svolgimento di queste pratiche, ad Harley Street 29 una di queste ho documentato ha registrato nella sua sede oltre duemila società. Mettono a disposizione indirizzi e sedi fittizie e diventa ancor di più un gioco da ragazzi creare nuove società. Riportai l’esempio di una società mafiosa il cui amministratore era indicato ladro di galline, sono nomi con i quali sembrano quasi prendere in giro il sistema. E nessuno si pone il problema di verificare la regolarità di queste società. Una facilità che agevola chi vuole aprire società per riciclare capitali sporchi. Ci sono poi isole come Jersey che rappresentano dei veri paradisi fiscali dove costituire finanziarie con scatole cinesi, occultare beni, fare speculazioni finanziarie. Le mafie sono presenti, non solo quelle italiane ma soprattutto quelle russe. Infatti a Londra ci sono stati casi di omicidi sospetti inquadrabili in dinamiche mafiose. L’Inghilterra vede tutto questo solo dal punto di vista dell’attrazione di flussi finanziari e non si pone la questione di quanto possono essere di provenienza mafiosa e sovvenzionare vari traffici tra cui quelli di armi e droga».
Romania e Bulgaria sono considerati tra i maggiori luoghi di arrivo dei traffici illeciti di rifiuti italiani, l’ex presidente della commissione parlamentare ecomafie Bratti in un’intervista ad Avvenire qualche anno fa affermò che le navi dei veleni non rappresentano solo il passato. Ci sono conferme di tutto questo? Esistono terre dei fuochi europee e quali?
«Il business dei rifiuti è mondiale, i Paesi che hanno una struttura sociale ed economica più debole ne subiscono di più gli effetti. Gli Stati africani hanno accolto per anni e accolgono ancora rifiuti tossici provenienti da tutta Europa, su questo non dimentichiamolo mai stava indagando Ilaria Alpi quando fu assassinata, con un forte coinvolgimento di organizzazioni italiane. Una delle pattumiere europee più importanti è la Romania, nei Paesi dell’Est Europa sta accadendo di tutto e stanno sorgendo discariche anche non autorizzate enormi dove finisce di tutto senza alcun controllo, la situazione è sicuramente allarmante».
Mantenendo l’attenzione sull’Europa dell’est, nella presentazione del libro ricordi l’omicidio di Jan Kuciak insieme a quello a Malta di Daphne Caruna Galizia sostenendo che prima della liturgia della memoria dobbiamo proseguire il loro lavoro. Come si può seguire il loro impegno?
«La memoria si mantiene viva continuando il nostro lavoro, noi giornalisti, gli inquirenti continuando ad indagare su quello che loro hanno denunciato e documentato e può farlo la società civile tenendo sempre alta l’attenzione senza mai girarsi dall’altra parte. Questo considero il culto della memoria che è il contrario della liturgia della memoria che non amo molto. Jan Kuciak e Daphne Caruna Galizia hanno portato avanti indagini importanti, Daphne su un sistema di corruzione e traffico di gas che coinvolgono personaggi istituzionali, potentati internazionali e criminalità organizzata, Jan Kuciak sul ruolo di un magnate dell’economia con legami istituzionali molto forti nell’utilizzo dei fondi europei e su cui si erano infiltrati ‘ndranghetisti italiani. Nell’omicidio di Jan Kuciak i clan di ‘ndrangheta italiani non risultano essere direttamente coinvolti, erano uno degli aspetti di un problema molto più ad ampio raggio che coinvolgeva soprattutto chi era forte di una posizione economica forte e di legami istituzionali».
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