Io posso fin qui...

REPORTAGE. Dialogo con un Palestinese.

Io posso fin qui...
Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo-reportage

Un viaggio non è mai solo uno spostamento fisico, è uno stato d’animo che ti consente di guardare il mondo con occhi nuovi.  
Il viaggio non è tra i luoghi ma tra i popoli, stare in un luogo senza viverlo col suo popolo è come non esserci mai stati.  
Bethlehem (Betlemme) luogo sacro, culla della cristianità è anche terra di sofferenze e prevaricazioni.

 
Quando ho preso accordi con la guida per visitare Betlemme, trovata su una pagina Facebook, non pensavo mai che sarebbe stato un viaggio nel viaggio! Un’esperienza che ci ha lasciate sgomente e desiderose di verificare quanto fosse effettivamente distante il loro vissuto dal nostro “Occidente”.  
Sebbene non fosse la mia prima volta in Israele, è stato un viaggio ricco, un incontro di popoli, differenze che uniscono ma soprattutto storia, tradizioni, usi … diritti, diritti concessi e negati …  
Avevo appuntamento al Check Point 300.  

 

Ho percorso gli 11 km che separano Gerusalemme da Betlemme ammirando il paesaggio brullo, semidesertico dove agglomerati urbani di architettura tipicamente araba si mettono in mostra con la complicità del sole, Gerusalemme sui colli si erge nella sua imponenza, una piacevole armonia spezzata dalla presenza ingombrante di un muro di cemento armato sormontato da filo spinato intervallato da torrette.  

Attraverso il Check Point con le mie due amiche, senza controlli, arriviamo dall’altra parte del muro accolte dai sorrisi delle decine di tassisti in cerca di turisti.  
Scruto tra essi, un incontro di sguardi, riconosco la mia guida che mi accoglie con il calore di un vecchio amico.  

Ramses (nome di fantasia che userò perché preferisce restare anonimo) ha i caratteri somatici tipicamente arabi, sguardo intenso, mai basso, non parla italiano ma con l’inglese e Google Translator abbiamo abbattuto almeno le barriere linguistiche.  
Inizia così a presentarci la sua terra.

Percorriamo una strada che carente di manutenzione e asfalto, sembra sterrata, abbandonata, resa più angusta dal muro costruito così vicino alle case, al punto da consentire il passaggio di un’auto per volta… case abbandonate, negozi chiusi … luoghi popolati dai turisti che, come noi, restano affascinati dalle centinaia di graffiti realizzati sul muro, quasi ad esorcizzarne l’esistenza, tra i quali spicca un “Make hummus not walls” (“Fate hummus non muri”. L’hummus è una purea di ceci tipica del medio oriente, ndr) e quello raffigurante la colomba con il ramoscello di ulivo e il giubbotto antiproiettile di Banksy

 
Ramses, andando verso la Chiesa dei pastori, si ferma in un bellissimo punto panoramico.  
Chiedo: “Ramses qui non c’è muro, è Palestina?” 
E lui: “Claudia c’è muro anche dove non si vede muro”. 

Mi chiede il telefono e scatta una foto. La ingrandisce, mi mostra terre circondate da tre recinzioni metalliche e mi spiega che quella al centro è una barriera allarmata. Mi mostra una cartina nella quale sono riportati i territori palestinesi che nel tempo, sono stati sempre più erosi dall’espansione degli israeliani e che oggi sono distribuiti a macchia di leopardo senza via d’uscita.

I palestinesi che vivono in una macchia di leopardo non possono uscire, non possono andare da nessuna parte a meno che non chiedano e forse ottengano, dopo una procedura complessa, un visto.  
 

E continua: “C’è muro anche dove non c’è muro”.  
Da quella stessa foto mi mostra un complesso residenziale abitato da israeliani a ridosso di terreno che mi dice esser palestinese (destinato una volta al pascolo) nel quale i palestinesi non possono più andare. E l’espansione continua perché “il governo di occupazione ha deciso di costruire altre 6000 unità abitative su terre palestinesi mentre ad alcune famiglie palestinesi non è permesso neanche proteggere le loro case dal freddo in inverno o dal caldo in estate. A causa di queste sistematiche e quotidiane politiche israeliane oltre 8 milioni di palestinesi sono stati costretti ad emigrare e a vivere in campi profughi o a chiedere asilo in tutto il mondo”. 

In Israele il servizio militare è obbligatorio: gli uomini fanno 3 anni, le donne 2; al congedo alcuni hanno il permesso di portare a casa un’arma… 

Ho immaginato che buona parte di quegli appartamenti stesse ospitando un’arma… Percorriamo strade veramente malandate, chiedo come mai non vengano aggiustate.  
Ramses ci spiega che così come non ci sono più aeroporti in Palestina, non è prevista la realizzazione e/o la manutenzione di strade, ponti, ferrovie. 

Si infervora e mi dice che all’attuale governo palestinese non interessa del suo popolo, “è molto più preoccupato di accumulare ricchezze “vendendo” il popolo”.  
Accenna agli accordi di Oslo e alla circostanza che non siano mai stati rispettati dagli israeliani se non per la divisione del territorio in 3 aree: Area A (una piccolissima parte della Cisgiordania) controllata civilmente e militarmente dai palestinesi; Area B (una buona parte) sotto amministrazione civile dei palestinesi ma sotto controllo militare israeliano; Area C (la maggior parte) sotto controllo civile e militare israeliano.  

Gli chiedo cosa vuol dire e Ramses mi spiega che nelle aree A loro sono liberi di spostarsi e svolgere le loro attività, nelle aree B possono andare ma sono sottoposti ai controlli israeliani, nelle aree C non possono andare se non con visto. Tuttavia, aggiunge: “anche nelle aree A, che sembrano sottoposte alla piena Autorità Palestinese, in realtà tutto è sotto il controllo israeliano: acqua, elettricità, confini, valichi e denaro.

L’occupazione non è solo barriere e un muro di cemento. L’occupazione è nelle nostre vite 24 ore al giorno, 30 giorni al mese… L’occupazione è un incubo, giorno e notte”. Mi mostra dei serbatoi per l’acqua sui tetti delle case, ma veramente tanti e apparentemente eccessivi in relazione alle abitazioni che avrebbero dovuto servire. Mi racconta che la Palestina è ricca di acqua ma, essendo l’erogazione controllata dagli israeliani, è facile che all’improvviso la interrompano anche per giorni; così come fanno con l’acqua, fanno con l’elettricità. “In Palestina non ci sono banche, ma prima dell’occupazione noi avevamo la nostra moneta”.  

Ramses ha quasi le lacrime agli occhi, la sua espressione è cambiata, continua a raccontarmi “è di pochi giorni fa la notizia che l’occupazione ha preso il controllo di 193 dunum delle terre del popolo palestinese (il dunum è un’unità di misura terriera, 10 dunum sono pari ad un ettaro. Ndr). I coloni ebrei attaccano case e auto palestinesi bruciandole e distruggendole”.  

Noto dei bambini per strada che giocano come accadeva nei nostri piccoli centri rurali fino a qualche anno fa. Guardo l’ora, dovrebbero essere a scuola, chiedo a Ramses come mai non ci vadano.  
E lui: “Claudia questo nostro governo non è un buon governo. I professori non sono ben pagati e si rifiutano di lavorare. Oggi sono andati a Ramallah per protestare. Vedi queste auto della polizia? Pensi ce ne sia bisogno?” 
Lo guardo e accenno un “no” col capo.  
Così continua: “non sono ammesse le proteste, non si può dire ciò che si pensa e la polizia deve impedire ai professori di protestare. Diversi mesi fa ci sono state proteste da parte dei medici, degli infermieri, degli autisti, degli ingegneri, di tutti i ceti sociali ma nessuno ha ascoltato. Queste proteste pacifiche sono state accolte con violenza dall’apparato di sicurezza di Abbās (Abū Māzen, Ndr) che è affiliato al governo di Abbās come il presidente della Palestina.” 

“Quindi - chiedo - i bambini non vanno a scuola? Non c’è istruzione? Come progredisce la società? Tu hai studiato?” 

Ramses: “Good question Claudia! (Buona domanda Claudia!) Vai a vedere la Basilica della Natività e poi ti rispondo.” 
Si assicura che non ci fossero funzioni previste quel pomeriggio, mi dà qualche dritta e ci diamo appuntamento fuori quando avessimo finito. L’ultima volta sono dovuta andare ben due volte per entrare nella Basilica, quel giorno non c’era molta coda.  

Nel tragitto che mi separava dal luogo della nascita di Gesù non riuscivo a non pensare al dramma che vive questa gente. Sì, perché la diaspora degli ebrei, la prima avvenuta ad opera dei romani nel 70 d.C. (non dei palestinesi), ha provocato la necessaria dispersione di questo popolo nel bacino del Mediterraneo e dimostrazione ne sono i resti della più antica sinagoga risalente al IV sec. d.C. a Bova Marina, che custodisce il bellissimo mosaico riportante il nodo di Re Salomone. E poi questo popolo, sempre un po’ ghettizzato e inviso, soprattutto dopo il dramma della Shoah, doveva ritornare nella propria terra… ma quale?

L’unica, quella che erano stati costretti a lasciare… ma adesso dopo oltre 1000 anni c’era la Palestina, città, uomini e donne che abitavano quel luogo da generazioni… Come si può? Penso, se le trattative politiche fossero andate diversamente, se si fossero messi d’accordo, se …  
La scalinata che mi porta nella grotta dove è nato Gesù è davanti a me… prego per me, per il mondo… 
Ci rimettiamo in macchina, sono ansiosa di avere la mia risposta, glielo ricordo.  

“Claudia io avrei voluto tanto studiare ma non ho potuto perché dovevo aiutare la mia famiglia, sono il figlio più grande e ho dovuto occuparmi dei miei fratelli più piccoli. Poi mi sono sposato, adesso ho 5 figli e devo occuparmi della mia famiglia. Durante il periodo del Covid hanno fatto lezione con il telefonino ma non sempre. Adesso i professori protestano e le lezioni non sono regolari”. 

Chiedo se possono andare nelle scuole dei salesiani.  
Mi risponde che sono scuole costose e non può permettersele. I suoi figli sono fortunati perché suo cognato è maestro e qualcosa loro insegna. Aggiunge ciò che per noi è l’ovvio: “è più facile governare persone ignoranti ma il mondo deve sapere” mi chiede di far conoscere le sue parole: “porta il dolore e l’umiliazione di un popolo dai segreti e dal buio delle proprie case alla luce del mondo”.  
Penso ai 5 figli. “Ramses, 5 figli! Quanti anni hai?” 
“43 - mi risponde - mia moglie 32, la mia figlia più grande 15 anni e il più piccolo uno.” 
Faccio un calcolo veloce e mi rendo conto che la moglie di Ramses si è sposata piccola, non aveva 18 anni. 

Prima di andar via Ramses ha voluto mantenere la promessa di farci assaggiare il kunafa (dolce tipico medio orientale) più buono della Palestina e ovviamente ha preteso che fossimo suoi ospiti; mi ha spiegato che per lui è importante costruire rapporti.  
 

Giunto il momento di andar via ci ha accompagnate al Check Point per il controllo passaporti, ci siamo salutati felici di questo bellissimo incontro e ci ha detto: io posso fin qui…
 

Miryam Claudia Sacco