Le mafie cercano consenso sui social network
Diverse sono le pagine che inneggiano a Matteo Messina Denaro, Totò Riina, Bernando Provenzano e altri boss.
di Alessio Di Florio
«Totò Riina sei una grande persona, se non fosse stato per quegli infami a quest’ora eri fuori», «Falcone e Borsellino due bestie», «taci fango», «vai a scrivere il romanzo degli infami come voi». Sono alcuni dei commenti apparsi sotto un recente post Instagram su Salvo Riina di Adriana Colacicco, responsabile di Progetto di Vita, da anni impegnata contro le mafie.
Ad un tal Federico Sganga il recente post contro il figlio della bestia che ordinò l’assassinio di Falcone e Borsellino, così come di centinaia di altre persone, non è piaciuto e ha vomitato i suoi vergognosi commenti.
È questo solo uno dei tanti esempi del sostegno e apprezzamento delle mafie che compaiono su Facebook e altri social network. Dove ci si può imbattere anche in mafiosi e nei loro squallidi fiancheggiatori, che cercano di segnare il terreno, intimidire, occupare le piazze della rete con le stesse dinamiche di quelle reali.
Il mese scorso il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, ha denunciato l’esistenza di un videogioco su Facebook, dal nome «Mafia City» su cui si può vincere il titolo di «Padrino» e un clan da governare. Il gruppo, sempre su Facebook, «la malavita» (che non accetta “persone che non abbiano neanche una macchietta sulla fedina penale”) ha oltre 300 iscritti. I due gruppi dal nome «Malavita napoletana» hanno oltre 1.200 e oltre 2.400 iscritti; la pagina «Pane e Malavita» arriva allo sconcertante numero di oltre 133.300 iscritti. «Frasi e aforismi di personaggi mafiosi» si ferma a poco meno di 3.000. Tra le varie pagine dal titolo mafia family e simili quella che ha più successo sfonda quota 13.000.
Diverse sono le pagine che inneggiano a Matteo Messina Denaro, Totò Riina, Bernando Provenzano e altri boss.
In un’intervista pubblicata sul sito della Polizia di Stato, due anni fa, il docente di Storia della criminalità organizzata presso l’Università di Roma Tre, Enzo Ciconte, si è soffermato sull’uso delle giovani leve delle mafie nel creare consenso sui social: partono negando l’esistenza delle mafie definite invenzione di magistrati e forze dell’ordine (definiti con disprezzo sbirri) arrivando così a identificare i mafiosi arrestati come vittime innocenti, prigionieri di un regime disumano («il 41 bis è una Guantanamo») e ad insultare i testimoni di giustizia e i pentiti, indistintamente oltraggiati come infami.
Secondo Marcello Ravveduto i camorristi cercano la condivisione di un orizzonte culturale, entrano nel web per condividere pensieri, atteggiamenti, gusti, consumi e stili di vita corrispondenti a un’ottica di potere deviante.
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