Maresca: «la criminalità organizzata non è in quarantena»

INTERVISTA. Allarme del giudice, che avverte: «non si deve cedere alle mafie».

Maresca: «la criminalità organizzata non è in quarantena»
Catello Maresca, fonte fb

La cronaca degli ultimi giorni sta accendendo i riflettori sul rischio che le mafie possano sfruttare l’emergenza sanitaria e la crisi economica conseguenza del blocco economico, il Ministero dell’Interno ha diramato una circolare a tutte le prefetture esprimendo preoccupazioni e chiedendo vigilanza sia sull’ordine pubblico che sulle attività economiche. Forti prese di posizione, come abbiamo, già riportato in precedenti articoli, sono venute da Saviano, Caselli, Lombardo, Gratteri, Di Matteo e Ardita così come da Antonio Ingroia e Luigi Coppola.

Il primo a lanciare l’allarme è stato, già ad inizio marzo, il magistrato Catello Maresca. In prima linea contro la camorra, autore anche di alcuni libri importanti che documentano e aiutano a capire le dinamiche delle organizzazioni criminali fornendo analisi preziose per ogni cittadino informato e impegnato. E' stato protagonista della cattura di Zagaria e altri boss. In quest’intervista rilancia l’allarme sulla situazione attuale e fornisce spunti di riflessione sulla situazione delle carceri italiane, sulle infiltrazioni delle mafie nel tessuto economico, senza dimenticare Roberto Mancini e il suo sacrificio nel documentare il sistema camorristico della «terra dei Fuochi».

Dopo la rivolte nelle carceri condivide l’allarme sul rischio cedimento lanciato da Gratteri, Di Matteo e Ardita? Lei ha fatto riferimento in questi giorni al rischio di una deriva colombiana, parlando di segnali inquietanti. Perché?

«Dopo i fatti del 7 e 8 marzo si è potuti intervenire a ragion veduta, già prima si potevano ipotizzare dei fatti, dopo quelle prime rivolte concretizzate in maniera simultanea in 27 carceri diversi la preoccupazione è diventata più concreta. Le immagini a me hanno ricordato, prima di tutto da cittadino, narcos e situazioni che arrivano tradizionalmente da luoghi come la Colombia o dal Messico. Ritenendomi in un paese democratico che dovrebbe fuggire da queste situazioni mi inquietano. Il 9 marzo, prima dei magistrati che ha citato, lanciai l’allarme che cedere a questo ricatto (già si cominciava a parlare di amnistia e indulto) è la cosa peggiore che si possa fare e purtroppo gli eventi stanno dimostrando che, probabilmente non in maniera consapevole, queste forme di pressione risultati li stanno ottenendo. Mi riferisco a risultati non solo formalmente e tecnicamente ricavabili dalla norma, in un mio commento successivo al decreto Cura Italia ho affermato che è stato varato una sorta di indultino con scarsi effetti concreti, ma soprattutto a comportamenti riflessi e danni collaterali. L’altro giorno a Catanzaro è stato scarcerato un boss di ‘ndrangheta, dovrebbe scontare almeno altri 14 anni di carcere quindi è un caso che esula dalle casistiche previste in queste settimane. Le spinte che vediamo in queste settimane del «mandateli a casa, scarcerate il più possibile» possono orientare alcuni dei miei colleghi a provvedimenti di questo tipo, ho più timore di questa deriva che di un effetto diretto e immediato dei provvedimenti di scarcerazione di 4000 detenuti, ovviamente mi preoccuperei se si alzasse l’asticella a diecimila o ventimila prima di tutto da cittadino che da uomo di diritto. E mi preoccupo anche per un altro effetto indiretto sul rafforzamento della criminalità organizzata con il ritorno a casa di alcuni boss senza particolare controllo e con grande eco mediatica di alcuni proclami (la lettera dal carcere di Palermo una volta si sarebbe definito papello)».

C'è stato un sit in ore prima dell’inizio della rivolta (dimostrando quindi che non poteva essere spontanea) per esempio, in questo clima certe letture ideologiche ci possono spinte a pericolose derive e strumentalizzazioni?

«Il tema dovrebbe essere chiaro ma si presta a strumentalizzazioni, la salute umana è un bene assoluto da salvaguardare in ogni momento, è un principio da mettere davanti a tutto il resto ma alcuni miei colleghi stanno prendendo cantonate mettendolo sullo stesso piano della certezza della pena. È sbagliato e non vanno comparati, sono principi costituzionali che vanno tutelati ma non devono essere comparati e perseguiti l’uno a danno dell’altro. Si può tutelare la salute in carcere? Secondo me si, i dati vanno letti in maniera laica e non ideologica che influenzano molti commentatori. Una lettura esasperatamente ideologica porta a risposte distorte e sbagliate. È un rischio che ho valutato dall’inizio e per questo ho affermato che bisogna essere più che attenti a dare la stura a certe manifestazioni ideologiche gravi e ad altrettanto gravi strumentalizzazioni. Per questo è necessario tornare ad un aspetto sanitario e organizzativo tutelando tutta la popolazione carceraria compreso il personale di sicurezza di cui troppi si dimenticano, in maniera strumentale a certe letture distorte che la storia c’insegna partono dall’ideologia ma possono sfociare in termini molto più gravi».  

Che ne pensa delle spinte di questi anni a rivedere il 41 bis anche alla luce delle pronunce di questi anni della giustizia europea? Cosa si deve fare per risolvere i gravissimi problemi della situazione delle carceri, anche in questo periodo di emergenza?

«Il 41bis è un presidio assoluto e intangibile di fronte al crimine organizzato, solo se non si vuole più combattere la criminalità organizzata lo si toglie. Chiunque abolisce o attenua questo presidio sarà l’autore della fine della lotta alla criminalità organizzata. Dovremmo lottare per far capire in Europa quali sono le necessità e le disposizioni per combattere il crimine organizzato, non dovremmo ricevere noi sanzioni ma avere la capacità di far capire in Europa che certi istituti vanno tutelati. Il 9 marzo ho iniziato a delineare la portata della situazione, dopo un mese probabilmente avremmo anche potuto realizzare quelle proposte almeno in parte, a partire dal ripristino dei presidi ospedalieri nelle carceri, tagliati e de finanziati come successo con gli ospedali pubblici riducendo le carceri a strutture fatiscenti in cui si creano sostanziali aggravi di pena. Un aggravio che in parte viene risarcito: l’espiazione gravosa della pena con mancanze tipo il non rispetto dello spazio minimo (4 metri quadrati) che dovrebbero avere in carcere portano a sconti di pena. Analogalmente ai posti letto negli ospedali si devono garantire maggiori spazi nelle carceri con un’organizzazione e una ripartizione diversa, abbiamo carceri sovraffollate e altre sottoutilizzate o chiuse così come il personale può essere ricollocato o si possono fare nuove assunzioni per garantire il corretto funzionamento del sistema carcerario. Va considerato un punto a cui tengo personalmente: abbiamo un presidio costituzionale che dovrebbe essere la guida ovvero la funzione rieducativa della pena. La rieducazione migliore da sempre è quella dell’impegno quotidiano e del lavoro, i detenuti devono essere messi nelle condizioni di poter lavorare. Anche per poter ripagare i costi della detenzione, una delle frasi che spesso si trascura presente in ogni sentenza riporta che le spese sono a carico del condannato, ogni detenuto dovrebbe pagarsi le spese di custodia che secondo le ultime stime ammonterebbero a 120 euro al giorno circa. Questo potrebbe accadere con un’attività lavorativa. E ad avere così occasione di rieducazione e riabilitazione».

Ci sono segnali che la mafia ha fomentato gli assalti ad alcuni supermercati. Il rischio Colombia può venire anche da una destabilizzazione camorristica dell’ordine pubblico? Da Napoli giungono notizie che la camorra dona pacchi di pasta, ci sono forti rischi che la crisi economica rafforzerà usura, traffico di droga droga, azzardo, riciclaggio nell’economia legale a partire da appalti, ambiente e sanità. Quali altri settori economici potrebbero essere a rischio? Quale la situazione e le dinamiche in atto e future?

«Non sono rischi ma la realtà, ci sono indicatori e segnalazioni di delinquenti che per esempio portano la spesa a casa e cercano di sostituirsi allo Stato. La questione è seria, la criminalità organizzata non è in quarantena e anzi si organizza e costruisce occasioni di credito anche verso persone in difficoltà in questo periodo. Invito sempre a intraprendere e percorrere con forza la strada della legalità e quindi rivolgersi al Comune, ai servizi sociali, alle associazioni di volontariato  - io stesso con la mia associazione Arti e Mestieri porterò a breve 200 buste di spesa a Scampia per dare un segnale forte di presenza dello Stato e del popolo che si fa Stato – perché esiste l’alternativa e non bisogna cadere nella tentazione più semplice come rivolgersi agli usurai e ai clan se si ha necessità di sostegno economico. Dobbiamo far comprendere cosa comporta l’abbraccio stringente della camorra, il camorrista non è un benefattore e prima o poi (più prima che poi) finita l’emergenza presenterà il conto imponendo di diventare spacciatori e custodi di stupefacenti o a prestarsi ad altre attività criminali. Il problema che dovremmo affrontare di qui a poco non è soltanto legato ai settori tradizionali della criminalità organizzata, stanno già ragionando su come infiltrarsi nei settori legali, comprando negozi ridotti sul lastrico, prestando soldi e diventando soci di attività imprenditoriali. L’infiltrazione mafiosa nei settori economici legali può essere favorita dalla crisi dovuta all’emergenza sanitaria».

Come sono cambiate in questi anni la camorra e le altre mafie? Un’altra spinta di questi lustri è quella contro la burocrazia e ogni snellimento possibile di procedure e iter autorizzativi, si può rischiare così di favorire operazioni di scarsa trasparenza e un assalto alla diligenza da chi non rispetta ambiente, bene pubblico, corruzione e simili?

«Qualche anno fa ho scritto con Paolo Chiarello un libro dal titolo La mafia è buona che racconta il modo sbagliato con cui ci si approccia al metodo mafioso, spesso si è arretrati di decenni pensando che il mafioso sia ancora coppola e lupara e facilmente individuabile. Invece ormai il mafioso viaggia sui mercati internazionali, veste in doppiopetto e investe soldi proventi delle attività illecite, il mafioso di terza generazione è già imprenditore da qualche decennio. La questione è fino a che punto ci si può fidare dei propri interlocutori e se il sistema economico si vuole porre il problema di fidarsi del proprio interlocutore e del sostegno economico di certi soggetti. Il problema dei controlli è una questione seria, ancor di più in momenti di crisi: il clan dei casalesi è diventato uno dei più potenti al mondo con la legislazione d’emergenza post terremoto in Irpinia del 1980 quando nel mezzogiorno d’Italia arrivarono fiumi di denaro che furono intercettati in gran parte dalla criminalità organizzata attraverso il sistema corruttivo, le minacce come cristallizzato in tanti processi. Se non vogliamo rischiare quella fine alimentando il crimine è necessario trovare un equilibrio, la burocratizzazione fine a se stessa sicuramente non è utile ma va compreso in quali termini e dove si può sacrificare il controllo per velocizzare l’intervento delle imprese e di investire. E’ un equilibrio sottile che andrebbe verificato caso per caso e andrebbe trovato rapidamente, non si possono azzerare i controlli che significherebbe lasciare mano libera alla criminalità organizzata che in questo momento è più forte di tante altre imprese avendo una grandissima liquidità che gli consente di superare tante difficoltà, di vincere appalti con ribassi significativi e avere una forte predisposizione a permeare anche la pubblica amministrazione. La mia denuncia è che questi problemi non si stanno ponendo nel dibattito pubblico e politico, questo invece è il momento di parlarne e di cercare di studiare soluzioni che non vanno trovate quando c’è l’emergenza e ci sono i soldi ma prima». 

L’anno scorso è diventato oggetto anche di una testi di laurea il «metodo Maresca» per la cattura dei latitanti che ha portato per esempio all’arresto di Zagaria, un metodo che contempla la «teoria cerchi concentrici». In cosa consistono questo metodo e questa teoria?

«Su questo ho scritto il manuale di legislazione antimafia per i miei studenti all’Università della Campania cercando di riportare in sintesi la pratica del governo delle indagini e di coordinamento nella ricerca dei latitanti da parte del pubblico ministero, un’attività considerata normalmente di polizia. Cerchi concentrici significa mettere in atto una strategia investigativa che partendo dal cerchio più lontano, e immaginando il latitante come l’epicentro intorno al quale girano vari gruppi di soggetti con mansioni diverse, si avvicina sempre di più al centro fino ad arrivare al cerchio più prossimo al latitante con un’attività giudiziaria. I cerchi man mano che vengono bruciati sono assicurati alla giustizia scegliendo chi arrestare e chi lasciare in libertà per poter proseguire le attività sulla cattura».

Le mafie in regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono fortemente radicate, in Abruzzo si stanno consolidando. Quali sono le proiezioni delle mafie nei territori diversi da quelli in cui sono sorte in origine?

«Non è più possibile fare distinzioni territoriali, le mafie infiltrandosi nell’economia lo fanno oggi soprattutto nelle regioni non tradizionali e di origine arrivando ai mercati europei, ci sono indagini che ormai arrivano fino ai Paesi dell’est Europa. Sicuramente, quindi, le mafie non sono più una questione territoriale. Quando mi capita di intervenire in territori dove qualcuno interviene sostenendo di non sentire la questione perché le mafie non sarebbero presenti rispondo con una riflessione immediata: sono contento che non ci sono traffici e consumo di droga, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, a quel punto sale sempre la preoccupazione dei presenti perché queste realtà sono invece presenti. Nei territori dove si afferma che le mafie non sono presenti fanno finta di non sapere o non vogliono sapere, le attività che ho appena elencato nessuno le gestisce senza il consenso di un gruppo organizzato legato altrove o cellula stanziale. Dove ci sono queste attività illecite c’è la criminalità organizzata». 

Alla fine di questo mese sarà l’anniversario della morte, un suo ricordo di Roberto Mancini, cosa Roberto Mancini oggi può insegnarci e come possiamo seguirne l’esempio?

«Non ho avuto la fortuna di incontrare personalmente Roberto Mancini che ho conosciuto da quel che è stato scritto di lui e da qualche rapporto di polizia giudiziaria da lui redatto che ho potuto leggere. Tutti elementi da cui traspare la grande competenza ma soprattutto la grande passione che stava dietro l’uomo e l’investigatore che ho preso ad esempio nella selezione dei miei collaboratori, i miei collaboratori devono essere bravi, capaci, volenterosi ma devono avere soprattutto passione nel lavoro che fanno. Roberto Mancini è sicuramente un esempio per tutti, una passione la sua che probabilmente purtroppo ha inciso sulla dipartita da questa terra. Da dove ci sta guardando sicuramente avrà contezza del fatto che tanti altri operatori di giustizia portano ancora oggi avanti il suo esempio. Quello che ha lasciato su questa terra è indelebile, lo ricordo con dolore da un lato e con la consapevolezza dall’altro che l’esempio che ha lasciato (così come tanti altri grandi uomini) lo rende in qualche modo immortale».