Un soggetto agli arresti domiciliari può utilizzare Facebook?

USO DEI SOCIAL. Ne abbiamo parlato con Enzo Guarnera, noto penalista del Foro di Catania: «Il collaboratore di giustizia non ha normalmente limitazioni. Ovviamente non può mettersi in contatto con persone che appartengono o appartenevano al clan del quale egli faceva parte. Perché questo sarebbe un fatto estremamente grave».

Un soggetto agli arresti domiciliari può utilizzare Facebook?
Foto di Hebi B. da Pixabay

«Il Tribunale del riesame di Catania confermava l’ordinanza del GIP del Tribunale di Ragusa che aveva disposto l’aggravamento della misura custodiale, da domiciliare a inframuraria, per omissis in seguito a violazioni delle misura domiciliare ritenute gravi (usava facebook agli arresti domiciliari)». In questo modo inizia la sentenza della Suprema Corte di Cassazione Sez. II n. 46874 del 2016 che vieta a chi è detenuto agli arresti domiciliari di usare facebook e gli altri social (instagram, twitter, telegram, linkedin, etc.)».

 

«La prescrizione di non comunicare – continua la sentenza del 2016 - con persone estranee deve essere inteso nel senso di un divieto non solo di parlare con persone non conviventi, ma anche di stabilire contatti con altri soggetti, sia vocali che a mezzo congegni elettronici. Il messaggio diffuso sul social network (usando facebook agli arresti domiciliari), peraltro, è oggettivamente criptico per i più ed indirizzato a chi può comprendere perché sottintende qualcosa di riservato e conosciuto da una ristretta cerchia di persone ed è chiaramente intimidatorio, a dispetto del tono volutamente suggestivo, rafforzato dalle coloratissime emoticon, ancora più esplicitamente intimidatorie».

 

Allora, può o non può un soggetto agli arresti domiciliari scrivere messaggi privati e commentare i post di altri utenti? È normale leggere commenti e messaggi pubblici - nei profili di questi soggetti - dove si usano le parole “lo zio”, “lo giaguaro e l’amico del giaguaro”?

 

Lo abbiamo chiesto all’avvocato Enzo Guarnera, noto penalista del Foro di Catania, che si occupa, professionalmente, anche di collaboratori e Testimoni di giustizia. «Il divieto (di stare sui social, nda) non è generalizzato. Di volta in volta, secondo il capo di imputazione e secondo il soggetto che è stato condannato e ammesso ai domiciliari, i magistrati danno delle prescrizioni. Più o meno restrittive».

 

Che significa?

«Talvolta dicono si può incontrare soltanto con i familiari conviventi nello stesso appartamento e con gli avvocati. Non può avere contatti con persone estranee alla famiglia convivente e non può avere comunicazioni telefoniche di alcun genere e, ovviamente, non può utilizzare i social. Questo talvolta è detto espressamente. Se, invece, questi divieti espressamente non ci sono messi è chiaro che lui ha un solo obbligo».

 

Quale?

«Quello di stare a casa e non muoversi. Però gli amici possono andarlo a trovare, se non c’è un divieto espresso di incontro con persone diverse dai familiari».

 

Possiamo fare un esempio?

«Se sono ai domiciliari per un furto o uno scippo, quindi un reato odioso però non particolarmente grave, questi divieti restringenti non me li danno. Se, invece, sono a casa per un reato collegato all’attività mafiosa o un reato per il quale potrei ancora inquinare le prove, in qualche modo, allora evidentemente vengo costretto a comportamenti molto più limitativi della mia libertà. Ma questo, di volta in volta, viene messo nel provvedimento che concede i domiciliari».

 

Lo stesso vale anche per un collaboratore di giustizia?

«Il collaboratore di giustizia non ha normalmente limitazioni, se non quelle derivanti dalla sicurezza. Se per un collaboratore di giustizia, ammesso alla detenzione domiciliare, non c’è nel provvedimento del Tribunale di Sorveglianza una limitazione è chiaro che lui sui social può scrivere. A condizione che non riveli, attraverso i social, la località dove si trova. Perché questo verrebbe contro alle prescrizioni del Servizio Centrale di Protezione, per ragioni di sicurezza».

 

Vale per tutti i tipi di contatti?

«Ovviamente il collaboratore di giustizia non può mettersi in contatto con persone che appartengono o appartenevano al clan del quale egli faceva parte. Perché questo sarebbe un fatto estremamente grave che potrebbe anche far perdere il programma di protezione».  

 

Pier Paolo Pasolini, il poeta massacrato nel 1975, scriveva: «Io so. Ma non ho le prove». Noi chiudiamo dicendo che le prove, come sempre, le abbiamo.