Una chiacchierata con Ettore Zanca, scrittore palermitano di successo

«A volte scrivo qualcosa di spiritoso solo per godermi i commenti divertentissimi. E cerco di rispondere a tutti. Se loro hanno speso tempo, è giusto che abbiano la mia attenzione».

Una chiacchierata con Ettore Zanca, scrittore palermitano di successo

Ettore Zanca, autore dei libri E vissero tutti feriti e contenti (2017) e Santa Muerte (2019), è nato a Palermo, ma vive a Roma. La redazione di WordNews.it è lieta di incontrare lo scrittore di successo e di presentarlo ai nostri lettori.

Salve Ettore, benvenuto su WordNews.it!  Parliamo prima di tutto del tuo ultimo libro “Santa Muerte” edito da Ianieri Edizioni. Ti va di svelarci qualcosa della trama di questo romanzo noir?

«Certamente e grazie per lo spazio che mi concedete. È la storia di un killer che ha perso tutto ciò che ama poco prima di decidere il suo ritiro. A quel punto rientra in gioco più incarognito di prima e accetta un incarico di una multinazionale particolare: deve uccidere persone che hanno proprio intenzione di essere ammazzate. Lui farà firmare i contratti ed eseguirà la sentenza. Il tutto con un incontro casuale di una gatta che non lo lascia più e cammina con lui».

Labella è la città in cui avviene la storia. Quanto influisce il territorio sulla narrazione?

«È direi fondamentale. La città è il ritratto della società moderna. Labella è corrotta, in mano a gente senza scrupoli che fa affari con i criminali. In tutto questo il più debole soccombe. Le vittime di Leonida sono persone che non hanno da chiedere più nulla alla vita e alle possibilità di riscatto. Forse. Sottolineo».

Musica e scrittura, quanto hanno in comune e quanto serve l’uno all’altro?

«Quando scrivo ho bisogno di visualizzare le scene come un film. In quel film immagino una colonna sonora. Quindi per creare la musica è fondamentale, è presente in ogni cosa che scrivo. Poi come ho appreso da un mio amico cantautore, Enrico Ruggeri: lo scrittore invidia al cantante la sintesi, il cantante allo scrittore, lo spazio di creazione. Sono forme d’arte che necessitano di acrobati della parola».

Parliamo ora del tuo libro ”E vissero tutti feriti e contenti” che porta la prefazione del mitico Enrico Ruggeri. Una raccolta di racconti in cui descrivi diverse realtà con uno stile schietto e pungente. Da dove arriva questo ritmo di narrazione così piacevole?

«Ti ringrazio per averlo definito così, perché detto da te vale molto. Cerco sempre di mettere la punta di disillusione di chi dà voce agli sconfitti, ma al contempo anche se la sconfitta è dietro l’angolo non bisogna arrendersi. Cerco di scrivere avendo rispetto del lettore, sta dedicandomi il suo tempo e il tempo è qualcosa che nessuno ci restituisce. Se rimane deluso da quello che legge è una sconfitta reciproca di qualcosa che non tornerà». 

Alle volte congeleremmo i momenti belli, tutti in un freezer, per tirarli fuori quando l’ospite inaspettato si presenta, che sia Nostra signora della Paura, oppure Madama Infelicità, o Sua Maestà Miseria Nera. Ma non si può, caro signore. Per nostra natura i momenti belli li perdiamo perché sono fatti di sabbia. 

Uno dei momenti più belli della tua vita?

«Ne ho pochi stampati in testa. La nascita di mio figlio su tutti. Ma spesso confondiamo con bellezza quello che ci rimane molto impresso, Io più che momenti bellissimi e abbaglianti, preferisco inseguire quei momenti in cui tutto si ferma e ci si gode le persone che amiamo, un traguardo raggiunto, un risultato per cui abbiamo lottato. Se devo proprio dire i momenti belli, sono quelli con le persone con cui desidero davvero stare».

Nel 2012 hai scritto “Vent’anni” a quattro mani con Daniela Gambino, dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e vincitore del premio speciale per la legalità La torre dell’orologio. Ci racconti qualcosa di questa esperienza e di com’è nata l’idea?

«L’idea originaria è stata di Daniela, cui do la “colpa” se mi sono avventurato nel mondo della scrittura. Stava scrivendo il suo libro con le testimonianze di alcune persone famose che volevano raccontare il loro ricordo delle stragi. Io proposi alcuni contributi da mettere e a quel punto lei e il caro Salvatore Coppola, l’editore che purtroppo ora non c’è più, con grande cuore decisero di prendermi a bordo. E io ho iniziato a scrivere di qualcosa che non avrei mai sognato. Parlare della mia terra e di chi l’ha difesa».

Torniamo a parlare del tuo ultimo libro “Santa Muerte” e parliamo del personaggio di Leonida, serial killer spietato che non ha più nulla da perdere. C’è qualcosa nella sua vita però che lo sorprende positivamente ed è una gatta. Pensi che anche nelle persone più perfide ci sia della bontà di fondo?

«Una canzone di Baglioni, uomini persi, dice proprio questo. Chiunque è stato bambino e con momenti di tenerezza, anche la persona più spietata. Quando puntiamo il dito sul più efferato criminale non volendoci avere niente a che fare, rifiutiamo la voglia di capire il male da dove viene e perché. Questo non significa giustificare, ma provare a comprendere quali anfratti hanno portato all’orrore. Non so se ci sia una bontà di fondo, so che nessuno nasce con il buio dentro. Qualcosa va in cortocircuito».

Qual è secondo te una virtù che dovrebbe avere ogni scrittore?

«Spesso mi trovo a leggere chi usa le parole per mestiere. Posso dirti cosa non vorrei essere io e cosa spero di essere. Non voglio apparire spocchioso, orientato su me stesso o autoreferenziale. Vorrei che chi scrive possa incuriosire, possa dire qualcosa di nuovo a chi lo legge, poi vorrei, ma quella è un’idea mia, che il più possibile la scrittura sia uno strumento sociale. Raccontare a un pubblico tutto ciò che mi riguarda come persona e girare solo intorno alla mia visione del mondo, alla fine è stucchevole e ripetitivo. Provare a narrare le storie del mondo, di quello che accade, mandare messaggi di esistenze che combattono, per me è molto più utile a chi legge».

Com’è il rapporto con il tuo pubblico?

«Non è un pubblico e basta. Sono spesso persone con cui ho la fortuna di scrivermi sotto la mia bacheca o di incontrarli alle presentazioni. Spesso tutto si trasforma in una gita fuori porta. Durante Sanremo abbiamo scherzato scrivendo sotto i miei post e ci siamo divertiti. Ecco, le cose belle del social sono queste. Quando poi c’è un libro mio in giro, la risposta è di chi dopo i social ha voglia di stare ancora un po’ a sentire quello che racconto, ed è bello che mi sentano come uno di casa. La cosa più bella è quando ci si conosce e mi sento dire “ma sei uguale a come scrivi”. E come ho detto sopra, mi piace parlarci, confrontarmi. A volte scrivo qualcosa di spiritoso solo per godermi i commenti divertentissimi. E cerco di rispondere a tutti. Se loro hanno speso tempo, è giusto che abbiano la mia attenzione».