Anniversario terremoto L’Aquila, riflettere sulla memoria al tempo della pandemia globale

Intervista a Liliana Centofanti, sorella di Davide morto nella notte del terremoto del 6 aprile 2009 alla Casa dello Studente

Anniversario terremoto L’Aquila, riflettere sulla memoria al tempo della pandemia globale
Liliana Centofanti

L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia globale per il covid19 ha stravolto anche l’anniversario del terremoto a L’Aquila del 6 aprile 2009, non sono state possibili le cerimonie degli anni scorsi e i familiari delle vittime hanno portato avanti una commemorazione diversa e partecipata dalle nostre case e sui social.

Una memoria stravolta da quando ci sta accadendo intorno, imponendosi non solo concretamente ma anche nella riflessione. Uno degli edifici simbolo del sisma undici anni fa fu la Casa dello Studente dove furono strappati alla vita 8 ragazzi tra cui Davide Centofanti. Passato il 6 aprile e mentre molti fino all’anno prossimo già stanno dimenticando e passando oltre, abbiamo intervistato Liliana, la sorella di Davide, condividendo con lei riflessioni sulla memoria e su questi drammatici tempi attuali.

La memoria negli anni muta e porta a riflessioni diverse. Come è cambiata in questi anni e quali riflessioni porta viverla in questo difficile momento storico?

«La memoria, a differenza di tutti gli altri esercizi della mente che man mano diventano più agevoli e con i quali si sviluppa una certa confidenza (e in particolare il ricordo di avvenimenti luttuosi), è sempre più faticosa quanto più deve protrarsi in avanti nel tempo – che si parli di terremoto o di coronavirus il piano principale è il medesimo –. Quest’undicesimo anniversario, che non è forse percepito al pari di altri come potrebbero essere il quinto o il decimo ma chiude una fase e ne apre una nuova, è impegnativo ed inedito. In questi giorni di pandemia, la sensazione è di trovarci di fronte al rischio di “perdere” la memoria, poiché non era mai capitato di dover ripercorrere gli eventi rimanendo in casa. Allo stesso tempo siamo costretti anche a riflettere su quali connotati essa debba assumere:durante il periodo dello sciame sismico è stata un luogo da cui fuggire ed oggi può diventare una prigione. Negli ultimi anni, dobbiamo ammettere che il concetto di casa-nido è stato messo in discussione più volte ed in modo radicale. E ciò porta un’ulteriore riflessione sulla sicurezza e le misure da attuare per garantire a tutti l’incolumità. A livello individuale diventa occasione per riflettere su un altro aspetto: il terremoto, così come altre tragedie che si abbattono su una parte della popolazione, viene accolto con una certa distanza e, superata l’empatia della “prima ora”, viene facilmente soppiantato da altre notizie. Questa pandemia ci porta ad una diversa percezione del rischio: tutti ne siamo coinvolti e con i nostri comportamenti, ad esempio non osservando le restrizioni sanitarie, possiamo diventare insieme “vittime” contraendo il virus e “carnefici” contagiando gli altri. C’è quindi una responsabilità individuale che ne richiama una collettiva. Il racconto tramite statistiche e numeri,purtroppo drammaticamente alti, che sono l’unico linguaggio di comprensione globale di un evento, ci pone davanti alla sua gravità ma non racconta che dietro le cifre che si rincorrono progressivamente,con la scomparsa dei propri cari si rimane da soli a far fronte ad un unico numero: il loro. Sebbene permettano la collocazione negli elenchi ufficiali, Davide era stato identificato con la sua matricola e quindi non ho dovuto affrontare chi compariva prima o dopo di lui o tutti gli altri. Quel numero rappresenta l’unico vuoto davanti al quale devo reinventare la mia vita, il mio ruolo di sorella o figlia e la mia capacità di relazione e quotidianità. In tutto questo rimane un unico dato che diventa più difficile col passare degli anni ovvero che quel vuoto esiste e rimarrà per sempre».

L’anniversario di quest’anno è stato ricordato in altra maniera rispetto ai precedenti, questo induce a riflessioni e sensazioni diverse, quali senti di condividere?

«Quando parlavo di anniversario inedito, mi riferivo al fatto che quest’anno non siamo andati fisicamente a L’Aquila per la fiaccolata. Per la prima volta probabilmente la città riflette su se stessa, e gli edifici e il silenzio dei vicoli ce la raccontano nell’atto di prendere confidenza con le sue cicatrici. La quiete di una città è data anche da quella dei suoi abitanti. Tutti i lumini che si sono accesi nella notte tra il 5 e il 6 aprile non hanno potuto tracciare alcuni luoghi simbolo ma la città si è ripresa il suo tempo, coccolata da coloro che c’erano e continuano ad esserci col diritto di reinventarsi la vita. In particolare la generazione più giovane, nata proprio in quelle settimane o dopo il sisma, riscrive la storia di una città nuova confrontandosi con la memoria degli adulti che cercano di preservare i propri ricordi. È una città bellissima, che hanno il diritto di reinventare.

Una guerra non è un terremoto, un’epidemia non è una guerra. Sono completamente diversi ma condividono una realtà di annullamento e annientamento con una frattura tra il prima e il dopo in una sorta di anno zero. Ci sarà chi ne prenderà tesoro per raccontarla, ci sarà chi tenderà a dimenticare per autodifesa, ma in ogni caso il fine è riorientarsi nella vita di tutti i giorni. Il silenzio di quest’anno ha donato anche una tregua per vivere un lutto, finora fatto doverosamente in maniera collettiva, piangendo i propri cari a casa e rendendoci conto in questo silenzio di quanto abbiamo affrontato in questi anni. Dopo il silenzio insopportabile di questi anni, ne è sopraggiunto un altro che rende giustizia alla realtà di una città che nonostante tutto resiste, ricostruita nella quotidianità dei suoi abitanti. Non è stato un silenzio di rassegnazione ma veramente commemorativo, è stato il momento in cui i cittadini hanno quasi riabbracciato la propria città. Anche davanti a ferite ancora profonde ma con le quali negli anni si è tentato di intessere un dialogo interno, di reciproco affetto. Oggi la memoria è anche questo, poter reincanalare la vita anche nelle modalità più impensabili».

Come cambia la socialità e la vita in quest’emergenza sanitaria globale?

«Le prescrizioni sanitarie cautelative non possono sopire il timore che trapela dietro le mascherine quando si è al supermercato per esempio ma nascondono una sete di collettività e socialità. Abbiamo bisogno tutti di una collettività e questo non porta a diluire la propria individualità ma rispettarsi nella reciprocità. Questo virus porta a comprendere tutto questo, a cosa sarebbe di noi se ci costringessimo ad imprigionarci in noi stessi, non sarebbe possibile continuare a vivere. Stiamo vivendo una situazione che finora ha interessato solo una parte della popolazione, che fosse chi ha subito un terremoto e immigrati o emigrati, utilizzata da alcuni a livello propagandistico quasi come una carta da gioco. Questo virus ci insegna che non esistono differenze, che tutti possiamo finire in una sorta di calderone e tutti siamo uguali di fronte a qualcosa di molto più grande senza differenze sociali o di altra natura.

In ogni occasione si parla dei vivi solo attraverso i morti, questo dovrebbe assolutamente cambiare perché non si può percepire la vita solo attraverso quel che manca e le sottrazioni. L’importanza c’è tutti i giorni e non solo quando manca. Lo stiamo vedendo in queste settimane con gli anziani, che rappresentano una grande fetta di società che ci ha permesso di andare avanti. In alcuni discorsi, sono stati considerati solo come una sorta di serbatoi da cui attingere e poi scartare quando non servono più. Il terremoto insegna che ci vogliono anche le radici, come per le piante. Serve a ridare senso laddove sembra svanito. Ne abbiamo perse molte e sarà molto difficile confrontarsi con quanto sta avvenendo. La generazione più giovane è stata considerata sul lavoro carne da macello ma ora sta avvenendo in maniera ancora peggiore con gli anziani, considerati come se non avessero alcun valore umano, un vuoto a perdere».

Undici anni fa, dopo il terremoto si discuteva su come sarebbe stata il ritorno ad una vita, una discussione simile sta partendo in queste settimane dopo l’emergenza sanitaria. E, come allora, le vite delle persone sono state considerate solo numeri senza considerare i drammi e i lutti che sono dietro quei numeri. Riprendendo lo slogan dei primi giorni, potrà andare tutto bene se si ripartirà dall’umanità e non dal calcolo?

«I numeri sfuggono a tutto questo perché quando si parla di assenza o di ricordi si fa riferimento a persone che in realtà continuano ad essere presenti. Una presenza che si deve fare portatrice per chi è molto giovane e qualcosa vorrà sapere, come successo con gli anziani sul passato. C’è stato uno scontro con le generazioni precedenti perché abbiamo preteso risposte e qualcuno un giorno le pretenderà anche da noi. È normale una prima fase di shock ma deve essere protesa verso una riflessione portando ad un apprezzamento di quel che si ha di fronte a quel che non si è potuto fare e all’impotenza di fronte all’ineluttabilità delle conseguenze di quel che stiamo vivendo e soprattutto delle persone che abbiamo accanto. Un oggetto possiamo ripararlo o sostituirlo, le persone sono invece uniche e irripetibili ma purtroppo vi è spesso coscienza di questo solo quando non ci sono più. Gli altri ci sono indispensabili per essere noi stessi, per cambiare, perché tramite gli altri capiamo chi e cosa vogliamo essere. Gli affetti sono soprattutto questo, illuminando la nostra vita».