Basta salari da fame (e lavoratori ricattati e schiavizzati)

Due titoli che da soli già descrivono una terribile realtà. "Basta salari da fame" è l’ultimo libro di Marta e Simone Fana, dopo la pubblicazione di "Non è lavoro, è sfruttamento". Abbiamo intervistato Marta Fana per una riflessione sui meccanismi di sfruttamento nel mercato del lavoro, di come sempre più sono aumentati lavoratori impoveriti e ricattati, finiti anche nelle grinfie di criminali e mafiosi.

Basta salari da fame (e lavoratori ricattati e schiavizzati)
Basta salari da fame (e lavoratori ricattati e schiavizzati)

«Ci è stato detto che bisognava rendere il mercato del lavoro più flessibile e abbassare i salari per aumentare la competitività delle aziende e saremmo stati tutti più ricchi: l’abbiamo fatto ma siamo solo più poveri e ricattabili», poche parole che riassumono il racconto e l’analisi della realtà italiana di Simone e Marta Fana nel libro Basta salari da fame. Un volume che ripercorre decenni di politiche economiche nel nostro Paese e consegna un quadro devastante del mondo del lavoro italiano: 3 milioni di lavoratori poveri, 5 milioni di cittadini a rischio povertà. Solo in Abruzzo una persona su cinque. 

I lavoratori sempre più sono stati considerati una variabile del profitto, un costo da abbattere, mentre veniva favorita l’esplosione di appalti e subappalti che hanno gonfiato i costi per la collettività, il caporalato (soprattutto dopo la legge 30 ex legge Biagi) e il volontariato coatto (in realtà lavoro gratis dai grandi eventi come Expò a concerti come quelli di Jovanotti fino ad arrivare a cooperative sociali nelle scuole, negli asili e in altre realtà  sociali che lavorano soprattutto nel settore pubblico). Una situazione di sfruttamento istituzionalizzata da una serie di scelte del legislatore che ha portato a rendere sempre più poveri i salari dei lavoratori che hanno un contratto regolare, mentre i nuovi occupati si concentrano soprattutto nelle fasce salariali più basse. Cancellando diritti e dignità del lavoratore, rendendolo sempre più precario e ricattato, indifferenti alla sua sorte come documenta un dato su tutti: in tutta la storia repubblicana una sola volta è stata costituita una commissione sulle condizioni dei lavoratori, nel 1953.

Abbiamo intervistato Marta Fana in occasione del breve tour di presentazioni di Basta salari da fame in Abruzzo e Molise.

Basta salari da fame, un titolo che è già tutto un programma e fa capire la situazione, dovrebbe essere scontato ma purtroppo non è così. Perché esistono dei salari da fame?

«E’ una tendenza naturale da parte delle imprese lasciate libere di massimizzare il profitto ed estrarne il più possibile. La questione fondamentale è come sono lasciate libere di farlo, abbattendosi non solo sui settori più vulnerabili ma anche di aggredire le condizioni di quella che una volta veniva definita classe media. E’ il frutto dei rapporti di forza sociali, mediati da una politica che ha adottato il punto di vista delle imprese in nome di una sorta di ideologia secondo cui solo abbassando i salari e abbattendo i diritti è possibile stimolare l’occupazione e la crescita. E’ alla base della  teoria di tutte le politiche economiche degli ultimi 35 anni sostanzialmente falsa perché rende piuttosto più vulnerabile la struttura produttiva, le imprese non sono stimolate a migliorarsi e rendersi più competitive e si assestano su produzioni a basso valore aggiunto potendo galleggiare grazie a bassi costi del lavoro. Le politiche economiche hanno agevolato la ricattabilità e il rischio licenziamento dei lavoratori rendendo più deboli i lavoratori che così hanno subito l’abbassamento dei salari, oggi il 14% dei lavoratori vive sotto la soglia di povertà o a rischio».

Basta salari da fame segue Non è lavoro è sfruttamento che già denunciava le condizioni dei lavoratori e le politiche economiche, testimoniando le evoluzioni del mondo del lavoro. Stiamo superando gli anni definiti della crisi, che hanno segnato l’Italia da un punto di vista sociale. Come è cambiata la situazione prima della crisi, durante e adesso? Su quali leve si basano i cambiamenti avvenuti? Hai già fatto riferimento alla ricattabilità dei lavoratori, tra le peggiori c’è stato il ritorno – anche se proibito dalla legge – delle dimissioni in bianco, clava soprattutto per donne che potrebbero avere figli o lavoratori che denunciano.

«Dal pacchetto Treu e dalle leggi del 1992 e 1993 abbiamo avuto una grande battaglia contro salari e diritti che hanno istituzionalizzato a favore delle imprese i rapporti di forza sociali, mercificando salari e diritti. E’ stata tolta la scala mobile e con gli accordi del 92/93 è stato bloccato ogni possibile aumento salariale che ha fatto esplodere le disuguaglianze nel mondo del lavoro e nella società, sono pochissime le società che hanno realmente margini di profitto elevati. Il pacchetto Treu ha liberalizzato i licenziamenti e le forme di precarizzazione portando  all’esplosione del part time e di contratti di collaborazione atipici. Col decreto Sacconi del 2001 abbiamo avuto poi la situazione di lavoratori che entrano nel mondo del lavoro scontando una valutazione salariale altissima rispetto anche solo a chi vi è entrato poche settimane prima, un divario retributivo che con l’avanzare delle carriere va aumentando. Situazioni peggiorate con la legge 30 (la cosiddetta legge Biagi), le leggi Fornero e il decreto Poletti – che ha ulteriormente liberalizzato i contratti a tempo determinato – che hanno ancor più compresso i diritti dei lavoratori, a partire dall’abolizione dell’articolo 18 e dalla possibilità di demansionamento e controllo sul posto di lavoro, fino alla deriva assoluta di istituzionalizzare forme di lavoro gratuito come l’alternanza scuola/lavoro della Buona Scuola di Renzi e il volontariato coatto, che nasconde vere e proprie forme di lavoro gratuito utilizzato incredibilmente soprattutto dagli enti pubblici. Si sono così favorite di fatto forme di ricatto sul posto di lavoro mentre si continua a sostenere che non ci sarebbero risorse per il riconoscimento dei diritti e la stabilizzazione dei posti di lavoro».

La settimana scorsa c’è stata una importanza sentenza a Torino sul riconoscimento come lavoratori dipendenti dei riders, tra coloro che insieme con i facchini scontano peggiore precarietà e mancanza di diritti. Il caporalato è tradizionalmente associato all’agricoltura ma negli ultimi anni l’abbiamo visto associato ad altri settori come la logistica. Lavoratori come i facchini o chi lavora per le grandi piattaforme dell’e-commerce sono ormai considerati vittime di un sistema di sfruttamento paragonabile al caporalato. Settori come la logistica dove, in alcuni casi, è stata documentato un interesse di gruppi mafiosi o para mafiosi, o dove anche se non ci sono tradizionali presenze criminali il modus operandi è pressoché lo stesso, e alcuni mesi fa in una fabbrica del modenese è emerso che esistono vere squadracce violente per il controllo e la repressione dei lavoratori. Da Torino può partire una inversione di tendenza e quale è la situazione di questo caporalato diffuso?

«La sentenza di Torino è una sentenza importante che potrebbe applicarsi a tutti i lavoratori di piattaforma e a tutte le forme di collaborazione tipo finte partite IVA. Sul caporalato la legge 30 ha abolito il divieto dell’intermediazione intermediazione e appalto di manodopera permettendo così affittare i lavoratori e creando una forte deresponsabilizzazione delle aziende alle dinamiche delle relazioni. La mafia in questo caporalato (perché tale è) c’è, a Stradella (provincia di Pavia) nel più grande magazzino della distribuzione dei libri poche settimane fa il proprietario è stato arrestato perché braccio destro di un clan di camorra. Non bisogna mai dimenticarsi la capacità di infiltrazione mafiosa nelle possibili crepe e possibilità, i mafiosi non fanno altro che produrre con maggiore violenza forme di sfruttamento che già esistono: nell’esplosione degli appalti e delle esternalizzazioni  esistono dei veri e propri intermediari che lavorano per le imprese con l’unico obiettivo di ricattare e reprimere i lavoratori, ci sono stati tanti casi come quello che citavi, il caporalato si diffonde in tutto il tessuto industriale e produttivo di questo Paese».