“Lea, in vita, non è stata mai creduta”

Marisa Garofalo ricorda la fimmina coraggio uccisa dalla ‘ndrangheta: «Mi fa rabbia vedere tante donne che festeggiano questa giornata. Non c’è niente da festeggiare». «Lea è stata una vittima di ‘ndrangheta, anche se la magistratura ha definito la sua morte un delitto passionale. Lo Stato non ha tutelato Lea».

“Lea, in vita, non è stata mai creduta”
Lea Garofalo (archivio di famiglia)
“Lea, in vita, non è stata mai creduta”
“Lea, in vita, non è stata mai creduta”
“Lea, in vita, non è stata mai creduta”

«A Lea non è mai stata offerta una mimosa e chi doveva offrirla, purtroppo, l’ha uccisa. Di mia sorella ho dei bellissimi ricordi: una ragazza molto solare, sorridente, fin da piccola molto combattiva. È stata sempre molto generosa e pronta ad aiutare tutti. A volte, però, penso anche alle cose brutte che mi raccontava. Tipo quando, dopo la fuoriuscita dal programma di protezione, subì il tentativo di sequestro a Campobasso ed era molto preoccupata. Ho sempre tentato di rassicurala, ma lei mi diceva sempre che queste persone (i Cosco, nda) erano pronte a fare tutto. Ci sono bei ricordi, ma anche pensieri brutti. Ad esempio, quando la vedevo stare male, perché aveva capito che l’avrebbero uccisa». Queste sono le parole di Marisa Garofalo, la sorella della fimmina calabrese, uccisa dalla ‘ndrangheta, nel novembre del 2009, a Milano. Dove  qualcuno ancora continua a dire che le mafie non esistono e che non fanno affari. Nella Giornata internazionale delle donne abbiamo voluto raccogliere il pensiero di un’altra donna combattiva che, oltre a costituirsi parte civile nei processi contro gli assassini di sua sorella, da diversi anni porta avanti la sua testimonianza, in tutto il Paese, per raccontare e far conoscere la storia di sua sorella. Nel Paese senza memoria è necessario continuare a ricordare. «Mi fa rabbia vedere tante donne che festeggiano questa giornata. Non c’è niente da festeggiare, non abbiamo nulla da festeggiare. Ricordo Lea tutti i giorni, non c’è una giornata in cui non penso a mia sorella. Festeggiare questa giornata è mancanza di rispetto per tutte quelle persone che sono state uccise».

Marisa Garofalo

Sono passati dieci anni dalla morte di una donna, che ha avuto il coraggio di rompere il codice secolare della ‘ndrangheta. Cosa è cambiato in questi anni nella sua vita?

«È cambiato quasi tutto, non si vive più la normalità. C’è sempre la preoccupazione che possa succedere qualcosa, personalmente non ho paura. Ma sono preoccupata per i miei figli. Alla fine ti ritrovi sola a combattere queste battaglie, perché anche gli amici più cari si allontanano, compresi i parenti che non sanno da che parte stare. Ma questo lo avevo messo in conto, come diceva sempre Lea. Già sapevo che, con la costituzione di parte civile, nel paese la gente si sarebbe allontanata. A me non interessa nulla, ho ritenuto di fare quello che ho fatto non solo perché era mia sorella, ma perché era giusto farlo».

 

Lei e sua madre, la signora Santina, vi siete costituite parte civile e grazie alla vostra testimonianza, sommata a quella di Denise, si è arrivati alla condanna degli assassini di Lea. Però, nei mesi scorsi, si è registrata una polemica, ripresa dagli organi di informazione. La Prefettura di Crotone ha bloccato il risarcimento accordato dai giudici milanesi. Lei cosa può aggiungere?

«Sì, in realtà è stata respinta la domanda per quanto riguarda il risarcimento. La Prefettura di Crotone afferma che non ho diritto al risarcimento in quanto avevo delle conoscenze delinquenziali. Ma questo non è assolutamente vero. Nella mia famiglia non c’è più nessuno: mio padre e mio fratello sono morti, lo stesso vale per i miei cugini e i miei parenti. Sono rimasta soltanto io. E, comunque, non ho nessuna conoscenza e nemmeno frequento queste persone nel mio paese. Se così fosse dovrebbero fare nomi e cognomi delle persone che frequento. Questa decisione mi ha fatto male, non hanno tenuto conto di quello che sto facendo. Non solo mi sono costituita parte civile, ma ogni porto la testimonianza di Lea in tutta Italia, racconto la storia di mia sorella anche, e soprattutto, ai ragazzi nelle scuole».

 

C’è un ricorso su questa decisione?

«In aprile ci sarà una prima udienza».

 

Lea è morta per salvare un’altra vita, quella di sua figlia Denise. Quali sono i rapporti con sua nipote?

«La motivazione principale è stata proprio quella di salvare Denise. Lea diceva sempre: io non voglio che mia figlia cresca con un padre ‘ndranghetista. Questa decisione è stata presa, soprattutto, per allontanare mia nipote da quell’ambiente criminale. Per quanto riguarda i rapporti con Denise devo dire che ci vediamo poco durante l’anno, facciamo tre o quattro incontri. Denise, per me, non è solo la figlia di Lea ma è anche mia figlia. L’ho sempre seguita, sin da piccola. Denise si faceva le vacanze estive a casa mia con i miei figli, mentre Lea era a lavorare. Per me c’è un affetto particolare e penso anche da parte sua, almeno per quello che ci scriviamo e ci raccontiamo ogni volta che ci incontriamo».

 

Come vive oggi Denise?

«Purtroppo vive sotto protezione, non è una ragazza libera. Se anche, a volte, mi scrive che vorrebbe stare insieme ai cugini e con noi, questo, purtroppo non è possibile».

 

Lea ufficialmente, secondo la sentenza definitiva che ha condannato i suoi aguzzini mafiosi, non è una vittima di mafia. Lei concorda con questa tesi?

«No, assolutamente. Non concordo perché Lea è stata una vittima di ‘ndrangheta, anche se la magistratura ha definito la sua morte un delitto passionale. Ma non sono mai stata d’accordo. Ci sono anche grosse responsabilità istituzionali che, purtroppo, nessuno pagherà mai. È una vittima di ‘ndrangheta e di femminicidio».

 

Lea è una vittima di Stato?

«Sì, perché lo Stato non l’ha tutelata a sufficienza. Non ha tutelato Lea come doveva fare. Lea non è stata mai creduta quando era in vita. È dovuta morire per essere credibile. Tanto è vero che dopo la sua morte ci sono state decine di arresti grazie alle sue dichiarazioni. È una cosa che fa rabbia, non si deve morire per diventare credibili».  

 

Ha avuto contatti, anche indiretti, in questi anni, con il maggiore dei fratelli Cosco, Giuseppe (detto Smith), assolto definitivamente dai giudici milanesi?

«Mai nessun contatto. L’ultima volta che l’ho visto è stato in Tribunale, durante le udienze del processo, erano tutti in gabbia».

 

Alcuni componenti della famiglia Cosco risiedono nel territorio dove lei vive?

«Sì, ci sta anche un fratello uscito dal carcere. C’è anche il padre».

 

Cosa pensa di Carmine Venturino, l’ex fidanzatino di Denise, oggi collaboratore di giustizia?

 

«Non l’ho mai ritenuto credibile al cento per cento. È stato doppiamente vigliacco: avrebbe dovuto collaborare fin dal primo momento e non aspettare la condanna all’ergastolo».

 

Lei, donna e madre, ha perdonato gli assassini mafiosi di sua sorella?

«No. Credo che non accadrà mai. Non ci sarà mai perdono per queste persone».