Bolzoni cambia la carta ma non la penna

L’8 gennaio, sulle colonne del quotidiano Domani, l’ottimo Attilio Bolzoni si leva, per così dire, un paio di sassolini dalla scarpa. Non che avesse mai nascosto la sua idiosincrasia sull’utilizzo del termine antimafia usato come aggettivo e accostato alle professioni ma questa volta più che mai lo dice, anzi lo scrive a chiare lettere.

Bolzoni cambia la carta ma non la penna

Solo qualche giorno fa, dal 1° gennaio, Attilio Bolzoni, cronista che si è occupato di criminalità di stampo mafioso, e non solo, fra i più noti nel mondo, ha lasciato il quotidiano Repubblica dopo 41 anni per trasferire la sua penna al quotidiano Domani, il quotidiano di De Benedetti che dal 15 settembre dello scorso anno è nelle edicole. Il suo primo articolo lo scrisse il 22 luglio 1979, il giorno successivo all’omicidio del capo della Squadra Mobile Giorgio Boris Giuliano avvenuto a Palermo.

 

Il perché Bolzoni abbia scelto di tornare a “casa De Benedetti” sta nelle diverse idee di giornalismo che ci sono tra lui e Maurizio Molinari, il direttore di Repubblica che, dopo l’acquisizione subita dal gruppo Gedi ha perso quel ruolo proprio di Repubblica sin dalla sua fondazione, l’essere un giornale di sinistra, laico e radicale.

Bolzoni è stato, senza dubbio, uno di quei giornalisti che meglio hanno rappresentavano l’identità e la continuità di quella Repubblica guidata da Eugenio Scalfari, uno dei più prestigiosi direttori del quotidiano.

 

Si è sicuramente trattato di uno strappo doloroso, motivato in parte dalla minore attenzione che la Repubblica di Maurizio Molinari riserva ai temi della criminalità mafiosa al Sud tanto quanto al Nord.

Per Domani Bolzoni farà inchieste e analisi e, probabilmente, non replicherà quel blog “Mafie” che aveva ideato e curava su repubblica.it anche se, leggendo i suoi post sui social network dell’ultima settimana di dicembre, traspare la volontà di voler continuare quell’approccio instant che “Mafie” ha avuto. Forse qualcosa bolle in pentola.

 

L’8 gennaio, sulle colonne del quotidiano Domani, l’ottimo Attilio Bolzoni si leva, per così dire, un paio di sassolini dalla scarpa. Non che avesse mai nascosto la sua idiosincrasia sull’utilizzo del termine antimafia usato come aggettivo e accostato alle professioni ma questa volta più che mai lo dice, anzi lo scrive a chiare lettere. Non solo.

Conia una nuova definizione, che devo essere sincero, mi piace moltissimo, “influencer antimafia” e dichiara che proprio “l’influencer antimafia non fa male alla mafia”.

 

In altre occasioni Bolzoni aveva contestato l’uso dell’aggettivo sopra citato alla parola giornalista dicendo: “non esiste il giornalista antimafia, esiste il giornalista e basta” e, aggiungo io, a patto che lo sappia fare.

 

Ad esempio, aveva criticato l’abuso che l’aggettivo “antimafia” anche nel suo libro, pubblicato per i tipi di Zolfo, dal titolo “Il padrino dell’antimafia”.

A pagina 225 Bolzoni dice "Nel mazzo c'è anche qualche mio collega, specializzato in un'informazione di superfice, galleggiante, sempre pronta ad infierire su quelli che noi siciliani delle province interne chiamiamo 'incagliacani', accalappiacani. Gente di poco conto. Con una 'spettacolarizzazione' e una 'banalizzazione' del racconto della mafia che non disturba mai nessuno, fa solo schiuma, fa solo show. (...) Alcuni di questi campioni di conformismo e della scaltrezza gridano in ogni dove 'la mafia è una montagna di merda', dimostrando cos' ardimento e baldanza, tenedosi però sempre lontani dai fili dell'alta tensione".

 

Anche in questo caso, parlando dell’influencer antimafia, le sue valutazioni sono analoghe. Santini, commemorazioni, like e commenti struggenti si mescolano a gattini, passerotti e slogan impossibili come ho scritto nei giorni scorsi, sempre su questa testata, in cui li ho definiti un “gruppo di temerari leoni da tastiera che alimentano i social e che si sentono depositari della verità solo perché scrivono post incollando stralci di sentenze o delle relative motivazioni e che mescolano sentenze di primo grado con quelle di secondo, o viceversa, con la disinvoltura con cui si possono spostare gli ingredienti all’interno della lista necessaria per eseguire una ricetta.

 

A questi, non sufficientemente compiaciuti di se stessi, aggiungono articoli di giornali e stralci di interviste, ancora una volta senza leggere la data di pubblicazione e, soprattutto, se alle dichiarazioni che riportano è seguita una denuncia ed è stata richiesta una ritrattazione che, forse non è mai stata pubblicata. Inoltre, e sono costernato per loro, il famigerato “Grande Fratello” non arriva ovunque e molto spesso le loro esternazioni, che diventano illazioni, passano inosservate proprio perché oramai l’arena dei social si può considerare zona franca e la visibilità dei loro post è l’equivalente di quella che potrebbero ottenere uscendo dalla porta di casa e urlando lungo la tromba delle scale. Nella peggiore delle ipotesi possono disturbare qualche loro condomino dopo aver raggiunto tutti quelli che erano a casa in quel momento. Risibile.

 

Parvenu social, ovviamente, dell’ultima ora che chiamano per nome il dottor Falcone e il dottor Borsellino come  se tra loro ci fosse una rapporto di cuginanza, foto del profilo che ritraggono i magistrati anziché il loro volto e, dulcis in fundo, nomi del profilo che non sono i loro ma quelli di uomini dello Stato che hanno pagato con la morte le loro scelte.

 

Il tutto in cambio di qualche like e, finalmente, della possibilità di uscire dal loro vacuo anonimato e trasformarsi in “esperti di antimafia”, disconoscendo poi in toto la mafia tanto da non riconoscerla quando gli si mette accanto e li sprona a continuare.

 

Tutta questa storia mi fa venire in mente, inevitabilmente, Esopo e la sua “La volpe e l’uva”. Esagerato? Non direi. Le caratteristiche ci sono tutte.

 

Come la volpe disdegna l’uva cui non può arrivare perché troppo alta, così gli influencer dell’antimafia disdegnano i giornalisti che di mestiere si occupano del fenomeno mafioso, e non di antimafia come ci ricorda giustamente Bolzoni, per la visibilità che questo rischio gli fornisce e decidono, eorum sententia, chi è nel giusto e che non lo è con l’unico metro in loro possesso. Metro? Forse decimetro, visto che il gradimento di quanto scrivono i giornalisti deve collimare con le loro idee e con la loro, scarsa, competenza. Hanno bisogno, e cercano, populismo informativo e non informazione.

 

L’informazione terza e obiettiva non si confà alla loro natura, così necessitosa di conferme che gli permettono, ancora una volta, di poter contare con orgoglio like, cuoricini e commenti entusiastici.

E poco importa se ricevono in cambio dai loro beniamini post sponsorizzati con like acquistati a poco prezzo sul mercato, li rilinkano con gioia finendo loro stessi nella trappola (dis)informativa. E così mentre la volpe disdegna l'uva, loro disdegnano l'informazione corretta.

 

Nelle settimane scorse, leggevo un’analisi che riguardava l’informazione e, nello specifico, la disinformazione.

 

L’evoluzione delle fake news era uno degli argomenti principali e l’analisi evidenziava come il fenomeno non solo si fosse allargato a macchia d’olio per le necessita di fornire disinformazione di alcuni politici, anche italiani, e della necessità di “incendiare” il loro potenziale elettorato.

 

Esiste anche quella che potremmo definire la fake 2.0. Di cosa si tratta?

Di una notizia che si basa su una verità che però viene distorta e rimaneggiata a proprio uso e consumo. Anche in questo caso esistono società di comunicazione specializzate ad inondare il web di Fake news 2.0 ma, in realtà, questo è quello che promuovono gli “influencer dell’antimafia”.

Tornaconto personale  o stupidità?

 

Nella maggior parte dei casi si tratta di stupidità, troppo idioti per essere giudicati interessanti a chi li potrebbe corrompere.

 

A proposito, dopo aver dichiarato, per chiarezza, che non ho nessun interesse né diretto tantomeno indiretto, con il libro di Bolzoni che ho citato e il suo editore – la mia copia l’ho pagata a prezzo pieno – mi sento di consigliarvi la sua lettura, qualunque mestiere voi facciate.

 

Non solo perché stato il primo libro che si è occupato del cosiddetto “sistema Montante” ma, e per questo lo consiglio vivamente a tutti quelli che vogliono intraprendere la strada del giornalismo, perché il libro è il “taccuino di un cronista” con i suoi dubbi, le sue incertezze, le sue paure.

 

Dalla lettura del libro scopriamo come, spesso, sia necessario attendere, che lo scoop fine a se stesso non è sinonimo d’informazione, di quanto siano importanti i riscontri e che, spesso, non basta il primo.

 

Ancora una precisazione perché non vorrei che i sassolini che Bolzoni si è tolto dalla scarpa si sentissero soli.

 

E’ facile essere “amici” dei morti, non potranno mai raccontare quante volte li avete lasciati soli o di quanto giravate il capo incrociandoli nei corridoi. Cercate di essere amici dei vivi che, molto spesso, vengono lasciati soli e soffrono della vostra ignavia.

 

Ma, soprattutto se siete siciliani, ricordatevi di Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Pippo Fava, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Mario Francese, Mauro Rostagno e Giovanni Spampinato.

 

Non scrivevano per compiacere qualcuno e, tantomeno, per i like e i cuoricini.

Nessuno di loro voleva essere trasformato in un “santino” sotto il quale, a cadenza annuale, viene accesa la flebile candela dell’ipocrisia. Scrivevano perché era la cosa giusta da fare e basta.

 

Ad maiora.

 

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