Caporalato e sfruttamento sessuale, l’inferno nelle serre del ragusano

Un buco nero delle coscienze, false e sporche, dell’Italia di oggi. Nelle campagne e nei capannoni del ragusano le terribile condizioni di schiavitù delle donne rumene.

Il caporalato, il dominio totale della vita e della sopravvivenza dei lavoratori sfruttati, la disumanizzazione totale, le baracche fatiscenti e in pessime condizioni igieniche sono una realtà devastante e drammatica che coinvolge campagne (e non solo) di varie zone d’Italia. Dove migliaia di persone sono marginalizzate, sfruttate e violentate da mafie e padroni. Un sistema criminale che parte dallo sfruttamento lavorativo ma, come documentato anche a Mondragone, va anche oltre e può arrivare anche allo sfruttamento sessuale.

Una delle più squallide e disumane vicende della provincia italiana si perpetra da tanti, troppi anni, nel ragusano. Finita nel 2017 e nel 2019 anche sulle colonne del Guardian ma, tranne rari casi come vedremo, ignorata totalmente da stampa e opinione pubblica italiana. Ma sono tantissimi anni che ricerche universitarie e inchieste di pochi giornalisti coraggiosi hanno cercato di illuminare questo buco nero della civiltà e dell’umanità. Dopo le prime denunce de L’Espresso, inchieste firmate Antonello Mangano, il governo italiano dell’epoca rispose ad un’interrogazione parlamentare che le denunce erano poche e quindi era un «fenomeno non significativo».

Una negazione vergognosa dei fatti, un vigliacco abbandono delle sfruttate e abusate. Se davanti a mafie e caporali, padroni e padrini chinano il capo e si coalizzano pezzi delle istituzioni e della politica, rimangono in silenzio o lanciano campagne mediatiche e propagandistiche squallide contro le vittime e in difesa degli aguzzini i grandi centri del potere mediatico-politico, secondo il governo italiano dell’epoca (ma prima e dopo la situazione non è molto diversa) donne sole ed indifese avrebbero dovuto denunciare senz’indugio. Altrimenti nulla è vero e tutto viene coperto. 

La ricerca di Alessandra Sciurba per il Centro di documentazione L’altro diritto dell’Università di Firenze http://www.adir.unifi.it/rivista/2013/ragusa.htm  è del 2013, in quegli anni i primi reportage furono pubblicati da Antonello Mangano su L’Espresso. «Si lavora nelle serre per più di 12 ore al giorno, a temperature altissime d'estate e basse d'inverno, immersi nei fitofarmaci e nei diserbanti dannosi per la salute» la denuncia nei primi paragrafi. Sintesi di cosa nell’Italia del XXI secolo, nel cuore dell’Europa che arrogantemente si definisce civile, è lo schiavismo imperante.

«Il nostro obiettivo principale è l'emersione dei fenomeni di tratta, ma anche di grave sfruttamento, da cui questo territorio è evidentemente segnato in modo estremo – la testimonianza della cooperativa Proxima - Le donne che lavorano nelle serre sono tra le prime vittime, e non solo dal punto di vista dello sfruttamento lavorativo».

«Il nuovo orrore delle schiave romene», 5mila donne sfruttate nelle serre del ragusano, segregate nei campi e costrette a subire «ogni genere di violenza sessuale» durante festini organizzati dai padroni per familiari, parenti e amici. «Per lavorare nelle serre le donne romene non devono solo accettare una paga misera», scrisse Alessandra Sciurba «a fronte di giornate lavorative che durano anche 14 ore. Il loro sfruttamento è doppio, poiché molte di esse devono inoltre accettare di piegarsi ai piaceri sessuali dei datori di lavoro, dei caporali, dei colleghi».

Padre Beniamino Sacco, intervistato nella ricerca di Alessandra Sciurba, denunciò come «si arriva a dar vita a vere e proprie feste a sfondo sessuale in cui i proprietari e datori di lavoro mettono a disposizione di amici e conoscenti le proprie lavoratrici. I festini sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare, perché le grandi aziende sono più controllate. Hanno luogo tra le serre stesse, o in cascine isolate, o talvolta anche in disco-bar poco frequentati. Le ragazze coinvolte sono lavoratrici rumene giovani che spesso hanno dai 20 ai 24 anni. A volte si tratta anche di ragazze figlie di dipendenti a cui il proprietario affitta la cascina. Ogni tanto succede anche che siano i figli dei proprietari a sfruttarle».

«Situazione gravissima, minorenni costrette ad abortire» titolò una video-inchiesta L’Espresso nel 2014. «Mia moglie ha subito continue molestie dal padrone» anche in mia presenza fu la testimonianza un rumeno di cui non fu, ovviamente, reso noto il vero nome. «Una cascina in aperta campagna. Ragazze rumene sui vent'anni. Un padrone che offre» ragazze giovani e giovanissime «agli amici. Ai figli. Tutti sanno e tutti tacciono. Don Beniamino Sacco è il sacerdote che per primo ha denunciato i "festini agricoli". Sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare, denuncia il parroco» si legge in un’inchiesta di Antonello Mangano pubblicata su L’Espresso nello stesso anno. «Per le vittoriesi la colpa è delle rumene. Sono loro a tentare il maschio siciliano, per sua natura focoso. C'è una fortissima rivalità tra donne – scrisse nello stesso articolo Mangano - L'uomo “cacciatore", ovviamente, è orgoglioso delle "conquiste". Vantarsi di queste cose dentro le serre è normale».

Frasi che sintetizzano l’inferno che nella «civilissima» Italia subiscono le donne sfruttate, abusate e violentate. Rivittimizzate e additate loro come colpevoli mentre stupratori e carnefici vengono assolti o, addirittura, portati in trionfo. L’oppressione patriarcale, criminale, disumana, squallida, mafiosa vive e prospera anche così.

Dopo alcuni arresti da parte della Squadra Mobile di Ragusa e le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia nel dicembre 2019 sono arrivate alcune condanne davanti il Giudice per le Udienze Preliminare di Catania.

Le indagini che hanno portato alla redazione del Quinto Rapporto «agromafie e caporalato», curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, si sono concluse alla fine di febbraio del 2020. Le settimane in cui la pandemia stava iniziando ad irrompere anche in Italia. In uno scenario di «totale dipendenza» dal padrone, «di invisibilità e isolamento  dovuto anche alla mancanza di servizi pubblici di trasporto –lo sfruttamento delle operaie agricole rumene è spesso caratterizzato anche da ricatti e abusi sessuali» si legge nel Rapporto. Una delle storie più drammatiche è l’inferno di una ragazza, che ha avuto poi la forza di fuggire e denunciare il suo aguzzino, che per nove anni subì lo sfruttamento lavorativo e sessuale. Quando riusciva ad avere la forza per opporsi allo sfruttamento sessuale il giorno dopo il padrone «aumentava il carico di lavoro nei campi», le pressioni psicologiche e gli insulti. In quei nove anni «era rimasta incinta del suo padrone diverse volte e, in alcuni casi, quando non era riuscita ad andare in Romania, si era procurata l’aborto con acqua bollente e altri espedienti».  

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